Dell’amministrazione dei sacramenti (o dell’iniziazione ai misteri) – Parte 2

di Jacopo Verworner

995. Cresima

“We have become the cutting edge of that experiment. We define it, and we hold in our hands the power to make or to break it.”
~ Terence McKenna, Alien Dreamtime

Una zona residenziale ai margini di Campi Bisenzio, vilette a schiera di recente costruzione. Un capannello di una manciata persone in un giardino, nei pressi di una piscina recintata. Sullo sfondo, una palazzina bianca con le pareti in vetro, che potrebbe vagamente ricordare una villa al mare in stile anni ’60. Senonché l’insegna al neon ammicca multicolore: Happy Land. Però la denominazione e i colori di questo involucro stridono con il suo contenuto al venerdì notte: è il Torquemada club. Già il nome evoca un immaginario da secoli bui, proibizioni, giudizio. All’interno, l’illuminazione rosso cupo sottolinea la tetraggine delle gabbie di ferro montate sulle pedane dei ballerini.
Tra i personaggi del capannello, quello che più attira l’attenzione è un uomo vestito con una tonaca talare porpora, da cardinale, che si abbraccia a un ragazzo esile abbigliato solo di una tunica stracciata.⁵ Nello spettacolo di animazione che si è da poco concluso, all’interno, l’uomo in rosso impersonava Tomás de Torquemada, il grande inquisitore, che passava in giudizio e consegnava al braccio secolare i peccatori: il ragazzo esile e l’altra ragazza nel capannello. Pure lei seminuda, con una veste stracciata che addirittura le lascia scoperto un seno. Accanto a lei, il deejay che ha appena finito di suonare, un ragazzo esile, bassino, con i capelli tagliati a zero.⁶ Leggermente defilato, a braccia conserte, un ragazzo in camicia bianca e pantaloni neri, che stona tra gli altri proprio per il suo aspetto ordinario: quello di un giovane uomo pulito, benvestito e inquadrato.
È il protagonista che tiene banco, parla concitato, gesticola, cerca di esporre i dettagli della sua idea. Forse c’è di mezzo anche un po’ di polverina, a spiegare tutta quella sovraeccitazione. Sta cercando di mettere in piedi una sua serata. L’idea è di farla a Marradi, in occasione del centodecimo anniversario della nascita di Dino Campana. Il cardinale è già a bordo, entusiasta. Ha già immaginato la coreografia: entrerà vestito da maniaco, indossando solo un impermeabile beige, una bombetta in testa e un paio di occhiali e baffi finti, da carnevale. Poi farà per denudarsi aprendo l’impermeabile ma verrà immobilizzato, infilato in una camicia di forza e trascinato via, mentre declama “pum mamma quell’omo lassù”. Il deejay è titubante: alla fine gli sembra un’idea strampalata e irragionevolmente ambiziosa: anche se l’organizzazione della serata dovesse andare in porto senza intoppi, dubita che qualcuno coglierebbe i riferimenti a Dino Campana e alla sua poesia. Il protagonista cerca di far leva sulle cose che li accomunano. Prima su tutte, la loro pregressa frequentazione del centro sociale dell’Indiano. Gli tira fuori anche suo padre, ovvero il professore al cui, qualche settimana prima, ha strappato la lode all’esame di meccanica analitica. Suggerisce che sarebbe senz’altro contento di vederlo tra i protagonisti di un evento che mira a sdoganare la musica che lui suona nel mondo della cultura canonica.
Anche se sovraeccitato, il protagonista riesce a dissimulare, deve ammettere a se stesso che le perplessità del deejay sono più che fondate: l’operazione è altamente discutibile. Soprattutto se si tiene conto che, rispetto ai tempi della sua iniziazione, i frequentatori dei locali di tendenza si sono sempre più omogeneizzati. Nell’abbigliamento, nella provenienza, nei modi. Non è più il carnevale che era una volta. Se tutto quello che era sopra le righe prima incuriosiva e attirava, adesso quasi insospettisce. Si respira sempre più aggressività e testosterone, è sempre più comune veder scoppiare risse, sempre più frequentemente quelli che prima li guardavano con un misto di curiosità e compassione adesso si lamentano delle orde minacciose che questi posti attraggono.
Per l’appunto arrivano due buttafuori ad avvertire il giovane uomo in camicia che ci sono i vigili all’ingresso: i vicini si sono già lamentati perché è appena passata l’ora di chiusura e c’è ancora musica, e fuori nel parcheggio capannelli e schiamazzi non accennano a dissiparsi e scemare. Quando questi ritorna, il protagonista, che alla fine sembra essere riuscito a convincere il deejay e la sua ragazza, gli chiede cosa ne pensa del suo progetto, e se è disposto a dare una mano.
«La mano ve la do anche, ma penso che tu non abbia ancora focalizzato bene quello che facciamo. È un lavoro: bisogna gestire le persone che fanno promozione, accertarsi che non succedano casini, evitare che i vicini si lamentino, tenere contatti decenti con le autorità. L’idea di fondo e la line-up degli artisti sono solo una piccola parte, quella per noi più divertente. Ma tutto il resto lo fa il lavoro, un vero lavoro, credimi».


997. Confessione

“Even the people who run the planet, the World Bank, the IMF, you name it, they know that history is ending. They know by the reports which cross their desks, that the disappearance of the ozone hole, the toxification of the oceans, the clearing of the rainforests, what this means is that the womb of the planet has reached its finite limits.”
~ Terence McKenna, ibidem

È un po’ di tempo che Vanni e il protagonista non si vedono: hanno preso strade differenti e frequentano giri separati. Vanni lavora, si è fidanzato, suona la batteria in un gruppo rock e fa una vita relativamente tranquilla. Anche il protagonista fa vita tranquilla: studia, si sta per laureare in fisica, vede con regolarità solo un pungo di amici del liceo e ha sostanzialmente messo da parte la vita notturna, relegandola a poche occasioni particolari. Una di queste è l’apertura di una nuova discoteca dalle loro parti. Il protagonista ne ha letto sul giornale. Tutto è stato fatto in grande stile e con notevole profusione di mezzi: il locale è molto bello, costruito appositamente a mo’ di anfiteatro; l’impianto audio intimidisce per la potenza e la pulizia del suono; la direzione artistica si è assicurata i migliori deejay sulla piazza, e ha pure cercato di dare un vago spessore culturale all’operazione, alludendo ai raduni hippy degli anni ’60 in degli atipici e voluminosi flyer, che si aprono a libretto rivelando un lungo testo. Il protagonista è molto incuriosito e ha coinvolto Vanni, in memoria della loro iniziazione all’Imperiale.
Per evitare di arrivare troppo presto, iniziano la serata in una birreria irlandese che propone musica dal vivo, dove anche Vanni qualche volta suona col suo gruppo. Rimangono lì fino quasi alle una. Resistono pure alla tentazione di seguire due ragazze che si sono mostrate disponibili a continuare la serata insieme: alla fine si congedano e muovono verso il Taotec. Lo spettacolo che si para loro davanti quando arrivano, alle una e mezza, è desolante. Pare di essere allo stadio. Un’orda di svariate centinaia di ragazzi si agita e rumoreggia, presumibilmente a causa della lunga coda e della lentezza della selezione all’ingresso, che prevede anche la perquisizione da parte dei buttafuori. Ci sono pure un paio di auto della polizia coi lampeggianti accesi e gli agenti in piedi appoggiati alle portiere, pronti a intervenire. Vanni suggerisce al protagonista di chiamare uno dei due direttori artistici per chiedergli di farli entrare dal retro. Sono sue vecchie conoscenze, ha i loro numeri in rubrica. Il protagonista non ha molta voglia di pietire trattamenti di favore, ma alla fine la coda è scoraggiante e si lascia convincere. Mentre il telefono ancora squilla, qualcuno lancia una verso di loro, in una zona ancora semivuota dell’enorme parcheggio, un vaso di vetro con dentro un’orchidea, forse una decorazione posta nei pressi dell’ingresso. Il vaso va in mille pezzi, l’orchidea si accascia sull’asfalto. Il protagonista mette giù il telefono: proprio non se la sente.
Ma lasciar morire così una rara serata insieme è un peccato. Ci sarebbe un afterhour interessante a partire dalle 7 della mattina dopo: il The West, all’Acquacheta, su in montagna. Il flyer intriga: la foto di una cascata, e un testo evocativo che pare un manifesto della vita adulta. Ciascuno elabora e percorre le vie della propria evasione. Trans-formare armonicamente la propria visuale, e quindi la propria identità, è però lavoro rischioso che ogni tradizione ha disciplinato e sottoposto a regole verificate nei millenni; ma non ci sono scorciatoie chimiche per arrivare alla nostra felicità. Il compito che abbiamo davanti è quello di rendere operativi nel nostro vivere quotidiano, nella politica come nei vari settori del lavoro e della creatività spazi sempre più ampi della nostra coscienza personale.

C’è però da arrivarci, alle 7 di mattina. Decidono di ritirarsi a casa del protagonista per far passare la nottata. Si piazzano davanti al computer a intrattenersi con un’avventura grafica basata sull’universo di Lovecraft. A tenerli su fino alle 5, e ad alimentare le loro bestemmie quando non capiscono come superare qualche punto chiave, tre giri di moka da quattro. Poi in pasticceria, a far colazione coi cornetti caldi e altri due caffè, che li sostengono per il lungo tragitto verso la montagna.
Il The West a questo giro si tiene in un’area adibita a campeggio presso la cascata dell’Acquacheta, sull’Appennino Tosco-Emiliano. Si tratta in effetti di un’ampia radura abbracciata dal bosco a cui si arriva dopo aver percorso a piedi una distanza di circa un chilometro dal parcheggio, lungo la statale. All’ingresso, uno striscione bianco con una scritta a spray blu: “La mancanza di rispetto per gli esseri viventi e per tutto ciò che cresce lascia morire anche il rispetto per gli uomini”. La nemesi di quella sbrodolata sui raduni hippy sul flyer del Taotec. Superate le baracche che servono come ufficio e bagni per i campeggiatori, si trovano sul retro della consolle, montata su una specie di palco costituito da tubi innocenti e assi di legno. Su un lato ci sono anche alcuni bambini che giocano rincorrendo un cane. Insomma, l’ambiente è molto diverso da una discoteca, e rammenta molto di più un concerto rock, se non addirittura una festa di paese.
È un po’ di tempo che il The West ha imboccato questa strada di progressivo ritiro alla natura. Le prime edizioni si tenevano al centro fiere di Venturina, e richiamavano sia i villeggianti sul litorale che gli abitanti della piana. Dopo alcuni incidenti, il The West si era progressivamente spostato verso spazi sempre più protetti, inizialmente sulle colline metallifere. Questo aveva contribuito a plasmare una clientela non intimidita dalle difficoltà di accesso e pertanto ben selezionata. L’Appennino è il punto di arrivo di questo processo: qua viene solo chi sa con precisione che cosa va a trovare. In effetti la distanza con quello che hanno visto al Taotec poche ore prima è enorme. Non c’è ancora moltissima gente, e nessuno rumoreggia per entrare. Sotto il sole ancora caldo di settembre, i più portano cappelli e occhiali, e ballano a torso nudo, o addirittura in costume da bagno. Gli animatori, ma anche diversi partecipanti, indossano abiti e ammennicoli che richiamano l’immaginario degli indiani d’America. Uno addirittura indossa un costume da orso, e non si capisce come farà a resistere al caldo. Un paio, poi, sono venuti in pigiama.
Il padrone di casa⁷ è appoggiato ai tubi innocenti che delimitano un lato del palco su cui è montata la consolle. Con il protagonista, gli sguardi si incrociano subito. Si sorridono, lui gli tende un braccio e lo aiuta a salire sul palco. Si abbracciano. O meglio, è il protagonista che gli si butta tra le braccia, quasi a cercare conforto e protezione. Gli racconta di quello che hanno visto davanti al Taotec, quasi gli viene da piangere nel dover prendere atto di cosa è diventato nel giro di pochi anni il mondo che gli si era aperto, lo aveva accolto e gli aveva illustrato la vita. Il padrone di casa lo sa bene: a tali considerazioni ci è arrivato ben prima del protagonista, e proprio per questo ha portato il The West fuori, lontano, nella natura, tra gli alberi. A rimarcare il concetto, ha pure aggiunto al nome “Riserva Indiana”, a evocare pochi superstiti rassegnati all’estinzione, assediati da un mondo ormai ostile, irriconoscibile e incomprensibile.
Vanni anche è salito sul palco, e sta parlando con un uomo sensibilmente più adulto, asciutto e coi tratti del viso ben segnati.⁸ Il protagonista si unisce a loro. L’uomo non si meraviglia del resoconto della situazione davanti al Taotec: anche lui ha ben chiaro che in certi contesti non c’è più modo di lavorare, e si dovranno trovare altre strade. Dice che i centri sociali e gli ambienti alternativi stanno iniziando a muoversi e a interessarsi a quella che, fino a pochi anni prima, veniva liquidata sbrigativamente come “roba da fasci”. Dice che si troveranno spazi liberi, anzi liberati, come già fanno all’estero. Il protagonista dovrebbe sentirsi vendicato o quasi lusingato, ma alla fine alza le spalle e pensa che ormai è tardi, almeno per lui: la sua occasione l’ha avuta, in qualche modo che ancora non capisce se l’è fatta soffiare dalle mani, e ora è inutile pensare di tornare indietro e riprovarci in un altro modo.
Il deejay che sta suonando è un gigante di oltre due metri,⁹ tanto alto che ha dovuto montare il mixer su una specie di trespolo. È vestito con una specie di tunica arancione con dei fregi dorati e sta mettendo della musica lenta, vagamente cupa, con dei fiati che appena emergono dalle linee di basso. Sulla base del disco, sta innestando una traccia vocale che proviene da una cassetta. È un uomo che parla in inglese. Lentamente, scandendo bene le parole e sottolineando le sillabe: “The empowerment of direct experience”. La voce suona vagamente nasale ma è piacevole e rapisce. Sembra ispirata e permeata di divino, come quella di un predicatore che tiene un sermone: “Direct experience, your experience, your opinion, your feelings, your sexuality is the only real thing in your universe. Don’t transfer loyalty to ideology, to money, to party, to friends. All of these things are outside of the core of your reality, and centuries of programming have been laid onto all of us to take away the power of our own direct experience”. Il protagonista è incuriosito e si avvicina. Il deejay si china su di lui e gli spiega parlandogli all’orecchio che si tratta di Terence McKenna, un filosofo americano, uno che secondo lui sta al loro mondo come Timothy Leary stava a quello degli hippy. “If you are right, you are a majority of one! You are a majority of one!
Il protagonista scende dalla consolle per andare a recuperare Vanni, che nel frattempo si era unito a un cerchio di indiani seduti a fumare un chilom nei pressi di una tenda, di quelle da bambini, montata in un angolo del prato, vicino al limite del bosco. Ballano finché hanno forza e poi si lasciano cadere sul prato, all’ombra degli alberi che delimitano la radura. Fissano il cielo, nuvole bianche cicciute che nel crescere e nell’addensarsi disegnano forme evocative. Si sentono un po’ come quando erano bambini, scappavano a giocare coi fucili verso il bosco sulla collina, dietro casa di Vanni, e poi esausti si buttavano sull’erba quando il bosco finiva per mutarsi in radura. E tutto è così familiare e rassicurante che si lasciano scivolare nel sonno.
Quando si svegliano è perché tuona, il cielo si è fatto ardesia e sta iniziando a piovere forte. Sorprendentemente, o forse no, i partecipanti alla festa non scappano via dalla pioggia né cercano di ripararsi in alcun modo, ma paiono addirittura grati al cielo: aprono le braccia, porgono le facce perché le gocce gonfie ci battano sopra. Il terreno si inzuppa, iniziano a formarsi pozze invitanti. «Andiamo?» dice il protagonista, e si lanciano in mezzo agli altri, non si capisce più se stanno ballando o saltando nelle pozzanghere, ma ridono, si abbracciano, e contagiano anche quelli a cui passano vicino.

(continua…)


5 Maurizio Agosti Montenaro Durazzo, in arte Principe Maurice, e Pierluigi Voltolina: ideatori e realizzatori di coreografie e costumi all’Insomnia e frequentemente ospiti al Torquemada club, portano spettacoli di livello teatrale all’interno delle discoteche.
6 Gabriele Fasano, figlio del fisico Antonio Fasano, si afferma in quegli anni come deejay al Torquemada e al Jaiss, proponendo uno stile più duro e pompato rispetto ai suoi colleghi.
7 Raulo Giovannoni è il creatore del The West, e in seguito anche autore de “Il manuale del protagonista”.
8 Franco Falsini, fratello di Riccardo, si converte alla musica elettronica e all’attività di deejay e produttore dopo una ragguardevole carriera come polistrumentista in un gruppo progressive rock negli anni ’70.
9 Roberto Zolezzi, in arte RobyJ, è stato uno dei principali incubatori della scena techno Toscana. Non incline ai compromessi, proponeva sonorità psichedeliche di non facilissima digestione al grande pubblico, ma di grandissima resa negli afterhour.


The West, Cascata dell’Acquacheta (FI)

Caino, Dance macabre, 2023.

Jacopo Verworner nasce e si forma a Firenze e dintorni. Intorno ai trent’anni, a seguito di una poco riuscita carriera accademica, lascia l’Italia e vaga in cerca di quiete, agi e comodità. Finisce per arenarsi in Svizzera, dove già aveva passato beati mesi di castigo in adolescenza, e dove tuttora vive, dividendosi tra Crisopoli e Widmad. Per soldi scrive di economia e politica monetaria, per diletto scrive delle cose che gli passano attorno. Ha pubblicato su «Micorrize» una serie di racconti ispirata al suo periodo francofortese, e su «In Allarmata Radura» un saggio sulla vita da esiliato in Svizzera.


Caino, duo di illustratorə digitali, direttamente dalla redazione de «L’Appeso».


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