Cosa fare nel Bosco a novembre

di Maria Rosaria De Santis

[…] lei aveva danzato, pioveva,
le gocce scorrevano sotto la luce,
lei che danzava, e la città edificata intorno.

Clarice Lispector, La città assediata

La pioggia caduta durante il giorno ha bagnato l’intera città. Il taxi si arrampica su per i vicoli, tra i passanti e i motorini parcheggiati accanto ai portoni aperti sulla strada. Il tassista mi chiede se mi deve lasciare davvero all’ingresso del Bosco. Con questo tempo, commenta, e mi guarda storto dallo specchietto centrale. Fuori, una striscia di luce gialla separa i palazzi, le strade e le macchine dal tappeto compatto di nuvole grigie: il confine tra i due colori è netto e bellissimo. Ho deciso che questo deve essere un momento reale, dunque non farò foto. Voglio che l’unica rappresentazione di questo istante sia l’immagine rimasta impressa nei miei occhi: la pioggia sulla città osservata dal punto più alto della collina di tufo e la striscia di sole a separarle. All’ingresso del Bosco il taxi si ferma con le quattro frecce dietro un pullman rosso da cui scende una scolaresca. I ragazzi si ammassano a gruppetti sotto ogni ombrello e superano la Porta Grande, diretti al Museo.
Pago il taxi in contanti, alla Stazione Centrale ho prelevato cinquanta euro, evitando, però, di controllare il saldo della carta. Entro da sola nel Bosco. Anche lui è in orario, cammina verso di me. La sua voce arriva da sotto un ombrello rosa col manico lungo. Sapevo che eri tu, dice. Lo invito sotto il mio e ci avviamo verso il porticato. Sono le cinque del pomeriggio ed è già buio, in giro c’è solo qualche turista, alcuni operai. Si accende una sigaretta. I suoi lineamenti non sono diversi dalle foto, ha il volto liscio e senza barba sembra più giovane. È vestito di nero, dal cappotto spunta il collo di un maglione dello stesso colore.
Sulle pareti del porticato corrono impalcature, grosse catene, secchi gialli per il trasporto dei detriti che sciupano lo scuro della pietra antica, spegnendolo. Ieri, in chat, mi ha chiesto:
«Hai visto le previsioni meteo per domani? Porta maltempo».
«Non lo faccio mai».
«Questo», ha risposto, «è perché sei giovane».
Ora si guarda attorno, indica i ponteggi sopra le nostre teste: «Me ne voglio andare da questa città. Muore su se stessa e noi moriamo appresso a lei».
Arrossisco se penso ai messaggi di qualche notte fa e allora gli chiedo – non voglio che anche lui abbia il tempo di pensarci – dove andrebbe per fuggire. Risponde con il nome di una città del nord e io dico: «Secondo me non cambierebbe nulla. Le città hanno strutture invisibili e gli abitanti ne sono prigionieri».
«Se vivessi in una città che non è la mia, non mi accorgerei di niente».
Ci sediamo a un tavolino del bar sotto il porticato. L’inverno imminente si è già infilato negli orli dei nostri cappotti, nell’aria fredda che sento attorno e nelle piccole nuvole di condensa che escono dalle nostre bocche. Manca più di un mese a Natale, ma al centro della rete di tavolini c’è già un abete decorato e fili di lucine dorate avvolgono le piante allineate lungo il muro.
È soprattutto lui che parla. Forse anch’io avrei dovuto presentarmi con un’idea chiara di me stessa e senza la vergogna di mostrarmi a uno sconosciuto. Ho paura di sembrargli frivola, una di quelle che ridono senza neanche sapere il perché. Allora gli dico che mi piacciono molto le foto dei suoi gatti che pubblica tutti i giorni su Instagram.
«Sono i miei unici coinquilini».
«E ogni tanto ti capita di parlare anche con gli esseri umani?»
«Raramente».
Gli faccio notare che il cameriere non arriva, lui si alza e va a chiamarlo. Almeno è gentile come in chat. Siamo gli unici clienti all’interno del bar, e il cameriere si precipita al tavolo, asciugandosi le mani bagnate con uno straccio. Ordiniamo due cioccolate calde; ripete ad alta voce le nostre ordinazioni e, con la stessa espressione allarmata di prima, sparisce di nuovo all’interno. Ho detto molte bugie per essere qui con lui e ho già speso diciassette euro di taxi. Mi chiede cosa faccio di lavoro, rispondo: «Aspetto che finiscano i soldi che mi rimangono». Scoppia in una risata che lo fa sembrare un bambino: mostra i denti e il suono gli resta in gola come un singhiozzo. Io spero che almeno sia vera, o tanto vale che il porticato crolli. Me ne fotto del palazzo antico, dei quadri dentro e dei turisti da ogni parte del mondo che morirebbero sotto le macerie. Sarebbe una strage inutile: anche se il Bosco crollasse, lui continuerebbe a parlare d’altro.
Beviamo la cioccolata, intanto mi spiega che è da quando ha vent’anni che non vota: non gli piace niente e non si vuole accontentare. Hai ragione, dico, io voto sempre senza convinzione, ma non perché mi accontento, semplicemente mi sforzo di scegliere tra le opzioni a disposizione. Se penso e scelgo sono viva; se invece non faccio niente, tanto vale scomparire. Ma forse questo non l’ho detto davvero, ho solo pensato di farlo.
Chiedo al cameriere dov’è il bagno. Ti aspetto qui, mi dice. Per raggiungerlo devo attraversare di nuovo il porticato, ora buio e umido. Non è possibile che nessuno, nemmeno adesso che ci sono turisti a tutte le ore del giorno e della notte, si ricordi di accendere le luci. Nel bagno ci sono due ragazze, hanno circa la mia età, ridono e si passano il lucidalabbra davanti allo specchio. Hanno poggiato sul lavandino due borse in tela identiche con sopra il logo di un’accademia d’arte. Mi lavo le mani e incrocio lo sguardo di una delle due; dico: «Fa un freddo esagerato». E loro mi mostrano i cappelli di lana che hanno comprato in una bancarella giù in centro con scritto sulla fronte “Forza Napoli”.
Di ritorno al tavolo, lo trovo in piedi, cammina – avrà freddo anche lui – e sta fumando di nuovo; con lo sguardo percorre il mio corpo nascosto dal cappotto e dalla sciarpa. Mi vergogno di essere così coperta, forse avrei dovuto vestirmi meglio e sorridere di più, non ho fatto nessuno sforzo per piacergli, sono stata arrogante. Quando eravamo seduti, gli ho guardato le mani: ho notato un piccolo tatuaggio tra l’indice e il pollice della sinistra. Gesticolava dicendo che le persone sprecano il tempo perché a loro non serve, si aggirano tra le stagioni e gli eventi come se ogni ricorrenza fosse un obbligo; le vacanze estive, il matrimonio, comprare casa, è tutto un fatto di chiudere gli occhi e abbandonarsi, le cose succedono perché succedono, e così non sentono il dolore del tempo che passa, l’emorragia delle scelte prima possibili e adesso perdute. A me il tempo serve, ha aggiunto, ne ho già perso tanto e, alla fine, non ho costruito niente. Mentre parlava io pensavo che le possibilità sprecate mi mettono tristezza e pure rimanere sempre immobile, paralizzata nel tempo. Poi ha sorriso: Tu, invece, potresti cambiare la tua vita in ogni momento. Potresti lasciare tutto e diventare, non so, un medico, dovresti esserne felice. Se non fosse che mi fa schifo la vista del sangue.
Ci allontaniamo dal bar. Mi dispiace per la nostra versione notturna perduta. Chissà dov’è finita, forse entrambi siamo stati troppo bravi a fingere e adesso non abbiamo il coraggio di ammettere che non c’è spazio nella realtà per le cose troppo a lungo immaginate. Mentre camminiamo, lui all’improvviso si ferma, si scopre i calzini tirando su la stoffa dei pantaloni, mi mostra le scarpe di cuoio nero. Sono confusa, allora dico che mi piacciono, sono eleganti. Non hai capito, dice sorridendo, non senti che fanno rumore? Mentre venivo avevo le cuffie e non me ne sono accorto. E allora perché non le porti dal calzolaio a farle aggiustare, gli chiedo. Dovrei accarezzargli una mano, stringerla nella mia e allora sollevo lo sguardo. Sul collo del maglione, proprio sotto il mento, mi accorgo di un punto in cui la stoffa è consumata. Risponde che non ci sono più calzolai in nessun angolo della città, perché tutti i negozi adesso sono per i turisti. Pure le case sono solo per i turisti, da poco mi hanno sfrattato dal mio appartamento per farci un bed and breakfast. L’ideale di questi tempi è imparare ad aggiustarsi le scarpe da soli, dico, e fare in modo di nascere in una famiglia ricca. Passeggiamo insieme nel porticato, finiamo davanti all’uscita del Museo, dove incontriamo la scolaresca di prima che si prepara ad andare via. I ragazzi schiamazzano, uno di loro canta, il professore grida di mettersi in fila per due. Qualcuno ci dice che la biglietteria si trova dall’altro lato, anche se non l’abbiamo chiesto. Noi torniamo indietro, camminiamo fianco a fianco fino all’ingresso, dove un grande cancello di ferro battuto separa il porticato dal Bosco.
La città è lontanissima e a me pare di stare sott’acqua. Non sopporto la vista del Bosco, mi appoggio con le spalle alle grate e cerco il suo sguardo, ma è così buio che non lo vedo bene: riesco a malapena a distinguere gli occhi molto grandi sul volto scavato dalle ombre, la linea del mento dolce sotto la bocca sottile, come in fotografia. Gli studenti ci passano accanto preceduti dal professore. A mano a mano che escono nel Bosco aprono gli ombrelli e presto spariscono dalla nostra vista. Il Museo, adesso, è vuoto. Gli alberi, le panchine e gli edifici in fondo svaniscono nel silenzio profondo del parco. Mi parla di un racconto che ha letto di recente ambientato proprio nel Bosco, in una serata piovosa come questa. Parla di un vecchio che finisce morto ammazzato di botte per una ragione che non ho ben capito. Non l’ho ascoltato con attenzione, ho pensato prima questo è pazzo, poi alla realtà possibile in cui stasera nessuno muore e noi facciamo l’amore. L’immagine mi brucia nella pancia e sembra per un attimo vicinissima nel tempo, invece dico: «Si è fatto tardi, ce ne andiamo?». Mi stacco dal cancello ed esco fuori nel Bosco. Mi raggiunge e insieme attraversiamo il parco, le nostre braccia si sfiorano sotto l’ombrello. Usciti sulla strada guardiamo le macchine in fila nel traffico, la città porta i segni della pioggia caduta tutto il giorno, l’asfalto, le finestre, le insegne dei bar, ogni cosa davanti a noi è più lucida e scura.
Come torni a casa?, mi chiede. In taxi, gli dico, e prendo il telefono dalla tasca del cappotto e cerco su Google le parole “Taxi Napoli”, chiamo il primo numero che compare sullo schermo.
Ci rifugiamo sotto una pensilina di fronte all’ingresso del Bosco, la pioggia si infila comunque dai fori nel tetto di plastica. Lui apre di nuovo l’ombrello, si lamenta che una goccia più grossa delle altre gli è caduta tra i capelli. Io aspetto in linea che qualcuno mi risponda. Una voce mi avverte che il taxi arriverà entro dieci minuti, quindi riaggancio. Mi richiama dopo pochi secondi, dice che ce n’è uno a due minuti di distanza; le spiego che mi trovo davanti alla Porta Grande del Bosco. Rimetto il telefono in tasca, gli dico che il taxi sta arrivando e lui risponde che tutta questa efficienza non si è mai vista, cose da pazzi, e lo dice guardando la strada. La sua bocca, di profilo, ha una piega delusa. Mi volto anch’io nella direzione del suo sguardo, c’è un taxi che viene verso di noi. «Forse è già arrivato» dico, ma lui scuote la testa: «C’è già una persona dietro, non è il tuo». Il taxi ci supera, svolta a destra e scompare. Ne spunta un altro, stavolta mette la freccia e accosta davanti a noi. Lui si volta verso di me, mi bacia sulle guance così velocemente che quasi non me ne accorgo; è la prima volta che la nostra pelle si tocca. Aspetta, dice, ti accompagno così non ti bagni, e mi scorta con il suo ombrello fino alla portiera dell’auto. Salgo: in un attimo io sono dentro e lui è rimasto in strada, sotto la pioggia. Il tassista mette in moto, abbasso il finestrino e gli mando un bacio con la mano, ma le mie dita sono bagnate e adesso la mia bocca è umida. Lui non risponde, forse nemmeno se n’è accorto. Il taxi imbocca la discesa dalla collina di tufo, lui finisce col suo cappotto nero e la sigaretta accesa nella pancia della città. Tornerà nella casa in cui per ora vive, prima che lo buttino fuori definitivamente e io non lo rivedrò più. O forse se ne andrà davvero, come mi ha detto, partirà per una città che non fa prigionieri, né vittime.
Il tassista mi osserva dallo specchietto centrale, in cui mi guardo anch’io e vedo che il trucco che avevo sulle guance è sparito. Si schiarisce la voce, dice «Scusate se mi prendo confidenza, anzi, scusami, ti do del tu perché hai l’età di mia figlia, ma che ci facevi al Bosco di Capodimonte con questo tempo? Dall’accento non mi sembri una turista». Rispondo con una bugia, certe volte raccontare la verità è una vergogna. Il taxi è bloccato nel traffico, rispondo a un messaggio di mia sorella che mi chiede dove sei??? mamma ti ha chiamato cento volte. Arriviamo alla Stazione Centrale, è tutto buio e mi fa paura. Non ha smesso di piovere nemmeno per un istante e io ho speso trentanove euro di taxi. Con gli ultimi undici che mi sono rimasti compro il biglietto del treno per tornare a casa.


© André Kertész, Looking Throug Trees a Man with Umbrella, 1962.

Maria Rosaria De Santis nasce il 17 novembre 1998. Nel 2022 pubblica una raccolta di poesie per Giulio Perrone editore (L’Erudita) dal titolo L’amore immaginario. Suoi testi in prosa e poesia sono apparsi su «laRepubblica», «Gorillasapiens», «Il cucchiaio nell’orecchio», «CrunchED», «Tremilabattute» e sulla rivista canadese «The Polyglot».



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