L’agente letterario: mestiere svelato – Dialogo con Michele Turazzi e Marco Nardini

{dis}impegno letterario #7

a cura di Simone Sciamè


Durante o dopo la fase di stesura di un libro, nella testa di un autore passa in sovrimpressione un messaggio, un’anticipazione mentale, una preoccupazione: e se mi facessi rappresentare da un agente letterario? Questa domanda può attraversarti una o infinite volte prima che il manoscritto sia pronto e puoi scegliere se afferrarla o lasciarla fluire, cosciente che prima o poi potrebbe tornare come un pensiero intrusivo, come una curiosità che richiede di essere soddisfatta. Se non hai mai avuto occasione di conoscere un agente letterario potresti fartene un’idea spulciando su internet i siti delle agenzie, i profili Linkedin, ma potrebbe non bastare. Allora potresti contattare quell’autore o quell’autrice che sì, l’agente ce l’ha, e sembra anche piuttosto appagato, perché il suo romanzo ha trovato il suo posticino in una buona casa editrice. Casa di cui stimi il lavoro. Ti decidi quindi a contattarlo e a chiedere consigli. Credi che sarà una conversazione lampo, una botta di suggerimenti e tutti a casa. Invece parte dicendoti che lui è davvero felice del lavoro svolto, ma che gli agenti letterari sono come i parrucchieri, non tutti fanno al caso tuo. Continua raccontando della sua esperienza, e aggiunge anche quelle di altri suoi colleghi e colleghe. Alcune di queste storie raccontano un matrimonio perfetto, altre un sodalizio combinato, forzato. Sono aneddoti che a volte lasciano l’amaro in bocca e una serie di punti di domanda. Ti ritrovi d’un tratto con la testa sotto il casco del parrucchiere ad ascoltare con smanioso interesse i pettegolezzi, le beghe, gli intrallazzi, le delusioni e le promesse disattese dei tuoi colleghi. Alla fine del racconto ti guardi e intravedi una permanente che potrebbe fare al caso tuo, come ha detto il tuo amico, ma non ne sei sicuro.
Infine chiedi al tuo amico autore: scusa, tu come hai fatto a cavartela? Lui ti sorride, guardandosi compiaciuto allo specchio e, come se fosse la più grande verità sussurrata al mondo, risponde: ho trovato il mio parrucchiere.

Per ripulire le idee e non rischiare una pessima lavata di capo, ho pensato di contattare due agenti letterari: Michele Turazzi di Pastrengo e Marco Nardini di Otago Literary Agency.
Grazie a entrambi per aver accettato il mio invito.


Molti hanno un’idea poco chiara del ruolo e dei doveri di un agente letterario. Vi andrebbe di illuminarci?

Michele:
Potremmo definire l’agente letterario come il punto di intersezione tra autore e casa editrice: gestisce i rapporti tra le due parti, e lo fa curando gli interessi dell’autore. I compiti dell’agente sono variegati: lettura dei manoscritti e scoperta di nuove voci, ricerca dell’editore, contrattazione, stesura e stipula del contratto d’edizione, tutela degli interessi autoriali successivi alla pubblicazione (la riscossione crediti, per esempio), gestione dei diritti secondari (cioè diritti esteri, cinematografici, televisivi…). Semplificando, nella mia visione l’agente è il primo e principale referente dell’autore.

Marco:
Per dirla in poche parole: l’agente letterario è colui che rappresenta gli autori e le autrici e ne cura gli interessi. Ci occupiamo, cioè, di supportare scrittrici e scrittori nel loro percorso editoriale, essendo il loro intermediario nei confronti di case editrici italiane e straniere, produzioni cinematografiche e televisive, e in tutto ciò che concerne lo “sfruttamento” delle loro opere. Siamo un punto di riferimento costante per le persone che fanno parte della nostra scuderia, da quando le loro opere sono solo un’idea fino a dopo la pubblicazione. Leggiamo i loro lavori, ci confrontiamo, li proponiamo, negoziamo le migliori condizioni contrattuali, ne seguiamo la corretta promozione e diffusione, riceviamo i rendiconti delle vendite e i pagamenti dei diritti, li proponiamo all’estero per le traduzioni e ai produttori per le trasposizioni audiovisive ecc. In pratica, l’agente è una specie di animale a quattro teste: un po’ editor, un po’ contabile, un po’ avvocato e un po’ psicologo.

Qual è stato il vostro percorso di formazione?

Michele:
Non esiste un’abilitazione o una scuola di specializzazione per diventare agente letterario, solo un’associazione di categoria – Adali – di cui sia Pastrengo sia Otago sono soci fondatori. Il percorso di ognuno di noi è quindi molto vario. Per quanto mi riguarda, è stato fondamentale l’ambiente dell’università statale di Milano, dove a vent’anni sono entrato in contatto con il mondo delle riviste indipendenti, all’epoca in particolare fermento, che, tra le altre cose, mi ha dato l’opportunità di conoscere molti coetanei con la mia stessa passione per i libri, molti di loro poi sono diventati scrittori, editor, direttori editoriali… Dopo la laurea in letterature comparate, ho svolto poi l’inevitabile gavetta, arrivando a occuparmi a trecentosessanta gradi dell’oggetto libro (dalle valutazioni degli inediti alla revisione delle traduzioni, dagli editing ai ghostwriting). Così, quando nel 2016 ho ritrovato Francesco Sparacino, che già conoscevo proprio grazie al giro delle riviste, anche lui in un momento di passaggio professionale, è stato naturale immaginare insieme qualcosa che riunisse questa mole di competenze eterogenee: Pastrengo Agenzia Letteraria è nata così.

Marco:
Il mio percorso di formazione non è d’esempio per chi vuole lavorare, oggi, in editoria. Ho trovato impiego in una casa editrice a ventitré anni, quando ero al terzo anno di università, e da lì non ho più smesso. Sto parlando dei primi anni Duemila, oggi è più difficile cominciare così presto e per entrare nel mondo dell’editoria occorre, generalmente, un percorso più consolidato. L’importante è mettere un piede dentro, il prima possibile, per capire come funzionano le cose e iniziare a farsi conoscere. Per esempio: se avete dei tirocini curriculari da svolgere durante l’università, fateli in case editrici o agenzie letterarie. Ci sono poi i master di editoria, che sono tanti ormai, a partire da quello dell’Università di Bologna fondato da Umberto Eco: ne trovate a Milano, a Roma, a Verona, a Pavia, a Firenze… Molte persone entrano attraverso il tirocinio post master e poi restano a lavorare nelle aziende del settore.

In un mercato sempre più affollato, la capacità di selezione è una delle risorse più preziose di un agente. Oltre a una voce originale e riconoscibile, è possibile che un’agenzia valuti anche il posizionamento di un autore, la sua presenza sui social, il suo status? Quali criteri guidano la vostra valutazione di un manoscritto o di una proposta editoriale?

Marco:
Quando si sceglie chi rappresentare, si fa un ragionamento ampio, olistico mi verrebbe da dire, non solo sul testo, ma anche su chi lo ha scritto, sulle tematiche affrontate, sulla capacità di assorbimento del mercato. Non dimentichiamoci che le agenzie letterarie non pubblicano libri direttamente, ma li propongono alle case editrici; sono quindi gli editori alla fine che scelgono cosa mettere nelle loro collane. L’agenzia perciò deve capire se un determinato testo può trovare una collocazione a partire da ciò che cercano gli editor. Il discorso può diventare molto esteso, ma, per fare un esempio “negativo”, a volte ci sono opere pregevoli che per qualche ragione faticano a trovare un posto nel mercato. Questo può dipendere da moltissimi fattori, ma alla base di tutto, alla base della scelta riguardo ciò che finisce nel catalogo degli editori, c’è la direzione programmatica della casa editrice, che non siamo certo noi a definire, per cui dobbiamo ragionare anche su questi elementi quando decidiamo chi e cosa rappresentare. È normale poi che una persona che ha già un suo bacino di “seguaci”, per così dire, che per via del suo lavoro, della sua credibilità professionale o artistica, della notorietà social o in altri contesti, possa essere interessante perché parte già da un potenziale nucleo di lettori intesi come gente che si fida di ciò che lui o lei dice. Al netto di tutte queste considerazioni, un testo e chi lo ha scritto ci devono convincere al 100%.

Michele:
Certo, ciascuno di questi elementi è materia di valutazione. Per un’opera letteraria è importante la voce, lo stile, l’immaginario; per un’opera di genere è importante il rapporto che instaura con il modello, l’originalità all’interno della tradizione. In qualsiasi caso, il percorso dell’autore viene valutato nella sua interezza: storico, profilo, presenza, centralità nel discorso culturale, autorevolezza, ecc. Bisogna poi tenere sempre presente che il primo obiettivo di un’agenzia è portare l’autore a una buona pubblicazione, dunque è necessario selezionare opere che possano rispondere alle ricerche degli editori, a volte anche a prescindere dai gusti personali. Da lettore, per esempio, apprezzo l’horror e la fantascienza, ma da professionista so che gli spazi per questi generi sono ristretti, dunque posso lavorarci sopra solo in casi particolari.

Un autore che sceglie di appoggiarsi a un’agenzia ha mediamente più possibilità di raggiungere la pubblicazione?

Marco:
Credo di sì, per il semplice fatto che noi siamo in contatto diretto e costante con gli editor delle case editrici italiane – dai grandi gruppi agli indipendenti –, pertanto abbiamo idea di quelle che sono le loro linee editoriali e di quello che stanno cercando. Se decidiamo di rappresentare un’autrice o un autore è perché pensiamo di riuscire nell’intento di trovare loro una buona sistemazione e di poter costruire con loro un bel percorso.

Michele:
Decisamente sì. E il contratto che si troverà a firmare con l’editore sarà migliore a livello economico e più tutelante a livello di diritti. È qualcosa a cui un esordiente in genere non pensa, ma conosco vari casi di autori senza agenzia che, presi dall’entusiasmo per il giusto desiderio di esordire, si sono trovati a firmare contratti fortemente limitanti di cui in seguito si sono pentiti.

Ci sono generi letterari o temi che sapete di riuscire a piazzare meglio di altri? Quanto questo influisce sulla vostra valutazione di un progetto?

Marco:
Sinceramente: non abbiamo generi letterari o temi che crediamo di riuscire a piazzare meglio. Il nostro ragionamento è su tutti i temi e tutti i generi letterari, a seconda di cosa funziona meglio in un determinato periodo, di cosa stanno pubblicando gli editori e quindi cosa loro cercano, di cosa reputiamo possa andare in futuro sulla base della nostra esperienza e dell’andamento del mercato editoriale. Magari io, per interesse personale, non leggerei mai un romanzo di un determinato genere, ma se ritengo abbia le caratteristiche giuste per poter trovare una collocazione e un mercato, potrei decidere di rappresentarlo. Poi, è chiaro che nel corso degli anni il nostro parco autori si è configurato in un certo modo, a seconda delle scelte che abbiamo fatto e di ciò che abbiamo ritenuto più interessante e più nelle nostre corde (quello cioè che abbiamo creduto di essere in grado di “maneggiare” nel migliore dei modi). Se si guarda la nostra lista, abbiamo sicuramente una maggioranza di opere che si potrebbero definire “letterarie”, e quindi potremmo dire che ci sentiamo più a nostro agio con una narrativa di questo tipo. Ma se dovessimo trovare un buon romanzo commerciale o un buon thriller o un buon romance, e lo riconosciamo come tale (cioè come un buon romanzo di genere che può trovare una dignitosa collocazione editoriale), potremmo tranquillamente decidere di rappresentarlo.

Michele:
Come dicevo, per svolgere bene il nostro lavoro dobbiamo sempre partire dalle ricerche degli editori e dai trend di mercato. In questo momento, il romanzo storico-famigliare è molto ricercato, mentre il memoir, che negli ultimi anni è stato sulla cresta dell’onda, sta iniziando un po’ a scemare. Il crime, nelle sue varie declinazioni, gode sempre di buona attenzione. Ma c’è spazio anche per i letterari, ovviamente, soprattutto se sorretti da una tematica forte e originale. Sono tutte considerazioni che teniamo presente quando leggiamo, ma ciò non toglie che, alla fine, parla sempre l’opera – che deve essere buona, o meglio, ottima.

Sterling Lord diceva che “La narrativa di genere paga le bollette, ma è la narrativa letteraria a costruire la reputazione”. Oggi è più difficile piazzare un’opera letteraria che costruisce la reputazione o un’opera commerciale con probabili margini di vendita?

Michele:
Dipende dalla tipologia di editore a cui ci si rivolge e dal percorso autoriale pregresso. Se si scrive narrativa di genere, per esempio, non è semplicissimo risollevarsi dopo una o due opere con vendite particolarmente basse; se si scrive narrativa letteraria, a volte (non sempre) può essere sufficiente la reputazione dell’autore e la bontà dell’opera stessa.

Marco:
Penso sia più difficile piazzare un’opera letteraria se parliamo di grande editoria. I piccoli editori sono spesso più audaci. Nel senso che i margini per pubblicare narrativa letteraria sono sempre più stretti, gli editori più grandi hanno bisogno di fare cassetto per tenere in piedi la struttura – specie se si hanno dei budget da dover raggiungere e superare ogni anno –, quindi sono sempre alla ricerca di storie capaci di conquistare un ampio numero di lettori, le quali, per forza di cose, non sono di scrittura particolarmente “alta”.
Ci sarebbe da fare un discorso un po’ più articolato, soprattutto di fronte al costante lamentarsi delle vendite in calo. Io credo potrebbe essere una politica più efficace il lavorare per costruire dei lettori, piuttosto che spingere solo libri che vendono duecentomila copie ma che non generano un pubblico davvero fidelizzato e di lunga durata. Non si creano lettori con libri inconsistenti, dallo stile piatto, che non hanno una vera voce… Si possono creare dei “casi” di tanto in tanto, ok, ma nel frattempo la ricerca costante e forsennata di un nuovo “caso” porta a riempire le librerie di libri di cui avremmo fatto volentieri a meno, che non ripetono il successo dei casi precedenti e che fanno male all’intera filiera, perché, per l’appunto, non fanno nascere nuovi lettori ma anzi li disorientano, intasano la catena distributiva e tolgono spazio in libreria. Come dicevo, è un discorso complesso e andrebbe affrontato seriamente e al più presto con tutti i principali attori del settore.

Qual è, secondo voi, il valore aggiunto che un agente apporta oggi alla carriera di uno scrittore?

Michele:
Credo sia una domanda da rivolgere agli scrittori. In generale, mi sembra che anche in questa intervista stiano uscendo buone suggestioni.

Marco:
Mettere la propria esperienza e la propria professionalità a disposizione dello scrittore o della scrittrice, lasciando a loro la sola incombenza di scrivere. Non per forza chi scrive deve intendersi anche di contratti, di rendiconti, di editing, di promozione ecc. E bisogna capire, e far capire loro, quali scelte è meglio compiere per il bene della propria carriera letteraria. Il nostro interesse è lo stesso delle persone che rappresentiamo: trovare un buon editore, che sappia valorizzare il libro e il suo autore. Abbiamo entrambi lo stesso obiettivo, quindi bisogna fidarsi degli agenti. Se manca la fiducia reciproca, manca il fondamento su cui poggia il nostro rapporto.

Tra autori ci si scambia consigli, raccomandazioni, si cerca di portare ai colleghi le proprie esperienze. Una cosa che mi accade spesso di sentire è che il primo anno di rappresentanza funziona, ma dopo la pubblicazione la relazione autore-agente scema fino all’esaurimento. La sensazione è che ci si concentri più sull’opera e la sua valorizzazione che sulla costruzione della carriera di un autore. Cosa accade dopo la pubblicazione?

Marco:
Be’, un po’ è normale che ci sia un minimo allentamento nei rapporti. Mi spiego meglio: noi non siamo gli uffici stampa dei nostri clienti, siamo i loro agenti. Quando il libro entra nel catalogo di una casa editrice, è la casa editrice che lo promuove e lo diffonde attraverso i propri uffici: stampa, marketing, commerciale. Noi possiamo interfacciarci, insieme all’autrice e all’autore – e in genere lo facciamo – con i referenti delle case editrici e concordare la strategia di promozione, ma poi, nel concreto, la palla passa a loro. Ciò non significa che il nostro ruolo cessa e ci dimentichiamo di quel libro. Siamo sempre a disposizione degli autori per qualsiasi evenienza, pronti a intervenire se qualcosa nel meccanismo di promozione si dovesse inceppare… E poi ci occupiamo anche della vendita all’estero, verso produttori cinetelevisivi ecc. Per cui il nostro lavoro prosegue pure dopo la pubblicazione. Bisogna anche capire, ovviamente, che non si può stare costantemente in contatto per ogni cosa, se passassi le giornate al telefono non riuscirei a fare altro. Una distensione negli scambi, se il libro è uscito e sta facendo la sua strada, è fisiologica. Così come accade se l’autore o l’autrice non ha nulla di nuovo da proporci, è chiaro che ne “approfittiamo” per dedicarci alle altre cose da fare, ma siamo sempre a disposizione nel momento in cui dovesse tornare utile un confronto con noi o ci fosse un nuovo testo su cui lavorare.
Per dirla con una battuta, bisogna sempre ricordarsi che una scrittrice o uno scrittore ha un solo agente ma un agente ha tante scrittrici e scrittori.

Michele:
Ogni agenzia è diversa, noi di Pastrengo cerchiamo di puntare molto su un percorso autoriale che vada al di là della singola opera. Poi non sempre è possibile: quello tra autore e agente è prima di tutto un rapporto e, come tutti i rapporti, a volte funziona bene, altre volte meno; spesso è un discorso di chimica, di alchimia. Dopo la pubblicazione non accade niente di diverso rispetto a ciò che è accaduto prima: ci confrontiamo con l’autore su come stanno andando le cose, interveniamo con l’editore nel caso ci siano dei problemi, ci occupiamo delle pendenze da saldare, lavoriamo sui mercati esteri e sul mercato cine-tv, richiediamo e controlliamo le rendicontazioni. E quando l’autore comincia a scrivere una nuova opera… si riparte da capo.

L’agente è un mediatore, ma per essere un buon professionista deve avere anche doti strategiche: spesso deve “vendere” lo stesso autore a editori diversi, mantenendo intatti i rapporti personali e professionali. Come si costruisce e si mantiene nel tempo un buon rapporto con una casa editrice?

Michele:
Credo sia fondamentale la credibilità. È qualcosa che si costruisce nel tempo, per esempio cercando di proporre opere sempre potenzialmente adatte all’editore in questione, evitando “invii a pioggia” e facendo proposte il più possibile calibrate sulla sua ricerca.
Questo ovviamente non significa che vadano sempre a buon fine, ma non ha senso inviare un romanzo sperimentale a Garzanti, così come non ha senso inviare uno storico famigliare a Fandango, e non fa piacere a nessun professionista perdere tempo. Per come interpretiamo noi questo lavoro, poi, è molto importante la correttezza. Capita che ci siano più editori in lizza per la stessa opera (anzi, è uno dei momenti più stimolanti): in questi casi è necessario essere chiari, trasparenti e, appunto, corretti.

Marco:
Non è che “vendiamo” lo stesso titolo a editori diversi, lo proponiamo, che è differente. Secondo me è anche giusto confrontarsi con più editor per lo stesso scritto: ci si chiariscono meglio le idee sulla ricezione che gli addetti ai lavori hanno di quel testo, si può capire quale editore è davvero interessato a quell’opera, quali carte si mettono sul piatto.
Come dicevo prima, i ragionamenti da fare sono sempre tanti e per farli occorre avere una visione ampia di quelle che sono le possibilità di quel libro. I rapporti si mantengono nel tempo perché fra agente ed editor c’è un rapporto continuo, fatto di e-mail, di telefonate, di incontri alle fiere o in sede. E, soprattutto, si costruisce con la fiducia: a nessuno piace perdere tempo e di tempo, chi lavora in editoria, ne ha sempre poco, per cui meglio decidere di inviare il testo a quegli editori che si ritiene siano davvero in linea con il tipo di opera che gli si va a proporre, invece che fare invii a tappeto e affaticare gli editor con troppe proposte inadatte.

Vi è mai capitato di rifiutare un testo eccellente solo perché “non vendibile”? Cosa dice questo sulla funzione culturale dell’agente letterario?

Michele:
È capitato, ma non è la prassi. È capitato più spesso che ci innamorassimo perdutamente di testi difficilmente vendibili e che lavorassimo per molti mesi su opere che poi ci hanno garantito introiti ridottissimi. Dobbiamo, però, sempre tenere presente che questo è il nostro lavoro, non un hobby: è necessario bilanciare necessità economiche, ruolo culturale, gusti personali, richieste del mercato. Non nego che a volte è difficile arrivare a una sintesi soddisfacente tra queste spinte contrapposte.

Marco:
Mah, dipende. Se un testo ci colpisce ed è davvero un gran romanzo, noi lo prendiamo. Poi, certo, se è troppo “difficile” per la grande editoria, ci rivolgiamo agli indipendenti. Ma il nostro “fiuto” sta lì: io penso che se un’opera è davvero meritevole, se ha una certa originalità e una voce riconoscibile, una pubblicazione arriva, anche fosse con editori più piccoli. Ma poi, specialmente al primo libro, siamo davvero sicuri che uscire con un grande editore sia la scelta più giusta?

Come gestite i conflitti di interesse? Ad esempio, se rappresentate più autori che scrivono lo stesso genere o in competizione per lo stesso editore?

Marco:
Non credo sia un conflitto d’interesse rappresentare più autori che operano nello stesso genere letterario. Le case editrici sono tante, se il romanzo è buono una pubblicazione la trova. Poi non è che tutti scrivono nello stesso momento, può capitare un periodo in cui hai più testi da proporre e uno in cui ne hai meno.

Michele:
Non parlerei di conflitti di interesse. Ogni agenzia è sempre, o molto spesso, in ballo con lo stesso editore con più di un testo. Se poi diventano in competizione tra loro, resta una questione interna dell’editore, noi cerchiamo di lavorare al massimo delle nostre possibilità su qualsiasi romanzo. Allo stesso modo, è normale che in agenzia ci siano autori che si occupino dello stesso genere, che pubblichino con lo stesso editore o che escano a strettissimo giro l’uno dall’altro (a volte capitano anche tutti e tre i casi insieme). Il nostro è un lavoro per molti versi “artigianale”, in cui contano i rapporti personali e le sensibilità individuali. Se ci sono problemi o potrebbero essercene, è bene confrontarsi e parlarne: di nuovo, trasparenza e correttezza.

Denise Young diceva che l’agente “non è solo un negoziatore, ma custode della voce dell’autore”. Eppure oggi appare, per alcuni, come un guardiano della soglia: il primo, e forse il più difficile, ostacolo da superare. In un sistema editoriale sempre più chiuso e concentrato, l’agente è davvero un alleato dello scrittore, o un ulteriore filtro d’accesso?

Marco:
Lo dicevo prima: l’agente è sicuramente il più grande alleato della scrittrice e dello scrittore, perché alla base del loro rapporto c’è la fiducia. È chiaro, però, che non possiamo permetterci, come agenzia, di accogliere troppe autrici e autori perché non riusciremmo a gestirli, quindi dobbiamo dosare attentamente il numero di nuovi clienti da far entrare in scuderia, perché se prenderne di più vuol dire gestirli male, allora questo non fa bene né agli autori né all’agenzia. Aggiungo anche che – cosa più difficile spesso da far capire – non è detto che tutti i testi siano per così dire “da libreria”, adatti cioè a una diffusione e a un pubblico più estesi. Ci sono libri molto belli che, per varie ragioni, hanno un pubblico più limitato e sono quindi considerati “di nicchia”. In questo caso, spesso sono le case editrici più piccole, a volte anche micro, che possono permettersi di affrontarne la pubblicazione. E proporsi a una casa editrice molto piccola a volte è una strada più facile da percorrere da soli che con un agente, perché gli editori sono più disposti ad avere un rapporto diretto e personale con gli autori, mentre l’interlocuzione di un’agenzia può spaventare e può far temere che vi siano richieste troppo esose (ma qua, care case editrici, debbo rassicurarvi: se vi proponiamo un testo, sappiamo bene a chi lo stiamo mandando e non è nel nostro interesse perdere tempo e farvelo perdere facendo proposte a caso, quindi state tranquille che non andremo a chiedervi anticipi stellari ma cercheremo sicuramente di venire incontro alle vostre possibilità).

Michele:
Su questo punto mi sembra esserci un po’ di confusione. L’agente è alleato e può essere “custode della voce” degli autori che rappresenta; non di qualsiasi autore o aspirante tale. Per quanto riguarda gli esordienti, cerchiamo di fare sempre scouting e di trovare nuove voci che ci facciano innamorare. Costituire un filtro d’accesso alto in questa ricerca, in queste valutazioni, secondo me, è ciò che ogni agente dovrebbe fare, in modo da impegnarsi su opere su cui crede davvero, non perdere credibilità con gli editori, e di conseguenza fare un buon lavoro con gli autori rappresentati.

Un autore che medita se appoggiarsi a un’agenzia pensa che, una volta rappresentato, potrebbe avere meno libertà di manovra. Uno dei timori è che l’agente costruisca una bolla attorno all’autore, che consigli strategie in grado di plasmare la personalità dell’autore. Che rapporto avete con la promozione e il posizionamento di un autore? Vi occupate anche dell’immagine pubblica dello scrittore o delegate all’ufficio stampa?

Michele:
Credo che girino tante leggende infondate su ciò che fa un’agenzia. Salvo rari casi, l’agente non si occupa dell’immagine globale dell’autore; tutt’al più dà suggerimenti e consigli nel quadro di un percorso autoriale condiviso. Poi, certo, esistono sempre le eccezioni, e ogni agenzia ha il suo stile. Nella realtà, comunque, credo proprio che esistano più autori che, a torto o ragione, si lamentano di essere poco considerati dall’agente rispetto a quanti si lamentano di avere poca libertà di manovra a causa sua.

Marco:
Non credo sia nell’interesse di nessuno plasmare personalità. Se una personalità funziona, è perché sa conquistare il pubblico per quello che è. Vendere una cosa per quello che non è, secondo me è sempre un errore. Soprattutto, è una tecnica che non porta molto lontano: si può fare una quarta più accattivante, una copertina più d’impatto, ma se dentro c’è un prodotto completamente diverso da quella che è la sua confezione, questo non farà del bene alla diffusione del libro, perché la maggior parte delle persone che lo acquisteranno si aspetteranno di trovarci altro. Anche qua, come per il discorso di prima: non si creeranno lettori fidelizzati, non si innescherà un passaparola… E allora a che sarà servito vendere qualche copia in più all’inizio se poi il libro non parte perché non ha trovato il suo pubblico?

Oggi circola questa provocazione a mezza bocca: le scuole di scrittura dominano il mercato e decidono chi deve essere pubblicato. Che rapporti avete con le scuole di scrittura? Quanto influenzano il mercato?

Michele:
Le scuole di scrittura sono uno dei molti modi attraverso cui facciamo scouting. Partecipiamo ogni anno ai pitch della Scuola Holden a Torino, di Belleville a Milano, della Lineascritta a Napoli, e altri ancora. Un romanzo che arriva da una scuola di scrittura importante come quelle che ho citato, dove lavorano ottimi professionisti, è in genere di un livello medio buono o molto buono, dunque cerchiamo di guardarlo con attenzione – tutto qui.

Marco:
Le cosiddette scuole di scrittura, più che insegnare la scrittura, dovrebbero insegnare come maneggiare la materia e gli strumenti a disposizione (come si fa con la pittura o con la musica), e a far conoscere le dinamiche di questo mondo in cui ci si va ad affacciarsi. Se riescono in questo, allora hanno avuto senso per il partecipante. Noi, in linea di massima, abbiamo un buon rapporto con tutte le principali scuole di scrittura, che spesso ci invitano alle giornate in cui i loro allievi presentano i lavori attraverso i pitch. Non credo però che dominino il mercato. Se esce qualcosa di buono dalle scuole è perché chi ha insegnato ha saputo cogliere il buono e aiutare chi scrive a farlo uscire. Ma alla base ci deve essere qualcosa di buono. Se non c’è, non c’è scuola di scrittura che possa farti diventare Philip Roth.

Diretti verso la conclusione, come a tutti gli ospiti chiederei quali siano, secondo voi, gli aspetti critici dell’editoria italiana di oggi che meritano di essere messi in discussione e affrontati?

Marco:
Da questa domanda potremmo non venirne più fuori. Credo di aver detto diverse cose nell’arco dell’intervista, attraverso le varie risposte. Sicuramente oggi c’è un problema di sovrapproduzione e di monopolio distributivo. E c’è anche un problema di fondo nella ricerca di testi che devono essere più “bassi” possibile per (credere di) poter raggiungere il più vasto pubblico possibile, e questo è legato alla sovrapproduzione perché si cerca continuamente l’esordiente da centinaia di migliaia di copie e si cercano cloni di qualcosa che precedentemente ha funzionato. Questo per me è sbagliato e se non si ritorna a costruire autori e percorsi autoriali, anziché esordienti di successo one shot, l’editoria nostrana non avrà orizzonti rosei di fronte a sé.

Michele:
Questa è una domanda da cento milioni. Le criticità sono molte, purtroppo; se devo citarne due soltanto scelgo la distribuzione (che impone costi troppo alti e contribuisce a generare l’iperproduzione editoriale) e la concentrazione di tanti marchi in poche mani (sia a livello verticale, con editore, distributore e catena di librerie; sia a livello orizzontale, con diversi editori che fanno parte dello stesso gruppo), il che, com’è ovvio, non favorisce né la bibliodiversità né una sana concorrenza. Ma la realtà è che il problema principale sta a monte: in Italia si legge poco, drammaticamente poco, ed è da qui che nascono tutti i problemi.

Lasciamoci con delle diapositive: il vostro miglior ricordo e il vostro peggior ricordo legato al mondo editoriale.

Michele:
I ricordi più belli sono forse le prime volte (il primo manoscritto venduto, il primo libro tradotto, il primo rights center al Salone del Libro, la prima opzione cinematografica siglata…), anche perché in un lavoro come il nostro, per fortuna, non si smette mai di sperimentare prime volte. I momenti più brutti si verificano invece quando vedi un’opera in cui credi molto, su cui hai tanto lavorato, approdare in libreria e passare sottotraccia, sostanzialmente inosservata, schiacciata dall’iperproduzione di cui si parlava prima e da dinamiche che, spesso, poco hanno a che fare con il valore intrinseco: è frustrante.

Marco:
Il miglior ricordo in assoluto non saprei, ma ne ho diversi impressi nella memoria e che quando ci ripenso mi riempiono il cuore: quando, seduti al bar, ho detto a un autore che un tal editore voleva pubblicare il suo primo romanzo e lui si è messo le mani in faccia incredulo; quando mi ha telefonato un’autrice, di sera, per dirmi che aveva vinto un premio importante e io pensavo fosse uno scherzo; quando ho detto a un autore che sapevo essere finalista a un grande premio e lui mi ha risposto che glielo avevano detto, ma che non me lo aveva ancora comunicato perché si erano raccomandati di non dirlo a nessuno; quando due autori della nostra agenzia mi hanno mandato una foto di loro due che, non conoscendosi, si erano incontrati per caso nello stesso B&B; quando un autore mi ha detto “io non ti lascerò mai come agente” (e per ora è ancora così). Forse sono piccole cose, ma per me le cose più importanti sono quelle legate all’aspetto umano del mio lavoro, quello dei rapporti fra le persone. I peggiori ricordi allo stesso tempo sono tanti, purtroppo: in genere legati a persone poco rispettose del tuo lavoro e con ego spropositati. Ma io cerco di essere zen (anche se a volte restarci un po’ male è normale) e penso che tanto, prima o poi, c’è il karma che farà la sua parte.

L’agente letterario, mestiere svelato – Dialogo con Michele Turazzi e Marco Nardini è il settimo appuntamento di {dis}impegno letterario, una rubrica a cura di Simone Sciamè.


Michele Turazzi, laureato in Letterature comparate all’Università degli Studi di Milano, lavora da quindici anni in ambito editoriale. Cofondatore, insieme a Francesco Sparacino, di Pastrengo Agenzia Letteraria, dove si occupa di scouting, intermediazione editoriale e tutela dei diritti d’autore. È inoltre ghostwriter per alcuni tra i principali editori italiani. Ha pubblicato il romanzo Prima della rivolta (nottetempo, 2023, vincitore del Premio Demetra per la letteratura ambientale) e il reportage narrativo Milano di carta (Il Palindromo, 2018), oltre a racconti e articoli in varie riviste e antologie.


Marco Nardini è cresciuto sull’isola di La Maddalena fino al 2000, quando si è trasferito a Bologna. Fondatore dell’agenzia letteraria Otago, lavora da una ventina d’anni nel settore editoriale e culturale. Ha frequentato corsi di specializzazione in gestione delle imprese, comunicazione, marketing 2.0 ed eventi sostenibili. Si occupa di intermediazione editoriale, è curatore di diverse pubblicazioni di narrativa e saggistica e ha insegnato a corsi di alta formazione sui lavori dell’editoria. È presidente dell’associazione di promozione sociale “Il mondo secondo Garp” e ideatore del festival e del premio Garp Under 30. Da piccolo voleva fare lo scrittore. Ci è andato vicino.




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