La fine del mondo

Dal sesto piano del museo si vedono le montagne. Il cielo è diviso a metà. C’è un tetto di nuvole scure, poi l’orizzonte azzurro. Le cime delle montagne sono coperte di neve, da qui sembra rosa.
Il cantiere è ghiacciato, le gru enormi e immobili. Guardo la donna che entra nella sala vuota sfogliando la brochure della mostra. Alza il capo, sorride. Io ricambio appena, poi mi volto. Spero che non venga a parlarmi. Lei si avvicina, guarda fuori. Quando mi chiede cosa stanno costruendo qui sotto dico che non mi ricordo, che qui ci lavoro da poco. «Da settembre» rispondo al suo «da quanto?». La donna ribatte che ‘da settembre’ non è esattamente ‘da poco’ e io rimango in silenzio. Mi chiede quand’è che tornerà agibile, il cantiere. Guardo giù. L’asfalto è coperto di sale e cumuli di neve sporca. Una ragazza attraversa piano la strada stringendosi nel cappotto. Il vento le scuote i capelli, la sciarpa rossa. La guardo scomparire dentro al parco. Le chiome degli alberi sono verdi e in fiore, ricoperte di neve.
La donna si schiarisce la voce, e per un istante la guardo riflessa nell’opera appesa alla parete. Non avevo fatto caso a quanto fossero lunghi i suoi capelli. Le rispondo che il cantiere tornerà agibile non appena si scioglierà il ghiaccio, suppongo. Che probabilmente dovranno prima finire di ispezionare la zona, questo non glielo dico. Sarebbe crudele, credo. Non lo so perché, ma penso sarebbe crudele, sì. È una storia triste, quella.
Mentre fisso la piccola area recintata, sento lo sguardo della donna sulla mia barba sfatta, sulla divisa che ho dimenticato di stirare. «Che tempo strano» dice lei senza smettere di guardarmi, «a giugno, poi». La sua risatina riecheggia per la sala enorme e vuota. «Lo sa che ci hanno trovato il corpo morto di una ragazzina?». Per un istante rimango immobile a fissare la piccola area recintata, l’escavatore con il braccio a mezz’aria, poi mi volto a guardarla. È tornata seria, tiene le braccia incrociate sul maglione pesante, gli occhiali da vista appesi a una cordicella di perline. Somiglia a un’insegnante, perciò le chiedo se fa l’insegnante. Lei risponde che dipinge paesaggi. Mi guarda con gli occhi che sorridono. «Le piace, l’opera?» mi chiede. Guardo verso l’enorme specchio appeso alla parete bianca, che riflette noi – la donna e il suo maglione pesante, la mia camicia non stirata – e la piccola area recintata dove hanno trovato il piede congelato della ragazzina, il suo corpo morto, come l’ha chiamato lei. Rispondo che l’opera non mi piace. Lei mi sorride attraverso lo specchio, poi si volta per tornare a guardarmi. Temo che cominci a parlare dello specchio – l’opera si chiama Inocencia, l’artista è argentina –, a spiegarmi quello che crede non capisca, che non veda, invece torna a guardare il cantiere. «Quando l’ho letto sul giornale era la sera del blackout, se lo ricorda?». Rispondo di sì, che me lo ricordo. «Non lo so perché, ma mi ha fatto pensare al mio ex marito.» Fa una piccola pausa, «la notizia, intendo». Guardiamo entrambi il nastro giallo e nero della polizia che fluttua nel vento gelido. «Non lo so perché» ripete, e io dico: «ci sta» come se stessi parlando con un mio amico. Lei annuisce, accenna un sorriso e dice: «ci sta». «Io ho festeggiato il compleanno di 17,7 milioni di persone» dico sovrappensiero, e la donna mi guarda, sembra confusa e divertita. Sento le guance incandescenti, e mentre mi sfugge una risata imbarazzata lei fa: «cioè?», così le racconto del film che stavamo guardando – uno di quei film d’autore che dici sempre che vuoi vedere e poi t’addormenti –, della luce che è saltata a dieci minuti dalla fine per colpa della neve (tu dormivi da un pezzo), degli allarmi che hanno preso a suonare impazziti e della gente in pigiama fuori sul pianerottolo, giù in strada. Qualcuno ha gridato “ma è la fine del mondo!” e tu – la faccia gonfia dal sonno – ti sei messa a ridere. Io un po’ di paura ce l’avevo – insomma, prima la bufera di neve a giugno, poi il blackout –, ma tu ridevi e basta. “E vabbè” hai detto nel buio prendendomi la faccia tra le mani, “mal che vada crepiamo così, come i dinosauri”, poi ti sei messa a frugare tra i cassetti della cucina. «Avevamo solo delle candeline di compleanno che non sapevamo come reggere, e una torta confezionata scaduta da qualche settimana». Il sorriso della donna si allarga. «È sembrata la cosa più logica» concludo, e il suo sguardo si perde nel pupazzo di neve al centro della rotonda. È storto, con una piccola carota al posto del naso e due ramoscelli sghembi come braccia. Ti piacerebbe. Diresti che sembra gentile. «Che bella storia» fa la donna senza smettere di sorridere, «davvero bella». La guardo, e me la immagino al buio a leggere di una ragazzina fatta a pezzi e trovata seppellita in un cantiere di Milano ovest mentre fuori nevica. Ripenso a te, che canti tanti auguri alle 17.7 milioni di persone nate quel giorno, e alla torta che abbiamo finito a colazione, al vecchio del piano di sotto che il giorno dopo mi ha detto: “buon compleanno, ragazzo”. L’ho ringraziato anche se il mio compleanno è il 23 dicembre, e lui mi ha detto di non prendere freddo.
«Quando stavo con Paolo» comincia la donna, «queste cose brutte non succedevano». Lo dice guardando il tram immobile – quello che ha fatto l’incidente sulle rotaie ghiacciate ed è fermo sul ponte da una settimana –, poi prende una lunga boccata d’aria. «È stata la prima cosa che ho pensato. Naturalmente so che non è così… ci siamo sposati il giorno in cui è scoppiata la guerra, pensi lei». Mi sorride appena. «Però lo sa com’è…». Annuisco, lei mi guarda. «Lo sa?» mi chiede. Nella sua voce c’è una punta di pacata disperazione che un tempo non conoscevo, eppure il suo sguardo è luminoso. «Credo di sì. È una fortuna» rispondo, e la donna chiude gli occhi. «Saperlo, intendo». Lei li riapre e dice: «spero lo sapesse anche lei» e allora mi ricordo che stavamo parlando della ragazzina che hanno ammazzato e seppellito nel cantiere, al suo piede ghiacciato, al nastro turchese che le raccoglieva i capelli ritrovato in mezzo al fango, al suo sangue rappreso. Guardo lo specchio, che riflette la sua sepoltura e le gru enormi e immobili, le montagne coperte di neve rosa e i capelli grigi e lunghi della donna. Me la immagino più giovane, all’altare, mentre altrove scoppia una guerra – quale guerra, questo non l’ha detto – e le ragazzine muoiono. Non so che dire, perciò annuisco.
Per un istante ti rivedo soffiare sulle candeline e gridare “tanti auguri”, dormire sul mio petto mentre fuori nevica e un altrove non esiste, poi ricordo. «Un lunapark» dico, «stanno costruendo un lunapark», ma la donna non risponde, mi posa una mano sul braccio e dice «ciao, caro» e io le rispondo «arrivederci», poi la guardo uscire dalla sala e rimango a guardare fuori finché non esce in strada e sparisce dentro il parco, finché non ricomincia a nevicare.



Elisa Carini (1995) vive a Milano, dove traduce libri dall’inglese e dal francese e scrive. Suoi racconti sono apparsi su «Pastrengo» e «Atomi Oblique».


Melissa Brusati. Estate 1994, Melissa nasce in casa perché alla madre fanno schifo gli ospedali, cresce al nord tra i mari quadrati e sogna di morire presto. Non è battezzata ma Dio ha la forma delle suore della scuola materna e della nonna testimone di Geova che non le suona al citofono. Melissa mangia tutto, piange tanto, respira la musica e schifa la gente. Melissa sogna di diventare pittrice ma scopre di non avere una famiglia benestante. Inizia a lavorare ma se ne pente. Incomincia quindi a studiare illustrazione e arti grafiche speciali all’Accademia delle Belle Arti di Novara. Si pente anche di questo. Secondo gli astrologi è fortunata in amore.



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