traduzione di Sofia Cavazzoni
E una volta che gliel’avevo detto che ne sapevo io cosa fare? Non avevo mai visto mio padre piangere. Mai. Neanche quando era morta la mamma in un incidente nove mesi prima aveva pianto, per quel che ne so io. Sono sicuro perché fui io a dargli la brutta notizia. Ed ero lì tutto il tempo, fino al funerale e dopo. Era il mio lavoro stare con lui. I miei zii avevano organizzato tutto, portato la bara. E i vicini, incaricati dalle mie sorelle, tenevano la casa più o meno in ordine. Ma c’era una specie di accordo – tacito, se così si può dire – che era meglio se io rimanevo con papà dato che ero il più piccolo, l’unico ancora a casa tutto l’anno.
Ecco perché sono quasi sicuro che non abbia pianto neanche una lacrima. Per lo meno non alla luce del sole. Il fazzoletto neanche gli serviva, tranne quando doveva soffiarsi il naso. Certo, era sconvolto. Dovevi strappargli le parole di bocca. Trascorrevano lunghi silenzi mentre lui rimaneva a fissare il fuoco o a guardare fuori dalla finestra della cucina. Ma non versava neanche una lacrima. Forse è stato lo shock. Il terribile shock al suo organismo. Anche se, come ho detto, mio padre non è mai stato tipo da piagnistei.
Ecco perché rimasi così spiazzato. Mortificato. Non solo per il pianto. Ma per il modo in cui piangeva. Ché poi non era davvero un pianto. Era più una via di mezzo tra un gemito e un singhiozzo in fondo alla gola. Un sospiro doloroso e soffocato di repulsione, o almeno così pareva. Durava solo qualche istante. E quel modo così improvviso di fermarsi ti faceva pensare che l’avesse inghiottito come si fa con quegli schifosi pasticconi che prescrive il dottore. Non mi guardò neanche, eccetto per l’occhiata furtiva e acquosa che mi lanciò quando glielo dissi. Dopodiché era come se provasse a nascondere tutta la faccia o quasi, da me. In un certo senso per lui era più facile, ma per me no; per quanto volessi non riuscivo a guardarlo in faccia. Così, mentre lui tergiversava, io sedevo immobile, spogliato di tutto tranne che del calore del mio corpo. Entrambi con il fiato corto. Poi mi accorsi che persino il suo pianto soffocato – se di pianto si trattava – era meglio di quel silenzio. Se qualcuno piange davanti a te, puoi provare a fare qualcosa, forse. Ma un silenzio totale è astratto e inquietante. Lungo, esasperato, doloroso come un parto. Sentivo solo che, per tutto il tempo, lui non riusciva a guardarmi, anche quando aveva racimolato le forze per fare due respiri profondi uno dopo l’altro e, alla fine, mettere insieme due parole.
«Quindi sei…» disse, come se la parola fosse rimasta incastrata o si fosse gonfiata nella gola fino a non sapere se era sicuro pronunciarla, o forse sperava che fossi io a dirla – la parola che gli aveva tappato le orecchie proprio in quel momento, una parola che non avrebbe mai pensato di formare nella sua gola di contadino se non per rigurgitarla in qualche barzelletta sconcia per gli amici giù al pub. In irlandese non esisteva una parola educata per questa parola, di certo non una che venisse subito in mente… Troppo concentrato a cercare di leggergli la mente, mi accorsi di non avergli ancora risposto quando ripeté:
«Mi stai dicendo che sei…»
«Sì» dissi, più o meno consapevole di averlo interrotto con una reticenza simile alla sua, senza sapere se questa volta avrebbe concluso la frase oppure no. «Sì» ripetei velocemente, come se la parola potesse scapparmi via e nascondersi, in un fugace tentativo di riempire il silenzio vuoto.
«Che Dio ci aiuti» disse. «Cristo santo figlio di Dio, salvaci tu». Le parole uscirono come se le avesse trascinate una ad una dall’altra parte del mondo. Per un momento sembrava avrebbe detto dell’altro, almeno qualcosa, se ci fosse stata una risposta già confezionata o una comoda banalità, due parole da strappare al silenzio.
«Me ne accorgo ora», gemette, inspirando profondamente l’aria della cucina e ributtandola fuori con forza. «Ora te ne accorgi?»
Prese il secchio del carbone e aprì il fornello per ravvivare il fuoco. Poi prelevò un paio di zolle di torba dal sacco di plastica accanto al fornello e, dopo aver rotto sul ginocchio gli ultimi due pezzi per irrobustire l’angolino nello spazio stipato del fornello aperto, li infilò in cima. Unire carbone e torba in questo modo era una sua abitudine. Il carbone era troppo caldo – e anche troppo prezioso per usarlo da solo, come diceva lui – e a volte era difficile bruciare la torba o riuscire a riscaldarsi solo con quella, soprattutto se era ancora un po’ molle per colpa dell’estate piovosa. Prese la piccola scopa dal gancio e spazzò dentro il fuoco tutti i rimasugli polverosi di torba depositati sul fornello. Poi scivolò la piastra di ferro al suo posto con un acciottolio e respirò di nuovo profondamente, concentrandosi sul fornello.
«E alle tue sorelle l’hai detto?»
«Sì, quando sono tornate a casa quest’estate. La sera prima che rientrassero in Inghilterra».
Si fermò un attimo, ancora mezzo chino sul fornello.
Aprì la bocca, poi la richiuse senza fare rumore, come un pesce rosso dentro una boccia. Ci riprovò e, con la voce ancora spezzata, mise insieme una frase monca:
«E tua madre, lo sapeva?»
«Non lo so» dissi. «A una madre certe cose non serve dirle».
«Proprio così, a una madre non serve… Dio benedica l’anima dei defunti».
Si fece il segno della croce, imbarazzato. «Ma i padri non si accorgono di nulla. Nulla finché non glielo spiattellano in faccia».
A quel punto si avvicinò al tavolo e versò nel bollitore già pieno una goccia d’acqua del pozzo che era nel secchio. Poi ripoggiò il bollitore sul fornello come per cuocere l’acqua per il tè nel modo in cui faceva dopo la mungitura. Invece di usare l’acqua del rubinetto e il bollitore elettrico, preparava sempre il tè con l’acqua del pozzo e la bolliva nel vecchio bollitore, a meno che non fosse mattina presto quando non aveva tempo. Risparmiava sull’elettricità, diceva sempre. Neanche la mamma riuscì a fargli cambiare idea. Voleva togliere di mezzo il fornello a carbone e sostituirlo con una cucina elettrica più affidabile, più precisa, come diceva lei, per fare tutto – bollire, cuocere in forno, preparare il pranzo e la cena e riscaldare il latte per i vitelli. “E se va via la corrente?” ribatteva lui, “Per colpa di un temporale o di un fulmine? Se non c’è elettricità quel fornello è un bell’aiuto”. E ogni volta che capitava, ci guardava tutto soddisfatto e diceva: “Non siete contenti ora di avere il fornello a carbone?”
Sollevò l’attizzatoio, aprì la piastra del fornello e c’infilò l’attizzatoio per ravvivare il fuoco nel tentativo di richiamare qualche fiamma dalle profondità. Quando le braci non reagirono come si aspettava, ruotò in modo piuttosto goffo il pomello in alto perché la cappa risucchiasse le fiamme. Attizzò il fuoco un altro paio di volte, un po’ più a fondo, provando a lasciar passare l’aria. Da lì a poco le fiamme presero a danzare, rosse e blu, leccando le zolle di torba scure e scoppiettando e svolazzando sopra il carbone duro, prima timide e poi sempre più forti e coraggiose. Richiuse la piastra con un colpo secco, ruotò saldamente il pomello con la mano sinistra e rimise l’attizzatoio nell’angolo.
«E allora la figlia di Jimí Baeg, Síle?» chiese all’improvviso, quasi sorpreso di non averci pensato prima. «Non uscivi con lei qualche anno fa?» disse mentre nella voce cresceva uno spiraglio di speranza.
«Sì… Più o meno» balbettai. Sapevo che non era una risposta ma era il massimo che potevo fare in quel momento.
«Più o meno» ripeté. «Che vuol dire più o meno? O ci uscivi o non ci uscivi. Non è venuta qui per un anno e Dio solo sa per quanto tempo prima? Sicuro ha lasciato Tomáisín Tom Mahry per uscire con te, ho ragione?». Fissava la griglia per il bucato sopra il fornello.
«Ma io…», cambiai idea e dissi «Avevo solo diciotto anni. Nessuno sa cosa vuole a quell’età» aggiunsi, «o cosa è destinato a lui».
«E invece a ventidue anni lo sappiamo bene. A ventidue anni si pensa di sapere tutto».
«Magari fosse così facile» dissi sorpreso di essermi esposto in questo modo.
«Certo, non è facile. Anzi!»
Spinse il bollitore da una parte e sollevò di nuovo la piastra del fornello per controllare se il fuoco era ancora acceso. Era acceso.
«Sono uscito con lei perché non sapevo… Non sapevo cosa fare, perché tutti gli altri avevano una ragazza…»
«Quindi tu…»
«All’inizio gliel’ho chiesto perché dovevo invitarne una al ballo di fine anno. Tutti ce l’avevano. Non potevo andarci da solo. E portarci una delle mie sorelle sarebbe stato ridicolo. Non ci sarebbero venute comunque. E non potevo rimanere a casa perché sarei stato l’unico di classe mia a non andarci. Che potevo fare?» dissi, stupito di aver parlato così tanto.
«Che ne so io di quello che dovevi fare? Non potevi essere come gli altri e basta… In quel modo, in quel modo o stavi a casa?»
«Non potevo» dissi. «Non per sempre. Non è che non ci ho provato…». Ci pensai due volte prima di proseguire, temendo che non avrebbe capito.
«Quindi è per questo che vai a Dublino così spesso» disse, contento di esserci arrivato da solo.
«Sì, credo» risposi. Che altro potevo dire?
«E noi tutti convinti che avessi trovato la donna. La gente voleva sapere se l’avevamo già conosciuta… O quando l’avremmo incontrata. La zia Nora mi chiedeva giusto l’altro giorno quando ci sarà il prossimo matrimonio… Secondo lei un anno dopo la morte di tua madre si può fare».
«La zia Nora farebbe bene a pensare agli affari suoi. È lei la prima a non essersi sposata» dissi, arrossendo all’insinuazione che avevo appena pronunciato.
«Fino a Dublino! Ma dimmi tu» disse tra sé e sé. «Dublino è una città losca e pericolosa» aggiunse in un modo che bastava a sé stesso.
Si girò dando le spalle al fornello e trascinandosi verso il tavolo di cucina. Poi inclinò con due mani il secchio con il latte per versarne un po’ nella brocca finché quasi non straboccò. Pronto a prendere un panno umido e a pulire se ce ne fosse stato bisogno, fui contento che ne avesse rovesciato non più di una goccia. Ero a disagio e mi vergognai di rimanere seduto a guardarlo fare quello che di solito era il mio lavoro. Versò nella scodella per i vitelli il latte avanzato nel secchio e lo mise accanto al fornello per riscaldarlo fino alla mungitura delle mucche. Dopodiché lo avrebbe portato lui ai vitelli. Sollevò il secchio smaltato che ogni mattina dopo la mungitura veniva lavato e poggiato sui supporti in legno del tavolo. Poi gli diede una sbollentata con l’acqua calda del bollitore – acqua bollita tanto a lungo da farlo fischiare. Ripoggiò il bollitore, con il beccuccio rivolto verso l’interno, accanto al fornello per evitare di riscaldarlo ulteriormente. Quindi mescolò l’acqua che bolliva nel fondo del secchio e la vuotò tutta insieme nella scodella dei vitelli. Si allungò un poco per afferrare lo strofinaccio sulla stecca sopra il fornello, così asciugò il secchio e lo appese di nuovo in modo maldestro, assicurandosi che non rotolasse sul fornello. Non lo fece.
D’un tratto si raddrizzò come se un pensiero lo avesse attraversato all’improvviso. Si voltò e mi guardò per un attimo, i nostri occhi si incontrarono e si studiarono. Ora il suo sguardo era diverso dall’inaspettata occhiata lacrimosa che mi aveva lanciato quando glielo avevo detto per la prima volta. Adesso notavo le rughe sulla fronte, alcune arricciate altre squadrate, i capelli grigi appiattiti in una frangia, le sopracciglia, gli occhi. Che occhi! Volevano scacciare qualunque fantasticheria mi balenasse in testa in quel momento. Mi avevano fatto venire voglia di scappare. Quegli occhi che potevano dire così tanto senza dire una parola. Sapevo che l’unico modo per conoscere un uomo era guardarlo dritto negli occhi, anche se di sfuggita, segretamente… Distolsi lo sguardo, incapace di sostenerlo ancora, grato che avesse deciso di spezzare il silenzio. Si infilò il secchio sotto il braccio come faceva quando andava a mungere.
«E come stai di salute?» riuscì a dire, nervoso. «Stai bene di salute?»
«Sì, sto bene» risposi più veloce che potevo, felice di potergli dare una risposta concreta. Cominciai a tamburellare le dita sul tavolo. La sua domanda mi stupì.
«Dio ci salvi, non sia mai» disse davanti alla porta voltandosi un poco verso di me. Si vedeva che era sollevato.
«Non devi preoccuparti» dissi approfittando per guadagnare la sua fiducia. «Sono attento. Molto attento. Sempre».
«Puoi stare attento al cento per cento?» aggiunse curioso, il tono più disteso. «Voglio dire, se è vera la metà delle cose che dicono i giornali e la televisione».
Lo lasciai parlare e mi accorsi che forse sapeva più di quello che pensavo. Non era sempre puntata verso di lui la televisione, con il chiacchiericcio di certi programmi mentre sedeva sulla poltrona con gli occhi chiusi, sonnecchiando accanto al fuoco, o almeno così pareva, ma è probabile che assorbisse tutto.
Prese il cappotto dal retro della porta, lo appoggiò sulla sedia.
«E me lo dovevi proprio dire questo tuo segreto, alla mia età?»
«Sì e no» dissi prima di rendermene conto, ma continuai: «Cioè, non è che dovevo dirtelo per forza, ma avevo paura che lo venissi a sapere da qualcun altro, avevo paura che qualcuno dicesse qualcosa su di me davanti a te». Pensavo di starmela cavando. «Pensavo lo dovessi sapere comunque. Pensavo fossi pronto».
«Pronto! Guarda come sono pronto. Quindi la gente qui intorno lo sa?»
«Già, così pare. Non puoi nascondere niente. Soprattutto in un posto sperduto come questo».
«E secondo te puoi rimanere qui?», in quell’esclamazione mi sembrò di leggere una sorta di ribrezzo. Le sue parole mi colpirono talmente veloce che non riuscii a capire se erano un’affermazione o una domanda. Serviva una risposta? La dovevo dare io o lui? Me lo sono chiesto. Certo che era mia intenzione o anzi, dovrei dire, certo che ero felice di rimanere. Era mio padre. E io ero il figlio più piccolo, l’unico maschio. Le mie due sorelle erano sposate e vivevano a Londra. Quindi toccava a me. Anche se le mie sorelle mi avevano assicurato la sera prima del loro rientro che, se ne avessi avuto bisogno, la porta di casa loro a Londra era sempre aperta.
Di certo lui lo sapeva che avrei preferito rimanere. Chi altro si sarebbe preso cura di lui? Chi l’avrebbe aiutato con gli animali, chi si sarebbe occupato della casa, chi avrebbe tenuto d’occhio la nostra piccola fattoria, chi si sarebbe assicurato che stesse bene, chi l’avrebbe portato a messa la domenica e chi gli avrebbe fatto compagnia? “E secondo te puoi rimanere qui…” ripetei, non trovavo pace, continuavo a chiedermi se era una domanda o un’affermazione e se si aspettava una risposta oppure no.
Aveva trascinato gli stivali di gomma tra la sedia e il posto a capotavola e chino combatteva per slacciarsi gli scarponi chiodati. Mi pareva tanto diverso. Se me ne fossi dovuto andare… Dissi tra me e me. Se mi avesse cacciato di casa dicendomi che non mi voleva più vedere o che non voleva avere più niente a che fare con me…
Mi vennero in mente alcuni amici e conoscenti di Dublino. Quelli allontanati dalle famiglie quando erano venute a saperlo. Mark, il cui padre lo chiamò lurido bastardo e gli disse di non avvicinarsi mai più a casa sua finché era vivo. Keith, con suo papà che gliene diede di santa ragione quando scoprì che aveva un amante e lo segregò in casa per un mese anche se aveva quasi vent’anni. Philip, che finì per avere un esaurimento nervoso dall’ansia, che alla fine non ebbe altra scelta se non quella di lasciare il lavoro da insegnante dopo che uno dei suoi alunni più difficili lo vide una domenica sera uscire da uno di quei posti e il lunedì a pranzo tutti già sapevano tutto. Davanti i ragazzi lo chiamavano con dei nomignoli tremendi, per non parlare del palese mormorio che c’era alle sue spalle. Come biasimarlo per aver scelto di andarsene? Anche se questo comportava la disoccupazione e la ricerca di un nuovo appartamento dall’altra parte della città. La disoccupazione Robin non aveva avuto neanche il tempo di richiederla. I suoi genitori gli diedero ventiquattro ore per raccogliere le sue cose e andarsene, gli dissero che non lo consideravano più figlio loro, che se l’era cercata e che non avrebbero mai più voluto vederlo finché era vivo. E così fu. Quando tornarono a casa quella sera, trovarono il suo corpo inerte sul letto della camera matrimoniale, portapillole vuoti sul petto, mezzo bicchiere d’acqua sotto lo specchio della toilette, un bigliettino accartocciato che diceva che il suo unico desiderio era morire dove era nato, che gli voleva bene e che gli dispiaceva di avergli fatto del male ma che non vedeva altra via d’uscita.
I lenti rintocchi dell’orologio interruppero la mia litania. Era ancora di fronte a me che combatteva per infilarsi gli stivali di gomma, i pantaloni dentro i calzini termici. Se me ne fossi dovuto andare, pensai, non avrei mai più visto mio padre così. Mai. La volta successiva sarebbe stato dentro una bara freddo come il marmo, la sua prole sul primo volo da Londra per tornare a casa dopo una telefonata urgente in cui ci comunicavano che era stramazzato in giardino, o che non erano sicuri se era caduto nel fuoco o se era morto prima dell’incendio divampato in casa la notte, o che lo avevano trovato semivestito in camera dopo che i vicini avevano sfondato la porta… E nel frattempo si domandavano quando era stata l’ultima volta che l’avevano visto vivo, nessuno in grado di calcolare il momento esatto del decesso.
Alla fine ebbe la meglio sugli stivali di gomma e si raddrizzò. Avvolto nel suo cappotto, in mano il berretto, pronto per indossarlo, rimase lì, per un momento, esitante, il secchio smaltato sotto il braccio.
Poi si diresse lentamente, quasi barcollando, verso la porta. I miei occhi seguivano il suo viso, il profilo, la schiena, i suoi passi strambi che si allontanavano da me mentre le ultime parole che mi aveva detto poco prima si contorcevano nella testa come un’anguilla appena pescata e poggiata sulla pietra un giorno di piena estate.
Si fermò sulla porta nel modo in cui faceva sempre quando usciva e bagnò l’indice nell’acquasantiera appesa allo stipite. Era una vecchia acquasantiera di legno con il Cuore Sacro che mia madre aveva riportato da un pellegrinaggio a Knock quando venne in visita il Papa. Vedevo che stava provando a farsi il segno della croce, incerto anche su quale dito tra pollice e indice aveva immerso in quell’acquasantiera.
Mise la mano sul chiavistello, aprì la porta e la tirò a sé.
Poi si volse, prima la testa, piano piano anche il corpo, e mi guardò. La sua occhiata era diventata così intensa che la mente mi si spense e tutti i pensieri si rintanarono al buio.
«Ci rimani mica accanto a quella vacca guidaiola mentre la mungo?» chiese. «Ha ancora la mammella dolorante».


In copertina: Francesca Cugno, da Cartografie percettive (2024).
Micheál Ó Conghaile nasce nel 1962 nel Connemara, contea di Galway (Irlanda), ed è uno scrittore irlandese conosciuto soprattutto per il suo contributo alla letteratura in lingua gaelica. Nel 1985, quando è ancora studente, fonda la casa editrice di libri in lingua irlandese e testi di musica tradizionale Cló Iar-Chonnacht (CIC). Come scrittore, pubblica poesie, racconti, un romanzo, opere teatrali e romanzi brevi. Nel 1997 riceve il premio Hennessy Young Irish Writer of the Year e l’istituto Irish American Cultural Institute gli conferisce il Butler Literary Award. Nello stesso anno, anche il suo racconto Athair (Father) vince l’Hennessy Literary Award e, nel 2012, entra a far parte della raccolta intitolata The Colours of Man curata da Brian Ó Conchubhair, professore associato di lingua e letteratura irlandese presso l’Università di Notre Dame negli Stati Uniti. Dopo i numerosi successi in ambito accademico, teatrale e letterario, nel 2013 Ó Conghaile riceve anche la laurea ad honorem dalla National University of Ireland (Galway).
Così come gli altri sedici racconti della raccolta, Father è stato scritto in irlandese (gaelico) e poi tradotto in inglese da Frank Sewell e Úna Ní Conchúir. La presente traduzione italiana del racconto fa capo alla versione inglese ed è la prima opera di Ó Conghaile tradotta nella nostra lingua.
Sofia Cavazzoni (1993) è traduttrice e revisora dall’inglese e dallo spagnolo e vive tra Siena e Colonia, in Germania. Nel 2015 si laurea in Lingue e letterature straniere presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e, due anni dopo, si specializza in Traduzione audiovisiva grazie al master erogato dall’Università di Cadice. Nel 2021 si iscrive al corso di Laurea magistrale in Competenze testuali per l’editoria presso l’Università per Stranieri di Siena, concludendo il percorso il 23 marzo 2023 con una tesi sul capolavoro del modernismo Ulisse di James Joyce e la sua tormentata storia editoriale a causa della censura in America, in Inghilterra e in Italia. Uno dei capitoli della sua tesi è stato pubblicato a maggio 2024 nel volume su Joyce e la censura a cura di Andrea Carloni (Eretica Edizioni). A luglio 2024 la rivista di critica letteraria «Allegoria» ha pubblicato la sua traduzione dei primi due capitoli del libro di Declan Kiberd, Ulysses and us.
Francesca Cugno è nata in Sicilia nel 1997. Laureata in Nuove Tecnologie dell’arte all’Accademia di Brera, ha continuato i suoi studi in Fotografia all’Istituto Superiore delle Industrie Artistiche di Urbino (ISIAU), dove ha avuto modo di sviluppare una forte attenzione per la sperimentazione visiva. Il suo lavoro si concentra sull’esplorazione della memoria, sia individuale che collettiva, attraverso immagini che raccontano storie di trasformazione e di radici legate al territorio e sulle modifiche che avvengono nel corso del tempo, trattando tematiche di cambiamento, identità e appartenenza. L’artista approfondisce anche il ruolo dell’immagine considerandola non solo come una rappresentazione, ma come forma di esperienza sensoriale che permette di esplorare le dimensioni tangibili e intangibili della nostra percezione, invitando lo spettatore a una riflessione profonda sulla natura della realtà. È stata selezionata nel 2023 come Fresh Eyes Talent da «Gup Magazine», nello stesso anno dalla rivista «Fotograf» come Fotograf Talent. I suoi progetti sono stati esposti in diverse occasioni, tra cui l’esposizione del Premio Raccont’arti (2023) e la mostra Other Spaces tenuta a Berlino (2024). Ha partecipato all’evento Polycopies 2024 con la sua tesi di laurea Cartografie Percettive pubblicata da Corraini Edizioni. Per «L’Appeso»: Cartografie percettive: percepire l’immagine.
Vuoi sostenere L’Appeso?

Lascia un commento