PERIFERICHE #3
Il digitale come spettacolo del male
di Ilaria Padovan
Sediamo su un confine: da una lato la visione, dall’altro il voyerismo. Da un lato il sapere lecito, dall’altro quello morboso e spettacolare. Nell’epoca digitale, questo confine non è più netto, ma una zona ambigua capace di attrarci e inquietarci. Ogni giorno abbiamo la possibilità di attraversare nuove soglie invisibili: scegliendo di guardare o, banalmente, non distogliendo lo sguardo. In questo territorio fluido, l’atto del vedere non è mai neutro: implica una posizione, una responsabilità, un coinvolgimento.
È proprio in questo spazio, dove l’etica si intreccia con la curiosità e il desiderio si traveste da diritto all’informazione, che si colloca Red Rooms (Les chambres rouges, 2023). Scritto e diretto dal regista canadese Pascal Plante, il film è un thriller psicologico che si insinua lentamente nella mente dello spettatore. Al centro: Kelly-Anne, una giovane donna attratta morbosamente dal processo a un uomo accusato di aver ucciso diverse ragazze e di aver filmato gli omicidi per diffonderli nel dark web. La trama segue la sua discesa verso una ricerca ossessiva del video incriminato, che la porterà sempre più vicina a un universo parallelo popolato da voyeurismo, anonimato e confini morali sempre più sfocati.
Presentato al Fantasia International Film Festival, Red Rooms ha attirato l’attenzione proprio per la sua capacità di evocare tensione e disgusto senza mai mostrare esplicitamente la violenza, ma giocando sull’implicito, sul fuori campo, sullo spettro della visione proibita. Una visione disturbante non per ciò che mostra, ma per ciò su cui ci obbliga a interrogarci. La tensione non arriva tanto dallo schermo, quanto da dentro di noi. L’inquietudine non esplode, non urla, e non c’è, dopo, una distensione, ma una lenta e inesorabile corrosione. Una domanda resta sospesa: perché stiamo ancora guardando? La protagonista Kelly-Anne si immerge nelle profondità del dark web, ossessionata da un video che forse contiene una morte in diretta. Ma la vera domanda non è se quel contenuto esista. La vera domanda è: cosa ci dice la sua ricerca – la nostra – su chi siamo diventati nell’epoca del digitale?
Il digitale è un territorio
Internet è una geografia complessa, stratificata, fatta di confini invisibili e zone grigie. La maggior parte di noi vive nel cosiddetto surface web, quello che usiamo ogni giorno con Google, YouTube, Wikipedia. Ma sotto questa superficie si estendono il deep web e, ancora più giù, il dark web: territori dove la reperibilità dei contenuti non è immediata, dove l’anonimato è la regola, e dove l’assenza di regolamentazione crea un campo potenziale per l’illecito.
Il dark web è spesso associato a narrazioni iperboliche: traffico di droga, armi, pedopornografia. Alcuni di questi contenuti esistono, altri sono mitologia digitale. Le “red rooms”, ad esempio, sono stanze virtuali dove si dice avvengano torture o omicidi in diretta, accessibili a pagamento. La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che non esistano prove concrete della loro reale esistenza. Ma ciò che conta, ai fini di questa riflessione, è l’immaginario che queste narrazioni generano: il desiderio di accedere a un confine proibito.
E ogni confine, per definizione, è anche una soglia narrativa: ciò che è al limite attira, seduce, inquieta.
Red Rooms: attraversare il confine
Nel film di Plante, il processo a un presunto serial killer si intreccia con l’ossessione della protagonista per i dettagli del caso. Il tribunale, la camera da letto, il laptop: tutti diventano scenari della stessa compulsione. Ma Red Rooms non è un film sul crimine. È un film sulla nostra fame di crimine. Sulla pulsione a “sapere tutto”, a “vedere tutto”.
Quando Kelly-Anne tenta di accedere al famigerato video, non lo fa per giustizia. Lo fa per possesso. Lo fa perché crede — come molti di noi nel quotidiano — che vedere significhi comprendere, o almeno controllare. Ma il film la (e ci) smentisce: la visione non è neutra. Guardare può voler dire partecipare. Il confine tra spettatore e colpevole non è solo giuridico. È etico. È percettivo.
Red Rooms è disturbante non per quello che mostra, ma per come ci costringe a guardare.
Guardare non è più un atto neutro, ma performativo.

Voyeurismo, spettacolo e anestesia emotiva
Il digitale ha trasformato il modo in cui ci relazioniamo al dolore, alla violenza, all’altro. Il nostro accesso immediato a una quantità infinita di contenuti ha abbassato la soglia della percezione morale. Non si tratta solo di video estremi nel dark web: la spettacolarizzazione del crimine è diventata mainstream. Dai documentari Netflix come Making a Murderer a podcast come Serial, ma anche nell’annunciato spin-off crime di Belve, con la linea tra informazione e intrattenimento si è dissolta.
Questa estetica dell’orrore quotidiano alimenta una forma di voyeurismo collettivo. Guardare non è più un atto neutro, ma performativo. In molti casi, ci posizioniamo come spettatori apparentemente distaccati, ma di fatto implicati nella catena di valore che rende la sofferenza uno spettacolo virale. Questa logica rischia di creare un’“anestesia morale”: più guardiamo, meno sentiamo. Più consumiamo la morte come contenuto, meno riconosciamo la sua gravità.
Il digitale è una finestra che non si chiude mai.
Quanto siamo pronti a riconoscere ciò che c’è oltre quella finestra?
Oltre il limite: la nuova frontiera dell’horror digitale
Il cinema e la letteratura hanno intercettato, da tempo, queste nuove forme di inquietudine digitale. Titoli come Unfriended: Dark Web (2018), Cam (2018), e Ratter (2015) non raccontano solo storie di hacker o stalking online: mettono in scena l’instabilità ontologica del soggetto connesso. Chi siamo, davvero, dietro lo schermo? E cosa succede quando è la rete a guardare noi?
Nel romanzo Il cerchio (Monadori, 2014) di Dave Eggers, il panopticon tecnologico diventa utopia e distopia insieme. Ogni istante può essere trasmesso, ogni gesto monitorato. Il confine tra pubblico e privato evapora. Come in Red Rooms, il problema non è solo chi commette l’atto violento, ma chi guarda, chi registra, chi archivia. Chi clicca.
Il digitale ha creato nuove zone liminali in cui il male non si manifesta più come trasgressione evidente, ma come routine algoritmica. La brutalità non è più choc, ma scroll. E ciò che chiamiamo “periferico” non è più marginale, ma centrale per capire chi siamo. Questa tendenza può essere definita “cyberhorror”: un genere che esplora non tanto ciò che ci fa paura, ma ciò a cui non possiamo smettere di guardare.
Questo scenario ci impone una riflessione: non possiamo più pensare al digitale come a uno spazio neutro: è un ambiente che plasma i nostri desideri, che ridefinisce i confini dell’accettabile. I film, i romanzi, le narrazioni sul dark web non ci dicono solo cosa temiamo, ma cosa siamo disposti a tollerare. Ci interrogano sul nostro ruolo nel ciclo del contenuto: siamo fruitori o complici? Siamo ancora in grado di porre un limite, o il limite è diventato solo un altro genere da consumare?
La brutalità non è più choc, ma scroll. E ciò che chiamiamo “periferico” non è più marginale, ma centrale per capire chi siamo.
L’estetica del margine
Perché siamo attratti da ciò che ci disturba? Georges Bataille, in L’erotismo (Garzanti, 1986), scriveva che il vero desiderio non si manifesta nell’oggetto, ma nel limite. L’osceno è ciò che rompe la scena, che ci porta oltre.
Nel digitale, questo si traduce in un’estetica del margine: video con titoli clickbait, subreddit oscuri, forum borderline. Non si tratta solo di contenuto: è la promessa del proibito che attrae.
Lo dimostra il successo di community come quelle su 4chan o Reddit, dove si coltiva una cultura del cinismo e dell’ironia estrema che spesso sfocia nella fascinazione per il disturbante. Il confine non è più ciò che temiamo, ma ciò che inseguiamo.
Esiste una vera e propria attrazione culturale per il “buio” online: più un contenuto è moralmente ambiguo, più sembra irresistibile.
Il digitale non è più solo un’estensione della realtà. È diventato un ambiente psichico, morale, estetico. I confini non sono da ricercarsi là, fuori, tra siti o protocolli. Sono dentro di noi: tra ciò che clicchiamo e ciò che rifiutiamo di vedere, tra ciò che giustifichiamo e ciò che denunciamo.
Red Rooms ci spinge a interrogarci non tanto sul male come azione, ma sul male come visione. Siamo ancora capaci di dire: questo non voglio guardarlo? Siamo ancora capaci di sentirci coinvolti – e non solo intrattenuti?
Nel tempo degli algoritmi, ogni click è una scelta. Ogni visione, un posizionamento. Forse è qui che dobbiamo cercare la nuova etica: non nel condannare, ma nel riconoscere che ogni confine che attraversiamo ci trasforma. E che, a volte, ciò che ci spaventa di più all’interno dello schermo è il nostro riflesso.
Abitare il confine – Il digitale come spettacolo del male è il terzo appuntamento di PERIFERICHE – umanità al margine, tecnologie alla ribalta, una rubrica a cura di Ilaria Padovan.

Ilaria Padovan nasce a Pavia nel 1990 e lavora in consulenza a Milano. Suoi racconti sono comparsi su «Topsy Kretts», «Crunched», «Risme», «Turchese», «Grado Zero» e «Yanez». Collabora con Treccani, Il Tascabile e The Vision.
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