Passeggiata al parco

di Simone Redaelli


Solo a me capita – quasi fossi preda d’un sogno lucido e persistente, ma dai bordi spioventi, baluginanti di magia – di fare spesso esperienza di talune anticipazioni della vita che, come in un accenno di presagio, sembrano già concorrere a definire ciò che saremo soliti chiamare (ma solo al fondo, ovvero al termine di tutto) destino?

Quel periodo, quello nel quale la domanda bolliva (e i contenuti si dilatavano, traslucidi), era un periodo che leggevo Breton e arrivavo, ripetutamente, agli occhi di Nadja: e come preconizzatomi da un saggio di Andrea Cortellessa, questa visione, degl’occhi, si fondeva poi, a ripetizione, col lugubre e metafisico ricordo del Nocturama di Austerlitz, nel quale un Sebald vagabondo e solingo specchiava l’umano nello sguardo vibratile dell’animale.

André Breton ~ W. G. Sebald

Ma all’epoca, quando non potevo fare a meno di assecondare queste percorrenze, cosa cercavo di dirmi?
Non lo so, ma oggi ripenso a tutto questo, a quel periodo, alle associazioni che non hanno mai smesso di battermi sul tempo e che, in un modo per me alquanto affabulatorio, continuano ad anticipare il mio cammino, disegnando un tragitto che diversamente non potrei, davvero non potrei mai attribuire alla mia esistenza: per quale motivo, altrimenti, un bagliore argenteo come questo, esattamente come questo, dovrebbe sfavillarmi, proprio ora, nella sclera, richiamando la mia attenzione sulla ringhiera del balcone?
È una colomba che plana e, proprio mentre spiana le ali e fa per artigliarsi al metallo, mia moglie (la vedo con il bordo della vista) s’abbandona sulla sdraio, nuda e umbratile, e in ogni senso simile a un drappo. Quasi fosse il tetto d’una grotta, è andata a ripararsi all’umida frescura dell’ombrellone.
Prima di conoscere mia moglie, di certo fra il 1993 e il 1995, risiedevo a Milano e mi recavo sovente ai Giardini Pubblici di Porta Venezia nei quali, specialmente in primavera, passeggiavo senza aspettative e con la sola smania di fotografare. E non è per nulla strano ripensarci proprio ora, mentre la colomba artiglia il metallo occhieggiando mia moglie riversa e placida, che non si accorge di niente, non è per nulla strano perché in fondo, all’epoca, nutrivo una vera predilezione per le gabbie.

Per chi non lo sapesse, il giardino zoologico di Milano, dismesso nel 1991, aveva ospitato addirittura un elefante.
Ecco, infatti, un episodio emblematico: Bombay, l’elefantessa addestrata e diligente, davanti a un pubblico di adulti e bambini, suona l’organetto. Tuttavia, per farlo, per poter leggere lo spartito, per poter riconoscere le note scritte su carta, ha bisogno d’un paio d’occhiali enormi i quali, manco a dirlo, le vengono posizionati proprio sul naso, sulla lunga proboscide. E quando il pubblico applaude, rigorosamente muto, lei prende le monetine dalle mani degli adulti, rigorosamente in lire, e le arachidi dalle manine dei bimbi, palesemente divertiti.
E come non ripensare, poi, al gran chiasso che facevano le foche nell’acqua chiara della vasca liberty piastrellata d’azzurro?

Tuttavia, questo contaminarsi dell’umano con l’animale raggiungeva l’apice della contraddizione solo davanti alla gabbia del leone: a fronte d’un felino famelico, selvaggio e a tutti gli effetti pericoloso, il cartello La passione ed il rispetto degli animali sono indice di civiltà e buona educazione inneggiava a una sorta di dettame etico che, seppur all’epoca mi risuonasse alquanto ipocrita, nondimeno aveva il pregio, per motivi a me inaccessibili, di ispirarmi un superficiale e a tutti gli effetti accettabile sentimento di buon costume.

Ma torniamo al 1993, al 1994 o al 1995, e rechiamoci in fondo al parco, dentro le montagnette, dove ci sono le grotte e non più gli animali. Mi sono sempre chiesto perché, nonostante gli orsi li avessero ormai portati via, nonostante quei luoghi avessero perso valenza di dimora, le grotte continuassero a essere recintate e dunque, irragionevolmente, inaccessibili al pubblico. Quel mistero mi costringeva a fotografare in un modo che, sebbene mi impedisse di progredire in una direzione di senso, nondimeno mi aiutava a trovare consolazione in un’immagine di malinconia: cos’è una teca – pensavo – se non il riverbero fantasmatico di un bel, bellissimo ricordo d’infanzia?

Ma ecco un giorno qualcosa si immette nell’obiettivo. Mentre adesso, sul balcone, guardo mia moglie che d’un tratto s’accorge della colomba che la guarda, mentre all’epoca divaricavo le palpebre e inserivo le pupille nel mirino, per mettere a fuoco, lei era già nella grotta.
Non potrei dirlo altrimenti: mia moglie, che ora è qui davanti a me sotto l’ombrellone, era già nella grotta, evidentemente, nella grotta sbarrata da una recinzione metallica imbrunita dal tempo, ostile al contatto, definitoria, e con il filtro della macchina fotografica mi si era rivelata proprio come ora mi si rivela questa colomba che guarda mia moglie che contraccambia, cioè come se l’avessi conosciuta da sempre e, per l’infrangersi accidentale d’un incantesimo della psiche, mi fosse tornata così, d’un tratto, alla mente, e con lei fosse tornata la memoria d’una vita assieme che non avevamo ancora vissuto.

Un coup de foudre, dice mia moglie all’improvviso con voce metallica da uccello.
Lo gracchia e lo ripete, Un coup de foudre.

Un tempo, tesoro, un tempo, ma adesso non più, rispondo io.

L’amor svelato, l’amor svelato, l’amor svelato, dice ora la colomba.

L’amore ci ha preceduto, tesoro, ci ha battuti sul tempo, lo sai, ne abbiamo già parlato, e adesso se n’è andato, se n’è proprio andato, è volato via, aggiungo ancora io.

Questo pomeriggio, prima di rientrare a casa e uscire sul balcone, sono tornato ai Giardini Pubblici. Il marionettista ha lo stesso viso di quando ero bambino e mi saluta e chiede a mia figlia, che tengo per mano, se ci siamo mai visti da queste parti perché i bambini son tutti diversi ma gli adulti son tutti uguali.

Il marionettista, ovvero il cantastorie dei giardini, Luciano Dosi, era un artista di strada. È morto nel 2013. E mentre lo fotografo, mentre mia figlia lascia la mia mano e sgambetta verso il cestino delle offerte, e ride, ripenso al fatto che Luciano Dosi era figlio d’un musicista, di uno strimpellatore per il cinema muto, e che al contrario di suo padre era stato un funambolo, e chissà, penso io, cosa sarebbe successo se quell’incidente, quel giorno, non lo avesse costretto ad abbandonare il circo, chissà se, sottraendo le pupille al mirino, io lo vedrei ancora, adesso, mentre mia figlia lascia cadere la monetina, mentre Luciano Dosi le sorride.
Ma questo pomeriggio, prima di rientrare a casa e uscire sul balcone e trovare mia moglie, Luciano è ancora vivo, e mentre io ero piccolo e m’avvicinavo e gl’allungavo qualche monetina, allo stesso tempo angosciato e incantato da quella sua voce che canticchiava Passeggiando per Milano, camminando piano piano, quante cose puoi vedere, quante cose puoi sapere, e mentre oggi lo guardo, anziano, muovere queste marionette, questi elefanti, questi leoni, queste scimmiette, e in me dell’angoscia e dell’incanto non vi è più traccia, lui, il marionettista, mi guarda e vede in me la malinconia del futuro, e pensa che a breve andrò oltre le montagnette, dove c’è la grotta dell’orso, e scatterò qualche fotografia perché dal mio collo, ad altezza petto, dove ora lui sta guardando, pende una macchina fotografica.

Mi fai una foto?, chiede mia moglie. Come ai vecchi tempi, dai!

Distolgo lo sguardo dalla colomba: lei, mia moglie, è nuda e arresa, sotto l’ombrellone, mentre il sole vira e la rischiara.

Ed io, d’un tratto, temo. Temo che se rientrassi in casa, proprio ora, se andassi in ingresso dove, non più di qualche minuto fa, proprio sul tavolino, ho lasciato la macchina fotografica, e se infine, tornando sul bancone la cercassi dietro il mirino, se insomma assecondassi le sue parole, ho davvero paura che non la troverei più.

La colomba è volata via, e oggi che siamo nel 2024, ripenso a tutto questo con non meno lucidità. Ai Giardini Pubblici, in compenso, non restano che cartelli.

Mi sono interrogato a lungo su cosa costituisca la mia memoria, ho provato perfino a informarmi su Google per capire cosa sia sopravvissuto del giardino zoologico.

Del Paleolab non si sa nulla, se non di divieti. Chi si sporge oltre le inferriate, può intravvedere delle postazioni da cercatore di dinosauri a misura di bambino.

Con il Biolab invece sono stato decisamente più fortunato. Un paio di siti riportano quanto segue:

La stazione di monitoraggio qualità dell’aria del Biolab è posizionata in via Manin, all’interno dei Giardini Pubblici “Indro Montanelli” (Bastioni di Porta Venezia). La strumentazione analitica rileva i seguenti parametri: particolato atmosferico; monossido e biossido di azoto.

E allora, sono salito sulle montagnette per vedere meglio le due stalle verdi dei pony, che trainando una carrozza ti fanno fare il giro del parco. Ma di quelle stalle, nessuna traccia.

Al loro posto, ho trovato delle rimesse in lamiera. E sulla porta di una delle due, con tanto di simbolo del teschio, ho letto:

Attenzione cavi elettrici

Fotografie di Simone Redaelli

***

Passeggiata al parco è apparso in anteprima il 3 marzo 2025 su L’Appeso Numero 6.


© Didì Gallese, Di Luna e Malinconie, 2025.

Simone Redaelli è un biologo molecolare con un dottorato di ricerca in medicina rigenerativa. Lavora a Milano come Medical Writing Manager nel settore della comunicazione scientifica e come ricercatore in Bioetica all’Università di Zurigo. Nel 2018 fonda Culturico, una piattaforma online che si propone di combattere la disinformazione e la misinformazione scientifica e culturale. Appassionato di lettura e di scrittura creativa, nel 2022 inizia a frequentare i corsi di Raul Montanari. Suoi racconti sono apparsi su «Rivista Blam», «Argonline», «Nazione Indiana», «L’Appeso».


Diana Daniela Gallese (Didì), illustratrice editoriale e artista poliedrica, è diplomata in grafica e illustrazione presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Amante del potere esoterico del nero, delle tenebre, e delle storie orrorifiche, esordisce in editoria con l’albo illustrato La Leggenda di Sleepy Hollow (Officina Milena, 2019). Le sue illustrazioni accompagnano testi editi da Officina Milena, ABEditore, Pidgin, Empireo Editora; collabora inoltre con riviste editoriali nazionali e internazionali tra cui «Tit’s n’ Tales», «9righe», «IMON», «La Nuova Carne», «Bomarscé», «L’Appeso». Conduce una ricerca sulle emozioni studiando Arte per la Terapia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Il suo linguaggio fluisce e si lega a quello di musicisti, scrittori e artisti; la fascinazione per il legame suono/segno e la relativa ricerca emergono nel volume illustrato Nemusico, L’Incanto essenziale di Alberto Nemo (Arcana Edizioni, 2021), dunque continua e sfocia nel progetto Klang-Farbe, duo musical-pittorico con il Maestro Roberto Bisegna. Collabora con la Casa delle Donne di Avezzano (AQ) ed è parte del collettivo di artisti CRUSH di Roma, per cui realizza eventi e laboratori artistico-creativi.



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