Cosa vuol dire “scrivere femminista”? – Dialogo con Annina Vallarino

{dis}impegno letterario #6

a cura di Simone Sciamè


Il mercato editoriale negli ultimi anni ha mostrato un crescente interesse per le opere femministe, spinto sia da una reale sensibilità civile sia da logiche commerciali. L’editoria italiana ne ha tratto indiscutibili benefici come la maggior visibilità per le autrici, il recupero e la valorizzazione di opere dimenticate, diffusione del pensiero femminista anche tra un pubblico giovane e non accademico. Tuttavia, il “femminismo” è un tema contemporaneo che accende il dibattito. Questa rubrica di approfondimento è nata anche per cercare di scardinare la critica dalla sua accezione negativa. Criticare è un termine che viene associato più alla facile polemica, al conflitto aspro, che all’osservazione intellettualmente onesta del mondo che abitiamo. In questa sede, quello editoriale.
Per questa ragione ho invitato Annina Vallarino, autrice che stimo.
Grazie per aver accettato il mio invito.

 


Cosa intendiamo oggi per “scrivere femminista”?

Annina:
A mio avviso, non esiste letteratura più femminista di quella che rifiuta di farsi chiamare tale. Quindi no, non so cosa si intenda per scrivere femminista. Non credo sia un caso che molte delle grandi della letteratura – penso a Colette, Lessing, Deledda – abbiano respinto qualsiasi classificazione in tal senso. Insomma, la letteratura più autenticamente aperta non è forse quella che non ha bisogno di dichiararsi, perché non ha nessun motivo di doverlo fare. Quando Colette scrive di sessualità femminile senza chiedere permesso, quando Ginzburg racconta la maternità senza sentimentalismi, quando Didion usa la prima persona per dissezionare la realtà con uno sguardo lucido e disincantato, libero dalle attese su una voce femminile composta, quando Serao mostra le sue protagoniste senza pietismi sociali – stanno compiendo atti più radicali di qualsiasi manifesto di “scrittura femminista”.

Si è dibattuto molto del significato dell’espressione “letteratura femminile”. Ha senso nel 2025 parlare di libri femminili e libri maschili? Esistono dei criteri per distinguere la letteratura femminile da quella maschile?

Annina:
Non credo che esistano romanzi femminili o maschili, come non esistono teoremi femminili o maschili. Esistono romanzi riusciti e romanzi falliti. A meno che non si tratti di marketing – e allora tutto è concesso.
Il fatto stesso di cercare criteri per distinguere la “letteratura femminile” da quella “maschile” rivela l’accettazione di una premessa che andrebbe invece respinta: l’idea che il sesso dell’autore determini qualcosa di essenziale nell’opera. Certo, le donne hanno vissuto esperienze storiche specifiche, hanno dovuto conquistarsi spazi che agli uomini erano garantiti, hanno una fisicità e una biochimica diverse. Molte hanno iniziato a scrivere “da uomo” per essere ascoltate – penso alle riflessioni che fanno Ginzburg e Le Guin – per poi comprendere che avrebbero dovuto scrivere da donne in quanto donne. Ma lo scrivere da donne non significa di certo uno scrivere femminile.
Se, come si sussurra, dietro Elena Ferrante si celasse Domenico Starnone, non sarebbe questa la prova più grande e strabiliante che la letteratura è uno spazio di pura, illimitata invenzione? E qui sta un altro punto cruciale: così come esiste una differenza tra uomo e donna, esiste un abisso tra donna e donna, e tra uomo e uomo. Virginia Woolf e Agatha Christie erano entrambe donne inglesi del primo Novecento, eppure quale diversità le separa.
Negli ultimi anni i maggiori agenti letterari internazionali vanno a caccia di romanzi che rispondano alle “women’s issues”: violenza domestica, disparità salariale, maternità mancata, sessismo sul lavoro, molestie. Ti immagini qualcuno che vada in giro cercando romanzi sui “men’s issues”? Crisi di mezza età, paternità negata, aspettative di successo, solitudine emotiva?
Siamo metà del pianeta, il pilastro dell’editoria – le donne leggono, comprano e vendono più libri. Ma cosa sono le “women’s issues” se non i problemi dell’esistenza stessa? Come scriveva Jean-François Revel: “far avanzare il femminile, per non far avanzare le donne”. Non a caso Durastanti ha scritto di recente su Finzioni che le scrittrici del secolo scorso hanno creato storie che oggi ci appaiono “paradossalmente più fresche, irregolari e libere; impossibilmente moderne e contemporanee” rispetto a quelle attuali, dove troppi personaggi femminili “diventano centrali solo in qualità di portatrici di messaggi precisi ed edificanti”. Il titolo del pezzo dice tutto: Donna contenitore.

Simone de Beauvoir scriveva in Il secondo sesso: “Donna non si nasce, lo si diventa.” Alla fine, qualcuno ha capito cosa significhi “essere” o “diventare” donne?

Annina:
Ho dedicato un intero capitolo a questa questione ne Il femminismo inutile, e qui posso solo accennarne. Posso dire questo: siamo un’intersezione di natura e cultura che lavorano insieme sia con precisione sia con imprevedibilità. Finché non alleveremo bambini in laboratori neutri – e credo e spero che mai accadrà – non sapremo mai con estrema esattezza dove finisce la biologia e inizia la società.
L’ennesima conferma di recente con il parto: i punti sulla pancia, la ricostruzione del perineo, quella caduta libera degli ormoni che mi faceva guardare la finestra con pensieri estranei. Il corpo che si trasforma, si lacera, si ricompone secondo logiche antichissime. Una settimana dopo, la prima cosa che ho fatto è stata andare a farmi la manicure. Un rito di passaggio che mi rallegra e di cui non provo vergogna.

L’editoria in questi anni ha puntato molto sui testi di natura femminista. La narrativa ha portato temi come l’orgoglio femminile, il problema dei femminicidi, la violenza domestica. Sono diversi i romanzi che raccontano la rabbia, i sentimenti di rivalsa, di depressione, di senso di solitudine, di sorellanza. Pensi che questi temi stiano in qualche modo scuotendo le coscienze dei cittadini-lettori? Stanno avendo, per così dire, un ruolo educativo per la società del futuro?

Annina:
Permettimi di dirti che la domanda parte da una premessa errata. L’arte non è propaganda. Se scriviamo romanzi per “educare” o “scuotere le coscienze”, stiamo già tradendo la letteratura.
Mi ripeto: non credo che con i romanzi si faccia la rivoluzione. Quando iniziamo a scrivere per dimostrare un punto, la letteratura è già morta. Claudio Giunta ha scritto uno splendido intervento sul tema che invito tutti a leggere. Quando ho scritto Drama – questo romanzo che parla di un’accusa di stupro e di come Internet può diventare una gogna medievale – ho dovuto stare attenta a non cadere nella trappola. Non potevo permettermi la comodità del giudizio facile, del “questo è giusto, quello è sbagliato”. La realtà resiste alle interpretazioni: si annida negli interstizi tra quello che è accaduto e quello che crediamo sia accaduto, in quello spazio dove non esistono territori puri ma solo zone di confine, dove ogni verità porta con sé la propria ombra di dubbio.
Il romanzo migliore sulla violenza maschile – rifiuto la neutralità di “violenza di genere” – non è quello che ci insegna che la violenza maschile è sbagliata (ovvio che lo è), ma quello che ci fa comprendere qualcosa di nuovo e inaspettato su di essa.
Prendiamo Coetzee. Con Vergogna non scrive un romanzo “contro lo stupro”: scrive un romanzo che esplora la violenza, il potere, la colpa, la razza, il post-apartheid attraverso una storia di stupro. E lo fa dal punto di vista di David Lurie, un uomo bianco, privilegiato, che all’inizio del romanzo è lui stesso implicato in una storia di molestie. Un narratore completamente inaffidabile e moralmente compromesso.
Coetzee non ci offre nessuna consolazione morale facile. Non ci dice “lo stupro è sbagliato” – grazie al cielo lo sappiamo già. Ci mostra invece come la violenza si stratifichi, come si replichi, come contamini tutto. La figlia Lucy che rifiuta di denunciare, che accetta di sposare il suo stupratore per sopravvivere: è sconvolgente, inaccettabile, eppure Coetzee ce la presenta senza giudizi. Ecco cos’è la grande letteratura. Non ti dà risposte, ti dà domande che non sapevi di avere. Non ti educa, ti destabilizza.
Un romanzo scritto per “sensibilizzare contro la violenza di genere” sarebbe stato un romanzo con le stampelle pedagogiche. Le storie non si piegano a comando. Coetzee invece ci mostra una realtà molto più complessa e disturbante. Ed è proprio per questo che Vergogna è letteratura, non pedagogia.
Toni Morrison non ha scritto The Bluest Eye (L’occhio più azzurro) per denunciare lo stupro o il razzismo. Lei stessa ha sempre rifiutato l’idea di scrivere “a tesi” o “a scopo didattico”. In varie interviste ha detto chiaramente che non voleva usare la letteratura come strumento di denuncia diretta, ma piuttosto come mezzo per esplorare in profondità l’esperienza vissuta, soprattutto quella nera e femminile, senza filtro né mediazione. Non voleva che il lettore provasse pietà per Pecola, ma che comprendesse l’ambiente sociale e psicologico che ha prodotto la sua tragedia. Cholly, il padre che la abusa, non è un mostro da odiare tout court: è uno degli esseri umani più complessi del romanzo. Morrison non denuncia il suo gesto: lo mette in scena con una crudezza e una pietà umana inquietante. In qualche modo Morrison ci corrompe. Non ci protegge, ci espone.
Quindi per concludere, non credo che alcun romanzo scuoti le coscienze o le curi.
L’altro giorno leggevo un’intervista su Paris Review alla poetessa Sharon Olds in cui diceva “I have to choose between a poem being therapeutic and it being a better poem, I’d like it to be a better poem“. Questo è il punto.

Mary Wollstonecraft, già nel 1792, sosteneva in Sui diritti delle donne che “è tempo di effettuare una rivoluzione nel modo di educare le figlie”. Che ruolo ha la letteratura nel decostruire i modelli educativi femminili che ancora oggi plasmano l’identità di genere?

Annina:
Per me la letteratura agisce innanzitutto a un livello soggettivo. Le letture di autrici che più mi hanno segnata nella giovinezza – da Dickinson a Sexton, a Morante a Aleramo a Woolf, a Wharton, a Duras – non mi hanno affatto educata secondo un modello positivo o emancipatorio. Al contrario, hanno contribuito a disarticolare certezze, ad aprire faglie, a rendere più intensa e spesso più dolorosa la mia percezione del mondo e di me stessa.
In una contemporaneità in cui la lettura è sempre più marginale e l’immaginario delle giovani generazioni si struttura altrove – in rete, nei social media, nell’estetica dell’influencer culture – è illusorio pensare che la letteratura possa ancora esercitare una funzione formativa collettiva o trasformativa in senso sociale. La mia esperienza quotidiana nell’insegnamento conferma questa marginalità: la gran parte dei miei studenti non legge narrativa, e chi lo fa, quasi sempre ragazze, si rifugia spesso in generi come il dark romance – Cenerentole soft porn, con maschi violenti da redimere e un’estetica della dipendenza affettiva travestita da amore tormentato. Altro che “decostruzione”.
Se la letteratura conserva oggi un potere, esso è estetico, affettivo, individuale. In questo senso, se esiste ancora una speranza nel potere della letteratura, essa credo risieda non nella sua capacità di educare, ma nella sua libertà di disorientare – e quindi di interrompere, anche solo per un istante, la continuità dei modelli dominanti. Ma ciò avviene a livello individuale, non sistemico.

In letteratura – e non solo – anche l’uomo sta attraversando un processo di critica. Si sta cercando di “destrutturarlo”, di scomporlo, nel tentativo di ricostruirlo. Nascono ogni mese nuovi saggi e romanzi che vogliono fare luce su aspetti potenzialmente tossici della mascolinità, alcuni scritti proprio da autori uomini. Mi vengono in mente, tra gli altri, i contributi di Lorenzo Gasparrini, Alessandro Giammei, Francesco Piccolo. I più scettici parlano di “libri furbi”, perché strizzano l’occhio a un certo target, perché rinforzano lo status in un’epoca in cui sembra essere necessario mettersi al riparo dalle critiche. Altri parlano di risvegli di coscienza, di avanzamento verso un nuovo modello maschile. Come ti sembra che stiano trattando “il problema maschile” gli autori?

Annina:
Non avendo letto integralmente nessuno dei tre testi menzionati, preferirei astenermi da giudizi o valutazioni. Tuttavia, per quel che conosco dei rispettivi autori, mi pare che almeno due dei volumi si inseriscano esplicitamente all’interno di una cornice teorica postmoderna ben riconoscibile. Il terzo, invece, sembra proporsi come un’analisi di taglio letterario, in cui – ho letto – perfino l’opera di Manzoni verrebbe interrogata alla luce di presunte responsabilità pedagogiche.
Quello che mi colpisce in questi approcci è l’adozione sistematica di una prospettiva soprattutto testuale o simbolica, senza avvalersi, almeno a quanto mi risulta, di una controparte empirica o scientifica. In altre parole, si tratta di discorsi sul maschile fortemente testo-centrici, in cui l’analisi della mascolinità tende a rimanere confinata nell’ambito della critica culturale.
Tu stesso, ad esempio, parli di “decostruzione”, termine che veicola una precisa teoria – da Derrida a Deleuze – e che implica già una postura ideologica implicita. Non per ultimo, il rischio di tali riflessioni è che si rivolgano essenzialmente a un pubblico già sensibilizzato, finendo per costituire una sorta di circuito chiuso.
Personalmente, ciò che mi interesserebbe leggere è un’opera capace di affrontare il tema della mascolinità contemporanea in modo più trasversale e impegnativo: un saggio che non si limiti all’analisi del discorso o al repertorio letterario, ma che si misuri anche con le scienze cognitive, con la psicologia evoluzionistica, con l’impatto della pornografia precoce, con la crisi educativa determinata dall’abbandono dei padri, con il neomaschilismo digitale. Una riflessione, cioè, che tenti di comprendere le trasformazioni profonde che stanno attraversando il maschile ora come ora, e che parli non solo agli addetti ai lavori o agli appassionati, ma alla massa degli uomini, troppo spesso esclusa da queste conversazioni.

Nel tuo saggio Il femminismo inutile, affronti la questione del “lessico femminista”. Lo riconosci come poco inclusivo, perché ha come destinatarie le persone che già masticano le terminologie del vocabolario femminista e risulta poco comprensibile e accessibile proprio a quelle persone a cui si potrebbe sensibilizzare sui temi importanti della nostra società. Quale potrebbe essere un modo per raggiungere tutti, comprese le persone che non hanno mai toccato gli argomenti di cui oggi discute il femminismo?

Annina:
Ognuno di certo può parlare come vuole, ma quando la missione si fa grande bisogna essere accessibile. Se dobbiamo davvero uscire dal lessico neo-femminista così come lo conosciamo oggi, dobbiamo farlo con un atto di liberazione dal suo ossessivo legame con la terminologia ideologica. La lingua è importante, ma a un certo punto diventa un ostacolo. Ogni volta che parliamo di ‘cisgender’, ‘maschilismo interiorizzato’’, ‘intersezionalità’, ‘decostruzione’, stiamo usando una panoplia che a una piccolissima ma piccolissima parte di persone interessa.
Se vogliamo parlare di questioni femminili (non voglio parlare di femminismo, ma proprio di questioni femminili) dobbiamo riscoprire il linguaggio della vita quotidiana. Parliamo di realtà, di esperienze condivise, di ciò che ci unisce come donne e come esseri umani. Il vero cambiamento arriva quando si riesce a parlare la lingua della vita: la comunità, le relazioni, la scuola, la famiglia, il lavoro, la maternità…

Jessa Crispin scrive in Perché non sono femminista: “Se il femminismo si adatta troppo bene al sistema, allora non è più femminismo.” Secondo te, quali sono i segnali che una scrittura – pur dichiaratamente femminista – sta in realtà rinforzando lo status quo anziché metterlo in discussione?

Annina:
Tornerei a quello che ho detto prima: quando l’essenza femminile è portatrice di contenuti precisi e cessa di imporsi innanzitutto come individuo, si rinforza il vecchio ordine delle cose. Insomma, credo di averti già risposto.

In una delle chiacchierate precedenti sulla realtà in letteratura, Andrea Pomella ha detto che il ruolo dell’autore o dell’intellettuale è quello di prendersi il rischio di avere idee indipendenti, di smuovere le coscienze altrui.
A volte ci dimentichiamo che il femminismo sia diviso in correnti. Una cosa che trovo interessante, in un movimento letterario, sociale e politico, è la capacità di aprire il dialogo in merito a temi comuni su cui si hanno posizioni diverse nel tentativo di tornare a casa arricchiti, con una possibilità in più di risolvere i problemi di domani. Riconosci che il mercato offra una pluralità di voci non necessariamente allineate? Tra autori e autrici è in corso un confronto? Si parla dei libri degli altri per discuterne le idee?

Annina:
Osservo uniformità nella saggistica femminista o sui temi femminili. La maggior parte dei testi tradotti appartiene a filoni ben definiti: dai gender studies al transfemminismo, dall’intersezionalità al postcolonialismo, al più leggero femminismo liberal. Quanto alle opere italiane, i titoli si assomigliano al punto da sembrare usciti da un’unica matrice. Le eccezioni sono merce rara. Recentemente abbiamo avuto alcune sorprese: Donna si nasce (e qualche volta si diventa) di Cavarero e Guaraldo per Mondadori, la ripubblicazione di Carla Lonzi da parte della Tartaruga. In passato, piccole realtà come Medusa hanno dato spazio a Marcela Iacub con Una società di stupratori?
Ho la fortuna di leggere in francese e inglese, ed è così che nasce la bibliografia del mio saggio Il femminismo inutile: un incessante dialogo oltreconfine. Hai mai visto tradotte Christina Hoff Sommers o Joan Williams, figure di spicco del classico femminismo liberale angloamericano? E il controverso bestseller della britannica Louise Perry, The Case Against the Sexual Revolution? O il lucido Material Girls di Kathleen Stock? Mancano i lavori di Nina Power sulla mascolinità in crisi, o di Camille Paglia. A parte la ripubblicazione di Sexual Personae dalla Luiss – non certo Einaudi o Feltrinelli – non c’è traccia d’altro.
Manca anche Germaine Greer, che ha fatto la storia del femminismo individualista novecentesco: la sua ultima grande opera tradotta risale a tempi lontani, mentre testi recenti come On Rape (2020) o The Change (ripubblicato nel 2018) non hanno trovato spazio nel nostro mercato. E le francesi? Dove sono Élisabeth Badinter, Sabine Prokhoris?
Non vedo un autentico pluralismo. Non è un peccato? Non alludo a forme di censura, ma a un’assenza di curiosità.

“La scrittura femminista è prima di tutto un gesto di diserzione” scrive Azelie Fayolle in Scrivere femminista. Dallo stesso testo di Fayolle sembra emergere che le donne abbiano sondato praticamente ogni genere letterario, portando temi come l’emancipazione, l’indipendenza, la mascolinità tossica, avvalendosi di ogni genere, dall’horror alla distopia. Di cosa dovrebbe scrivere l’autrice del 2025? E di cosa potrebbe scrivere tra quindici o vent’anni?

Annina:
Che scriva di quel che vuole, persino di minestrine precotte, o di depilazioni laser. Che importa? L’importante è come lo si fa.

Ti senti di consigliare dei libri su questo genere?

Annina:
Preferirei invitare a riscoprire le grandi del Novecento, o persino Santa Teresa d’Avila, piuttosto che leggere altro.

I testi che trattano argomenti come la liberazione del corpo femminile, l’emancipazione, la parità dei sessi, la difesa dei diritti delle minoranze, ecc, sono oggi richiesti e premiati dal mercato editoriale. Pensi che alcuni autori e autrici approfittino di questa tendenza, rischiando di svilire il valore delle battaglie femministe? Pensi ci possano essere dei segnali per riconoscere un editore che crede nella causa rispetto a un altro che vede solo il margine di profitto?

Annina:
Se mai, è la letteratura a soffrirne. Personalmente, credo che ogni editore degno di questo nome debba bilanciare la fede in una causa con la necessaria visione del margine di profitto. Forse, ciò che osserviamo è più un sintomo che la causa di una certa regressione culturale.

Judith Butler scrive in Corpi che contano: “Il genere è una performance, un atto ripetuto nel tempo.” Ai tempi dei social, dove la performance è tutto, trovi che le personalità femministe di spicco della narrativa contemporanea stiano performando, stiano interpretando un ruolo?

Annina:
Pirandello aveva già smascherato l’inevitabilità dei ruoli che indossiamo. Il problema non è la performance in sé, ma quando il ruolo finisce per divorare la persona. Sui social assistiamo a uno spettacolo singolare, che coinvolge tutti gli autori, mica solo le autrici: l’esibizione continua, la necessità di una presenza costante che rappresenta, paradossalmente, una delle manifestazioni meno intellettuali immaginabili.
Arnaldo Greco, nel suo saggio appena uscito E anche scrittore, ipotizza che sempre più scrittori ricorreranno presto a ghostwriter per le proprie opere, liberandosi così per dedicarsi completamente ai social. Sarà anche una provocazione, ma tremendamente calzante.

Qualcuno lamenta che il dibattito su temi sociopolitici si sia spostato sui social, arena in cui si stanno creando una moltitudine di bolle che respingono un certo tipo di attivismo. Risaltano gli estremisti che rivendicano la mascolinità tossica, ma più sommessamente fanno sentire la loro voce anche uomini e donne storicamente di sinistra che provano ad accennare critiche ad alcune battaglie del femminismo contemporaneo. Pensi che l’attivismo sui social condizioni la stesura di un testo che vuole trattare tematiche femministe o pensi che accada il contrario? Quanto uno influenza l’altra?

Annina:
Il rapporto tra attivismo digitale e produzione intellettuale è bidirezionale, ma non simmetrico. I social media hanno creato una teatralizzazione del pensiero critico dove la performatività dell’indignazione spesso prevale sulla precisione dell’analisi. Questo meccanismo condiziona inevitabilmente chi scrive, perché l’orizzonte di attesa del pubblico si è modificato: ci si aspetta posizioni nette, slogan efficaci, nemici chiaramente identificabili.

Se dovessi cambiare qualcosa del nostro settore, quale sarebbe?

Annina:
Più libri belli e coraggiosi, meno cuoricini.

Ti chiederei di salutarci così, con due ricordi. Ti va di raccontare un episodio positivo e uno negativo della tua esperienza da autrice?

Annina:
Ho notato che i commenti positivi pubblici al mio saggio arrivano prevalentemente da uomini, mentre quelli privati tendono a essere di donne un dettaglio che trovo significativo.
Quanto alle recensioni negative, alcune autrici mi hanno etichettata come “negazionista”, “privilegiata” e “serva del patriarcato” senza nemmeno leggere il saggio (di un contenuto così equilibrato da essere quasi tenero), confermando paradossalmente tutto ciò che sostengo: la mancanza di confronto, l’insulto come strumento per chiudere il dibattito, il tribalismo che pervade il discorso. È davvero un peccato.

Cosa vuol dire “scrivere femminista”? – Dialogo con Annina Vallarino è il sesto appuntamento di {dis}impegno letterario, una rubrica a cura di Simone Sciamè.


Annina Vallarino è nata a Genova, ha compiuto i suoi studi in Italia e a Londra, dove ha lavorato per dieci anni come producer editoriale. Ha collaborato con giornali e magazine scrivendo di cultura e società. Ha una pagina social, maileggera, che non aggiorna quanto vorrebbe. Ora vive nel sud della Francia. Nel 2024 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Drama (NEO Edizioni) e il saggio Il femminismo inutile (Rubbettino).


Simone Sciamè è nato ad Alessandria il 4 settembre 1993. Diplomato con indirizzo Dirigente di Comunità, ha collaborato a un progetto nell’ambito dello storytelling, media education e tecniche di comunicazione giornalistica presso il liceo psico-pedagogico della sua città. Ha curato una rubrica di recensioni di libri presso la testata radio-giornalistica Radio Gold. Ha pubblicato Erotica liquida (Edizioni Effetto, 2023) con Federico Riccardo. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su riviste letterarie come «Poetarum Silva», «Grande Kalma», «Gelo», «Topsy Kretts», per la quale è editor e scout.



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