Nalini Vidoolah Mootoosamy – Ban Ban Kaliban

RETROSCENA #5

a cura di Eliana Rotella

estratto da Ban Ban Kaliban
di Nalini Vidoolah Mootoosamy

PRESENTAZIONE

Ban Ban Kaliban è un testo metateatrale, una “tempesta” ne La Tempesta (1611) di Shakespeare, che attinge a molteplici fonti. Per restituirne almeno in parte l’anima, sento la necessità di attraversarne alcune: veri e propri fari illuminanti e ispiratori che mi hanno guidata lungo il percorso di stesura. Altre fonti sono richiamate negli eserghi.

In una delle tante sale del Musée d’Orsay di Parigi, è esposto un dipinto del pittore simbolista Odilon Redon: il “Sommeil de Caliban”, ispirato al personaggio shakespeariano.
Ricordo con nitidezza la prima volta che l’ho visto. Quel Caliban dormiente era così lontano dalle rappresentazioni sceniche a cui ero abituata, quasi sempre concentrate sull’aspetto mostruoso e bestiale del personaggio.
In quell’immagine, invece, affiorava una tenerezza inattesa: la figura, appoggiata al tronco d’un albero e immersa nel proprio mondo onirico, sembrava all’improvviso dare corpo alle parole delicate che Caliban pronuncia nel monologo rivolto a Stefano:

Non devi aver paura.
L’isola è piena di rumori,
Suoni e dolci arie
Che danno piacere e non fanno male…

Molto più inquietanti, invece, appaiono le figure che alleggiavano sopra di lui: teste fluttuanti, forse emanazioni di Ariel nell’atto di spiarlo per conto di Prospero. Ed è proprio qui che avviene un ribaltamento. Mentre il corpo di Caliban – umano e vulnerabile – si abbandona al sonno, il perturbante si sposta nella dimensione aerea che lo circonda.
Ariel, da creatura leggera e graziosa, assume un carattere ambiguo, quasi sinistro.

Un salto.

Tra tutte le figure presenti ne La Tempesta, Caliban è senza dubbio la più controversa, soprattutto alla luce di alcune letture postcoloniali del XX secolo che lo hanno eletto a emblema del nativo colonizzato, sottomesso e indicato come “mostro” dal colonizzatore Prospero.
Da qui la volontà di molti registi, dagli anni Settanta in poi, di rappresentare Caliban con la pelle nera, per denunciare e rendere immediatamente visibili le dinamiche coloniali sulla scena.
Non sorprende, dunque, che proprio in quegli anni, Aimé Césaire abbia sentito l’urgenza di riscrivere l’opera shakespeariana nel suo Une tempête (1969), proponendo un Caliban nero e autodeterminato, capace di liberarsi dal giogo della schiavitù.

Un altro salto.

A distanza di mezzo secolo, mi ritrovo a confrontarmi, come Césaire, con La Tempesta di Shakespeare. Le ragioni sono molteplici, ma parto da una sconfitta: nelle messinscene a cui ho potuto assistere continua a prevalere la rappresentazione del Caliban bruto, selvaggio, ridotto a pura alterità primitiva. Il personaggio proteiforme di Shakespeare è più che altro il simbolo di ciò che consideriamo mostruoso e inaccettabile nella nostra società.
Come se non bastasse, si tratta quasi sempre di un Caliban nero.
Mi rendo conto che le letture postcoloniali non solo non hanno attecchito in modo profondo nell’immaginario teatrale occidentale, ma, in molti casi, hanno “involontariamente” contribuito alla persistenza di stereotipi consolidati nei secoli.

A questa constatazione, se ne aggiunge una seconda: la tendenza a scegliere attrici e attori neri per ruoli principalmente “etnici” o “esotici”. Pensavo che questa pratica fosse un fenomeno soprattutto italiano. Tuttavia, le polemiche sorte nel 2024 in Inghilterra – condite da insulti e odio razziali – perché una nota produzione aveva assegnato il ruolo di Giulietta a Francesca Amewudah-Rivers, un’attrice nera, mi ha mostrato quanto, invece, il problema sia radicato e globale.
Tutto questo avveniva proprio mentre stavo lavorando su Ban Ban Kaliban: non potevo non tenerne conto.
Ban Ban Kaliban è un testo sviluppato su tre piani drammatici – un teatro nel teatro nel teatro – che, a partire dalla riproposizione di una messinscena de La Tempesta di Shakespeare, affronta le contraddizioni e le tensioni legate al corpo dell’attore nero nella drammaturgia occidentale.
Il testo vuole evidenziare l’uso “coloniale” e razzista del corpo dell’attore, spesso ridotto a fenotipo e a “segno scenico” di un determinato gruppo etnico.
Il protagonista, un giovane afrodiscendente che si identifica con la lettera K, si confronta con ruoli stereotipati e deformanti, mentre aspira a una piena visibilità artistica. Il suo sogno, però, sembra sempre destinato a infrangersi contro un muro bianco.
Attraverso un dialogo continuo con quattro attori ingaggiati per supportarlo – che talvolta prendono la parola all’unisono come un vero e proprio Coro – K s’interroga sulla funzione immaginifica e catartica del teatro, ricostruendo alcuni avvenimenti cruciali della sua vita, puntellata da sogni e umiliazioni, da ribellioni e punizioni.

Nalini Vidoolah Mootoosamy



Schiavo odioso, tu non sapevi,
Selvaggio come eri, esprimere i tuoi pensieri,
Ma balbettavi come un bruto,
Io ti ho dato le parole…
William Shakespeare, La Tempesta, Atto I, Scena II

Un uomo che possiede il linguaggio possiede
di riflesso il mondo espresso e implicato da
questo linguaggio.
Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche

Non si nasce Negro, lo si diventa.
Dany Laferrière, Come fare l’amore con un negro senza stancarsi

Una sera un uomo di teatro mi chiese di
scrivere una commedia per un gruppo di attori
Negri. Ma che cosa è poi un Negro? E, per
prima cosa, di che colore sono i Negri?
Jean Genet,I negri


II. PICCOLI SOGNI NERI SU UN VASTO CIELO BIANCO

K       (agli spettatori) Siete mai andati allo stadio? O meglio, siete mai andati a vedere una partita di calcio allo stadio? (Pausa) Mi basta un semplice sì o no.

Aspetta la risposta degli spettatori e poi prosegue.

Scusate se vi ho fatto questa domanda, ma considerando che siete qui stasera e non allo stadio, ho pensato che forse… No, scusatemi… La verità è che sono convinto che le persone che vengono a teatro non conoscano affatto il mondo del calcio, ma il mio è solo un pregiudizio. Pensandoci bene, in effetti, i due mondi – calcio e teatro – non sono per forza opposti, non come inferno e paradiso, o come il gatto vivo e morto di Schrödinger o ancora come il Bianco e il Nero. È vero che sono entrambi dei colori acromatici, ma in maniera diversa. La scienza dei colori ha stabilito da tempo, infatti, che il Bianco si forma mescolando tutti i colori insieme, mentre il Nero non è altro che la sintesi sottrattiva di tutti i colori, come quando in teatro il tecnico luci (indicando Attore 1) spegne gradualmente (indicando i fari) tutti i fari, creando per qualche secondo un buio assoluto.

Le luci si abbassano fino a spegnersi del tutto.

Ecco: è così che si forma il Nero, sottraendo luci e colori. Tutti. Il Nero non è altro che una perenne assenza di colori.

Le luci si rialzano.

Per questo, quando la gente che si autodefinisce “Bianca” mi indica come quello “di colore” o “Nero”, io vorrei tanto spiegargli l’errore di fondo, dirgli che io non posso essere presenza e assenza di colore allo stesso tempo.
Vorrei anche aggiungere che la gente rischia molto usando certi termini, perché, se io fossi “di colore”, dovrebbe considerarmi parte del processo per formare il Bianco. Dovrebbe, insomma, sottolineare la sua dipendenza da me. Un fatto che mi autorizzerebbe a dirgli: “Ehi, tu Bianco, lo sai che senza di me non potresti esistere?”.
Considerando il pericolo di questa affermazione, preferisco stare zitto e incassare l’errore. D’altronde, sono allenato a farlo: sin da piccolo, ho dovuto accettare l’idea che il mio nome fosse una sorta di scioglilingua. Tutti non facevano che sbagliarlo. E quando dico tutti, intendo proprio tutti. Non avete idea di quanti errori ho collezionato negli anni: pronunce scorrette, accenti spostati, inversioni di lettere… Per questo mi sono rassegnato a ribattezzarmi. Oggi mi chiamo K. Semplicemente K. Almeno così non devo perdere tempo a rispondere a domande tipo…

CORO    Che cosa significa il tuo nome?

K       Lo chiedono spesso anche a voi?

CORO    No.

K       (rivolgendosi agli spettatori) E a te? E a te? E a te?

Aspetta la risposta degli spettatori e poi prosegue.

ATTORE 1  Che poi di per sé non è una domanda fastidiosa. Anzi, rivela un certo interesse nei tuoi confronti.

K       Comunque sia, chiamarmi K è tutta un’altra storia. Facile da pronunciare. Significato: undicesima lettera dell’alfabeto. Fine. A essere sincero, avrei preferito usare la lettera X, come Malcolm X, ma sarebbe stata un’emulazione impropria.

Da questo momento tutti gli attori possono alzarsi o sedersi quando vogliono.

ATTORE 2  Sicuramente impropria, visto che nel 1950 l’afroamericano Malcolm Little ha scelto di adottare la lettera X al posto del suo cognome.

ATTORE 1  Lo ha fatto per prendere le distanze da una pratica secolare, risalente ai tempi della tratta degli schiavi neri negli Stati Uniti d’America.

ATTORE 3  Quella pratica prevedeva l’adozione coatta da parte degli schiavi del cognome dei loro padroni, quali Little.

ATTRICE    White.

ATTORE 1  Jones.

ATTORE 2  Jefferson.

ATTRICE    Robinson.

ATTORE 2  Jackson.

ATTORE 1  Washington…

ATTORE 3  Come George Washington.

K       O Denzel Washington.

ATTORE 2  O ancora l’adozione di un cognome derivato dalle loro mansioni, quali Fisher.

ATTRICE    Barber.

ATTORE 1  Butler.

ATTRICE    Hunter.

ATTORE 2  Potter.

ATTORE 3  Piper.

ATTORE 1  Clay…

ATTORE 2  Come Cassius Clay che, seguendo l’esempio di Malcolm X, decise di cambiarlo prima in Cassius X, poi in Ali, per diventare, infine… K Muhammad Ali.

ATTORE 3  Comunque, nessuno dei due è riuscito a risalire ai cognomi originari dei propri antenati.

ATTORE 1  Non sappiamo con certezza se abbiano fatto delle ricerche.

ATTRICE  Ma, anche se le avessero fatte, è impossibile risalire a quei cognomi.

ATTORE 2  Quelli sono andati perduti nel momento in cui i loro antenati sono stati stipati nelle navi che li hanno portati dall’Africa negli Stati Uniti per diventare schiavi.

ATTORE 3  Padri di schiavi.

ATTORE 1  Nonni di schiavi.

ATTORE 2  Avi di schiavi.

CORO    (a K) Ma questo non è il tuo caso.

K       No, non lo è. Il mio nome è legato alle mie origini e alla mia terra. L’ho ricevuto da mia madre, che lo ha ricevuto da sua madre, che lo ha ricevuto da sua madre, che lo ha ricevuto a sua volta da sua madre. Non ho dubbi! Il mio cognome non si è perso nel tempo, ma qui, in questo paese, non trova lo spazio di esistere. Troppo complicato, impronunciabile secondo tutti. C’è stato un momento, comunque, in cui ho creduto di poter cambiare questa storia. È successo quando avevo dieci anni e sono andato per la prima volta allo stadio a vedere una partita di calcio, perché un datore di lavoro di mia madre le ha ceduto due biglietti. È stato uno shock! (Agli spettatori) Immaginate, per un momento, uno stadio o un’arena gigantesca capace di contenere dai cinquanta ai sessantamila spettatori.

ATTORE 3  Un’arena come il Colosseo o altri anfiteatri costruiti durante l’Impero romano.

ATTRICE  I teatri romani, comunque, ne potevano contenere un po’ meno.

ATTORE 1  Diciamo la metà della metà della metà.

ATTORE 2  O forse anche della metà della metà della metà.

ATTORE 1  Ma sempre più dei teatri di oggi!

ATTORE 3  Oggi, un teatro può accogliere in media circa trecento spettatori.

ATTRICE  Ovvero, più o meno, lo 0,5 percento della capienza di uno stadio o del Colosseo.

ATTORE 3  Una capienza insignificante.

CORO    Ma questo non era il tuo caso.

K       No, non lo era. Nel mio caso, quel giorno, lo stadio era pieno, pienissimo di spettatori. Ricordo ancora la cifra sullo schermo sopra la tribuna: 58422. Non ho mai visto così tante persone Bianche tutte insieme. Comunque, lo shock vero lo hanno subito le orecchie: un coro di circa trentamila spettatori Bianchi che ripetevano i nomi dei giocatori di calcio al loro ingresso in campo; anche di quelli con i nomi più difficili, pieni di W, J, K, X, H, Q o Y. L’estasi l’ho raggiunta quando uno di questi giocatori dal nome difficile, e per giunta Nero, ha segnato un gol. Tutti non facevano che ripetere il suo nome, correttamente, più e più volte. Un inno alla gioia per le mie orecchie. Dopo anni di frustrazione, avevo finalmente trovato la via: sarei diventato anch’io un giocatore di calcio. Uno famoso. Uno di Serie A. Così, ho supplicato mia madre d’iscrivermi a una scuola di calcio. Io avevo un sogno, e continuavo a ripetermelo: Io ho un sogno, io ho un sogno, io ho un sogno!

ATTORE 3  “Io ho un sogno che, un giorno sulle rosse colline della Georgia, i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza”.

ATTRICE  “Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno Stato soffocato dall’ingiustizia, soffocato dall’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia”.

ATTORE 2  “I have a dream, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere”.

CORO    Io ho un sogno, oggi!

K       Questo, però, non è il mio sogno.

ATTORE 2  No, questo era il sogno del reverendo afroamericano Martin Luther King.

ATTRICE  Da non confondere con il teologo tedesco e bianco Martin Lutero.

ATTORE 3  Questo è il sogno che il reverendo King aveva rivelato alle migliaia di persone che si erano radunate a Washington, per sostenere i diritti economici e civili degli afroamericani.

ATTRICE  Si stima una presenza dai duecentocinquantamila ai trecentomila partecipanti.

ATTORE 1  Ci vorrebbero almeno quattro o cinque Colosseo per contenere tutte queste persone.

ATTRICE  O forse basterebbero due Rungrado Stadium, lo stadio costruito nel 1989 a Pyongyang, capitale della Corea del Nord. È lo stadio di calcio più grande del mondo, capace di contenere più di centocinquantamila persone.

ATTORE 1  Però, più che per le partite di calcio, viene spesso usato come teatro per spettacoli di massa.

ATTORE 2  Spettacoli per celebrare il presidente Kim Jong Un.

ATTORE 1  Figlio del presidente Kim Jong Il.

ATTORE 3  A sua volta figlio di Kim Il Sung, conosciuto anche come il “Presidente Eterno”.

ATTRICE  Il Sole della Nazione.

ATTORE 3  Il Patriota senza Pari.

ATTORE 2  Il Comandante Brillante sempre Vittorioso dalla Volontà di Ferro.

ATTRICE  Anche lui aveva un sogno.

ATTORE 1  Un sogno tramandato di generazione in generazione.

ATTORE 3  Un sogno eterno per un “Presidente Eterno”.

ATTORE 2  Un sogno che grazie a Kim, figlio di Kim, figlio di Kim, oggi, è diventato realtà!

ATTRICE  La realtà nucleare.

ATTORE 2  Non come il sogno del reverendo King, figlio di King, figlio di King.

K       E neppure come il mio. All’epoca, però, ci credevo e mi allenavo tutti i giorni. Ovunque. In casa, nel cortile della scuola, per strada, con nelle orecchie il coro di trentamila persone a gridare il mio nome. Il mio nome! Per quanto corressi, non riuscivo mai a prendere la palla e quando, quelle rare volte, mi finiva tra i piedi… Ecco, improvvisamente, mi sembrava di trasformarmi in un rinoceronte che tenta di fare il funambolo. E i miei compagni di squadra non facevano che ripetermi…

CORO    “Non abbiamo mai visto un Nero meno dotato di te”.

K       Calcisticamente parlando, s’intende.

CORO    S’intende, certo!

K       L’allenatore, invece, convinto di alcune teorie bislacche, mi urlava:

ATTORE 1  “Muovi quelle gambe! Lo sanno tutti che voi Neri avete più fibre bianche di noi Bianchi!”.

K       All’epoca non capivo nulla delle cosiddette fibre muscolari bianche; che ho scoperto dopo essere delle “fibre a contrazione rapida” particolarmente sviluppate tra le popolazioni dell’Africa occidentale.

CORO    Questo, però, non è il tuo caso.

K       No, non è di sicuro il mio. Ma a forza di sentire quella frase, ho cominciato a pensare che noi Neri… Sì, insomma, che noi Neri eravamo più bianchi dei Bianchi!

Martin Luther King Jr., Washington, D. C., 28 agosto 1963
In copertina: Odilon Redon, Sommeil de Caliban (1895-1900 c.)

Nalini Vidoolah Mootoosamy – Ban Ban Kaliban è il quinto appuntamento di RETROSCENA, una rubrica a cura di Eliana Rotella.


Nalini Vidoolah Mootoosamy, originaria dell’isola di Mauritius, è drammaturga e scrittrice. Dopo un dottorato in francesistica all’Università degli Studi di Milano, con uno studio narratologico del personaggio romanzesco, si specializza in scrittura drammaturgica seguendo alcuni laboratori con Vitaliano Trevisan, Renato Gabrielli, Davide Carnevali, Victoria Szpunberg, Roberto Scarpetti ed Ella Hickson. Nel 2018 fonda l’Associazione culturale Ananke Arts, dove, come drammaturga, conduce laboratori di formazione teatrale ed eventi performativi. Collabora da alcune edizioni al progetto Teatro Utile dell’Accademia dei Filodrammatici. Dal 2021 è parte della rete “Fabulamundi Playwriting Europe”, partecipando a diversi progetti teatrali in ambito europeo e internazionale. Tra i suoi testi teatrali: Il sorriso della scimmia (2020 – testo selezionato da PAV & Fabulamundi Playwriting Europe per il progetto Playground 2021 e da Casa Italiana Zerilli Marimo’, New York nell’ambito del Black Month History 2024; il testo è pubblicato col titolo inglese “The Foreigner’s smile” nel volume The Methuen Drama Anthology of Contemporary Italian Plays, 2025, curato da Margherita Laera), Adesso è per sempre (2021 – testo tradotto in catalano e presentato al Teatro Sala Beckett di Barcellona), Bleach Me (2021 testo selezionato da PAV & Fabulamundi Playwriting Europe, per il progetto Playground London 2022 e Playground 24/26), Lost & Found (2022 – finalista Premio Riccione 2023), Ban Ban Kaliban (2024, presentato al Festival IF_Dark Ages 2024 all’interno di Piccola Bottega) e Rinascere dalle macerie (2024) sulla strage di Gorla del 1944. Dal 2025 è direttrice artistica di In Fest Generator – Festival multidisciplinare dedicato ad artiste e artisti con background migratorio.



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