INGRESSI #1
a cura di Emiliano Peguiron

E allora non le avevo detto che sarei voluto diventare come mio zio Hervé: lui che usciva di casa senza dare spiegazioni, tornava mesi dopo, raccontava del comandante Sirio, di Oscar, di Margherita, la migliore amica di mio zio che lui chiamava Mara e che era morta perché voleva abitare il suo vento. E poi di Saetta che si era legato a un traliccio dell’alta tensione ed era rimasto lì per settimane, o di Marco che non vedeva la famiglia da quattro anni perché dalla Francia non si poteva più tornare indietro. E come loro anch’io avrei voluto abitare il mio vento, essere come l’albero del Ténéré, una convinzione, la mia, che si fondava sulla certezza assoluta che non sarei diventato come mio padre, uno da turni e
fatica, con un mutuo sulle spalle a strozzarmi per tutta la vita, l’alito che sapeva di qualcosa andato a male perché non rideva mai. Hervé, questo volevo diventare. Hervé che sapeva a che distanza mettermi da tutto quello che c’era intorno. Hervé che per me era tutto il contrario del dolore. Hervé che poteva essere invisibile.
Alessandro Andrei, L’albero del Ténéré
Le copertine – a volte, non sempre – parlano, ci comunicano qualcosa prima di leggere un libro. Quella di L’albero del Ténéré di Alessandro Andrei (Wojtek edizioni, 2024) lo fa senza dubbio. Non perché rappresenta l’immagine in bianco e nero del suddetto albero, ma per il concetto che la fotografia porta con sé. La solitudine di quel tronco, le radici da scovare, la ricerca di sé possibile solo quando ci si distacca, ci si guarda dentro ma da lontano.
La conversazione con Alessandro parte da questi spunti e si spinge ben oltre. Alcune delle domande sono state ispirate alla presentazione dello scorso 18 maggio alla libreria Blueroom di Roma dove l’autore ha dialogato con Sandro Bonvissuto; altre sono state tratte da citazioni del libro che – non fermatevi alla copertina – parla, parla tantissimo al lettore e lo spinge a una serie di riflessioni strettamente legate tra loro. Riflessioni che accompagnano il nostro vissuto ma che teniamo nascoste a noi stessi e a chi ci circonda – l’altro da sé.

Se la parola “latitanza” è stata quella più utilizzata per descrivere i due personaggi principali del tuo libro – Antoine Donizetti e suo zio Ernesto Furlan – in occasione dell’incontro con Sandro Bonvissuto, la parola “fantasma” è invece quella con cui vorrei fare ingresso nel tuo romanzo. Ernesto è una specie di fantasma rievocato da Antoine che popola il suo passato e mette in crisi il suo presente. Il tuo romanzo inoltre è ricco di riferimenti – difficile citarli tutti – che riguardano la musica e il suo glorioso passato. Questo è di conseguenza anche un romanzo di presenze che sono in realtà assenze. In che misura Antoine è influenzato da suo zio e quali sono le conseguenze del trascinarsi i “fantasmi del passato”?
Questo è un romanzo in cui chiaramente il passato ha una sua importanza. Importanza costante lungo tutta la narrazione. I vissuti sia di Antoine sia di Hervé sono due entità, sono quasi due ulteriori protagonisti che si muovono di pari passo. Ma soprattutto si muovono anche nel presente: sono due elementi che, oltre a muoversi nel presente, in qualche modo lo plasmano, lo trasformano e lo condizionano. Nonostante siano due passati molto diversi sono legati da una sorta di cordone ombelicale, perché all’interno di questo passato è contenuto quello che è il nucleo del romanzo, ovvero uno strappo emotivo, qualcosa che è rimasto in sospeso, una ferita che non si è mai rimarginata. Sono due presenze che comunicano attraverso questo strappo, questo essersi allontanati l’uno dall’altro senza essersi mai allontanati davvero.
Focalizzandoci ora su Antoine – analizzato per il momento soltanto in relazione al rapporto con suo zio Hervé – a me sembra che sia caratterizzato da due grosse componenti: la solitudine – e il silenzio che ne consegue – e l’esplosione emotiva come rigurgito dei traumi della giovinezza. Alla libertà consegue la solitudine? Antoine è il simbolo di questa ricerca e di questo tentativo di trovare un equilibrio tra passato e presente, trovare finalmente la pace interiore?
Sì, diciamo che, soprattutto il suo, è un tentativo inconscio. Al contrario, quello di Hervé è un tentativo consapevole. Hervé è più presente, conosce meglio i suoi stati emotivi, Antoine no. Tant’è che all’inizio del libro lo troviamo costretto a dover utilizzare dei calmanti e degli ansiolitici perché i suoi trascorsi emotivi riemergono, ma soprattutto lo condizionano e lui questa “materia” non riesce a conoscerla e non riesce a governarla. Questa “materia” rappresenta, in realtà, una ricerca e una richiesta di liberarsi dal suo passato. O meglio, prima farlo emergere poi comprenderlo, elaborarlo e solo allora guadagnare la libertà.
Una delle tue affermazioni in sede di presentazione è stata: “Non è un libro sul terrorismo”. Sono completamente d’accordo. È un libro che parla di molto altro però. Quanto, ad esempio, questo è un libro sul peccato e sul perdono? Quanto scrivere può essere un mezzo per liberarsi dalle macchie e dai fardelli che ci portiamo dietro e, infine, essere un mezzo per perdonare ma, soprattutto, per perdonarsi?
Sì, continuo a sostenere che questo non è un libro sul terrorismo. Chi lo ha letto avrà già notato o chi lo leggerà vedrà che i riferimenti al terrorismo sono davvero pochi. Ciò che si respira è quello che ho definito “abitare il vento”, ovvero vivere quel momento, quelle sensazioni, quell’instabilità. Non faccio mai riferimento a date, citazioni, eventi quindi in realtà noi siamo all’interno di quello spaccato storico di cui parlo nel libro ma solo come sensazione, come parte emotiva. Non c’è mai un riferimento, una citazione precisa a un determinato evento. Quindi, sì hai ragione tu, è prettamente un libro sul perdono. Sia Antoine sia Hervé hanno qualcosa da farsi perdonare ed entrambi stanno lottando in qualche modo per cercare di ottenere questo perdono. Tutto, quindi, si fonda su questo bisogno di perdono.
Sul fatto che scrivere possa aiutare non lo so, quando si scrive si cerca sempre di mantenersi un po’ distanti da quella che è la propria vita e da quello che è il proprio romanzo, poi è normale che inconsciamente qualcosa di te o un tuo bisogno ci finisca dentro. In qualche modo scrivendo vorresti che uno dei tuoi personaggi prendesse il tuo posto e ti liberasse dai tuoi fardelli. Più che aiutare a perdonarsi scrivere può aiutare a capirsi. A volte se uno guarda attentamente quello che ha scritto, la propria scrittura può aiutare. Succede che certe cose le capisci rileggendo o tornando su alcuni passaggi del romanzo. Cerco sempre di dare molta vita ai miei personaggi in modo che diventino delle figure esistenti o esistite. Poi sapere da cosa vengono riempite, queste figure, è molto difficile. Sicuramente dentro ogni personaggio del mio romanzo c’è un po’ di me o di qualcuno che ho incontrato per caso in aeroporto oppure da qualche racconto di un amico: a differenza di quando si scrive un memoir, quando si fa fiction l’aspetto divertente è quello di cominciare a prendere riferimenti dai cassetti della propria memoria: in questo modo nella storia che vuoi raccontare ci può finire qualsiasi cosa.
Antoine tenta con tutto sé stesso di governare le cose, a tratti di possederle, di decidere la loro collocazione e funzione. Questo tentativo – umano e folle – si rivela un fallimento. Eppure, è la chiave per riscoprire ciò che c’è di più umano: il sé e l’altro diverso da sé. Sei d’accordo? In ultima analisi questa ri-scoperta porta a una vicinanza verso il diverso, che è fondamentale per il dialogo con ciò che è interiore e ciò che invece è all’esterno. È un romanzo sulle radici del protagonista e, più in generale, sulle nostre?
Antoine rappresenta la sconfitta delle convinzioni. Spesso ognuno di noi fonda la propria esistenza su determinati concetti o, peggio, a volte addirittura li radicalizza. Antoine è convinto di fare la vita che ha sempre voluto, di essere nel posto in cui ha sempre ambito di essere, ma in realtà scopre che non è così. Tutto ciò lo fa allontanandosi dalla sua vita: spesso il segreto è guardare la propria esistenza da un altro punto di vista. Infatti, è quello che servirà al protagonista che nel momento in cui si allontanerà del tutto dalla propria vita e dalle proprie abitudini riuscirà ad apprendere quali sono le sue lacune, le mancanze e soprattutto quel turbamento che si porta dietro.
Le radici in questo romanzo sono importanti. Antoine viene strappato dal suo terreno; le sue radici vengono strappate come sarà reso evidente da un un episodio determinante nel romanzo. Quindi dovrà ricostruire, riportare le sue radici su un terreno nuovo. Farà tutto ciò in un modo quasi inconsapevole, mentre la vita di Hervé ha tenuto stretti i propri dogmi e le sue radici sono sempre affondate all’interno di quello che erano le credenze e l’ideologia degli anni ’70, del terrorismo e della lotta politica. Quelle di Antoine sono radici che in realtà si affidano a un terreno che è più sottile, il terreno dei giorni nostri: quello della finanza, quello che Baumann chiama “la vita liquida”. Non è un terreno ma un acquitrino. Ed è questo che lo manderà in crisi perché Antoine e Hervé, pur essendo lo specchio l’uno dell’altro, hanno origini diverse: il primo si troverà in difficoltà poiché al contrario dello zio le sue radici non hanno un terreno solido – seppur opinabile – su cui affondare. Le radici di Antoine troveranno un po’ di vita e resistenza proprio nel momento in cui incontreranno la sabbia del deserto di Marrakech e quando incroceranno le radici dello zio che sono arrivate fino a lì, hanno percorso tutti quegli anni di latitanza e kilometri sotterraneamente, fino ad approdare in Marocco
Due domande che in qualche modo si legano alle precedenti. La prima: le parole dentro e fuori sono delle costanti nelle riflessioni di Antoine, non sono solo delle semplici coordinate; cosa sono per te e per questo romanzo? La seconda: ci sono più gradi di consapevolezza raggiunti dal protagonista ma ce ne è uno che, in particolare, mi ha colpito: «Con gli occhi chiusi, senza riuscire a dormire, avevo capito che non sarebbe stato possibile cambiare le cose. Ciò che crea movimento […] e che muove ogni scelta prima e decisione poi è il caso, solo il caso, è a lui che avrei dovuto imparare ad affidarmi. Il caso e nient’altro». È un passaggio fondamentale a mio parere ed è uno dei fulcri del tuo romanzo, ce ne parli?
Il dentro e il fuori servono per mettere a confronto quello che si trova realmente all’interno di sé stessi e quello che bisogna tirare fuori e mostrare agli altri. Spesso questo dentro e questo fuori non coincidono ma devono mantenere una specie di apparenza sociale, quindi, più volte, il mondo che c’è fuori non coincide con quello che c’è dentro a Antoine, e viceversa quello che sente dentro di lui non trova un aggancio, un incastro con quello che c’è fuori ed è da qui che nasce non solo il conflitto ma anche tutti i problemi di Antoine che cercherà di contrastare con gli ansiolitici perché è come se fossero due elementi dell’ego slegati che il giovane cerca di incastrare l’uno con l’altro ma che non riesce mai a far combaciare.
Un altro elemento cardine del romanzo è l’idea dell’eterna lotta tra il destino e il libero arbitrio. Quanto controlliamo la nostra vita? Antoine è stato convinto per molto tempo di aver posseduto la propria vita, di aver fatto le proprie scelte, convinzioni e considerazioni mentre a un certo punto capisce che della sua vita non ha mai comandato nulla. Puoi lottare, prendere decisioni, fare progetti e programmi ma alla fine il caso è sempre in agguato, pronto a distruggere i tuoi piani e a costringerti a rivederli: puoi lottare quanto vuoi ma un controllo totale non lo avrai mai. Il caso è la legge indissolubile di ogni esistenza.
Concludo citando la bella frase in quarta di copertina – che è una frase di Ernesto Furlan: «E allora dovremo trovare il modo di farci perdonare, gli lasceremo qualcosa che spiegherà chi siamo stati, qualcosa che parlerà per noi anche quando ce ne saremo andati». Oltre che a toccare alcuni dei punti su cui ci siamo già soffermati – l’identità e le radici su tutte – questa citazione mi sembra ideale per approfondire un bisogno visceralmente umano: quello di lasciare una traccia, un segno di sopravvivere alla propria scomparsa. Antoine e (soprattutto) Hervé ci sono riusciti? E se sì, in che modo?
In qualche modo questo è il testamento di Hervé. Quando pronuncia questa frase capisce che la battaglia che lo ha visto protagonista sta per finire, che sono finiti i suoi tempi e stanno per arrivarne degli altri. È una sorta di deposizione dell’ascia di guerra. Si rende conto, quindi, che la cosa più importante è lasciare qualche cosa. Ecco perché c’è questa nostalgica affermazione: Hervé, una volta morto, attraverso una lettera testamentaria dal Marocco, richiamando Antoine per fargli vedere quale era stata la sua vita e il suo lascito – in particolare la figlia, Samira – vuole ricucire quello strappo che ha segnato la vita di entrambi. Non so se riusciranno a lasciare qualcosa ma entrambi ci vogliono provare, sia Hervé con la richiesta di far partire Antoine per il Marocco per prendere il suo posto e occuparsi di Samira e del riad, dimostrargli che era cambiato, che le sue idee politiche erano tramontate e che la sua vita era diventata quella di un uomo qualunque. Allo stesso tempo anche Antoine dovrà decidere – nel frattempo macchiato da una causa penale che riguarda il suo lavoro nel mondo finanziario – se tornare in Italia o rimanere dove lo zio lo ha richiamato. Il finale lascia sospesa questa decisione.
L’albero del Ténéré – Intervista a Alessandro Andrei è il primo appuntamento di INGRESSI, una rubrica a cura di Emiliano Peguiron.


Alessandro Andrei (1978) vive e lavora a Parma. Laureato in Conservazione dei beni culturali, ha esordito nel 2021 con Radio Ethiopia (Les Flâneurs). L’albero del Ténéré (Wojtek, 2024) è il suo secondo romanzo.
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