Facevamo un mondo

di Caterina Villa

Entriamo in ascensore, prima tu e poi io. Anche da bambine salivamo le scale così, tu avanti con le trecce che rimbalzavano a ogni gradino, io dietro col caschetto. Arrivavamo qui con l’autobus, il numero quattro. Le nostre madri ce lo avevano ripetuto allo sfinimento, ma era facile ricordarlo. Quattro come le nostre mani sommate, i nostri piedi, le nostre orecchie e i nostri occhi. Insieme facevamo un mondo.

Adesso, però, i nostri corpi non si sommano più. Ti guardo, sei magrissima; tutto di te è più sottile, tranne le labbra, che sono gonfie come se qualcuno te le avesse succhiate. Mi viene il dubbio che siano rifatte, ma lo tengo per me. Tiro su col naso il tuo odore di fragola.
Ti indichi le sopracciglia e mi chiedi: «Ti piacciono?»
Non so che dire, allora mi prendi la mano e guidi il mio indice lungo il tuo sopracciglio sinistro. La pelle è liscia.
«Ma come è possibile» bisbiglio.
«Tatuaggio, sono permanenti» rispondi, proprio mentre l’ascensore singhiozza e si ferma.
La porta è quella con lo zerbino arrotolato accanto. Rovisti nella tua borsa molto piccola e molto rosa e tiri fuori la chiave. Non la infili nella serratura, rimani a guardarla; le spalle curve in avanti accentuano l’angolo duro delle tue scapole.

Da bambine e poi da adolescenti, nonna ci aspettava sul pianerottolo. Immobili una accanto all’altra attendevamo che lei finisse di ispezionarci, dalla punta dei piedi a quella dei capelli. Ci faceva lasciare le scarpe fuori e io stavo sempre attenta che fossero bene allineate; mi piaceva raddrizzare anche le tue, sentire con il dito il calore residuo dei tuoi piedi che erano sempre caldissimi. Non ci diceva subito se era giorno di lezione o meno. Era un segreto che custodiva fino a dopo pranzo, come le caramelle Rossana che nascondeva in una scatolina di porcellana azzurra. Erano solo per lei, che io ricordi non ce ne ha mai offerta una.

Ti decidi e apri la porta. Nell’appartamento c’è lo stesso odore di allora, un impasto di cera per mobili e fumo di sigaretta. La luce che entra dalla tromba delle scale stampa le nostre ombre sulla graniglia dell’ingresso; la tua è stretta e lunga, la mia corta e come più densa. Accendo la luce e spariscono entrambe. Tu non parli, non mi guardi; ti seguo lungo il corridoio e annaspo perché sento ancora la grana della tua pelle sulla punta dell’indice.
Stai per entrare in cucina quando la musica esplode tutto intorno. Per poco non urlo, poi realizzo che è il tuo cellulare. È una canzone che non conosco; è sgraziata ed esagerata, non è la musica che ascoltavamo da ragazzine. Vorrei domandarti chi te l’ha fatta scoprire, ma la domanda mi si avvita sulla lingua e non esce. Entri in cucina e continui a non rispondere fino a che il telefono si ammutolisce. Dopo qualche secondo, riprende. Mi guardi allora e affondi i denti nelle tue labbra troppo gonfie.
«Non rispondi?» chiedo io, ma tu scuoti la testa.
«Sarà la mamma» rispondi mentre la canzone si abbatte sul tavolo, sulla televisione spenta, sui libri di ricette che di sicuro nonna non ha mai sfogliato.

Eravamo a pranzo da lei tutti i giorni tranne la domenica. Non ci ha mai preparato la pasta, i cannelloni, la mozzarella in carrozza, solo verdure e proteine. Ci sedevamo a questo tavolo, i nostri quattro piedi che non toccavano terra e le nostre quattro mani che affondavano coltello e forchetta nei broccoli al vapore o nei finocchi bolliti. Nonna ci osservava, il suo piatto sempre vuoto.
«Non bevete tutta quell’acqua ché la pancia vi diventa una piscina» sentenziava e sotto il tavolo il tuo piede cercava il mio. Dovevamo finire tutto, altrimenti non ci alzavamo da tavola. Poi era il momento dei compiti in salotto, io da un lato del tavolo di legno scuro e tu dall’altro, il fumo delle sigarette di nonna sopra le nostre teste, il cammello arancione sul pacchetto blu perennemente accartocciato.
Le lezioni, invece, non avevano un calendario fisso; magari era qualcosa nel nostro modo di mangiare, di parlare, che le comunicava l’urgenza di correre ai ripari. Allora ci faceva chiudere i quaderni e ci ordinava di stare in piedi davanti al divano, schiena dritta, piedi ben allineati. Iniziava spesso con una domanda a trabocchetto.
Per esempio, chiedeva: “se una vostra compagna di classe vi domanda cosa vi ha preparato la mamma per cena cosa rispondete?”
Io sapevo benissimo cosa avrei dovuto dire, ma non ci stavo. Gonfiavo le guance e in un fiato rispondevo:
“Nonavevavogliadicucinareemihadatoprosciuttocottoeinsalatainbusta”.
Allora la nonna si alzava in piedi, tirava su quel suo indice tremendo macchiato di nicotina.
“No” diceva, “no e no e no”. Chiedeva a te di farmi vedere come si faceva.
Tu scandivi: “la mia mamma ha preparato un’ottima crema di zucca, è salutare e buona”.
Finivi col sorriso che scopriva i tuoi incisivi un poco storti. La nonna non li sopportava e passava soldi a zia perché potesse metterti l’apparecchio. Ma come le piaceva il modo in cui mentivi con eleganza, con una facilità in cui si rispecchiava.

Mi accorgo adesso, troppo tardi, che non è stato l’unico modo in cui ti ha plasmato.
Ogni Natale impacchettava la stessa trappola. Noi sedevamo sul tappeto, il suo sguardo e il suo fumo che ci cadevano addosso dall’alto. Ero io a scartare per prima, il mio ginocchio che sfiorava il tuo mentre affondavi le dita nella carta, sentivo il tuo respiro accelerare, un amo che mi scendeva in petto e tirava. Nonna prediligeva i leggings perché servivano meglio al suo scopo. Ce ne ha regalati di tutti i colori e di tutte le fogge, con una sola costante: la taglia, identica per entrambe. XS, due letterine implacabili che ci fissavano dalle etichette.
“Tanto vi entrano no?” chiedeva tutta sorridente.
Tenevi lo sguardo basso, il pacchetto ancora chiuso. Io rispondevo che no, non ci entravano.
“Peccato, se foste magre…” ribatteva la nonna. Le nostre madri, le sue figlie, strizzate nei loro vestiti da festa, non dicevano niente, bevevano vino dolce senza fare rumore.

Ti seguo nella camera da letto. Il tuo telefono riprende a suonare e ancora una volta lo ignori. Apri l’armadio. Vedere i vestiti di nonna vuoti, senza la sostanza delle sue gambette e della sua cattiveria a riempirli, mi lascia smarrita. Il telefono si zittisce. Ora sei magra come era lei. Il tuo corpo mi dà l’idea di un frutto scavato col cucchiaino. Sei tutta buccia mentre ti rigiri tra le mani gli abiti, le gonne, i pantaloni e poi li lasci cadere a terra, uno dopo l’altro.
«Sono troppo grassa per questi» bisbigli, la voce che ti si arriccia agli angoli.
«Ma cosa dici, sei matta?» dico io e tu mi guardi con due occhi fondi, le dita che stringono la gruccia. Apri la bocca, ma la suoneria esplode e frammenta quello che stai per dire.
«Ma chi è» domando. So che la voce mi è uscita tutta strizzata perché sento che sei da un’altra parte, oltre una parete invisibile che non so infrangere.
«Nessuno» rispondi. Sorridi con i tuoi denti raddrizzati da anni di apparecchio.

Penso a come dicevi “mamma mi ha preparato un’ottima cenetta”, le mani incrociate dietro la schiena e i piedi bollenti affondati nel tappeto. Ti volti e cominci a sfilarti la maglietta, il mio sguardo si impiglia sulle tue vertebre. Appena sotto il reggiseno le tue costole sono come i tasti di uno xilofono. Ti togli anche i pantaloni. Il vestito rosso di nonna ti scivola addosso; come avevo immaginato ti sta perfettamente. Ti guardi allo specchio e inclini la testa di lato, proprio come un tempo, ed è una scheggia che mi si infila sottopelle, mi avvelena il sangue in una cancrena istantanea.
«Dimmi la verità» imploro.
Ti volti lentamente, le gambe nude e liscissime.
«Non è nessuno ti dico». Scandisci le parole con quelle tue labbra nuove, le sopracciglia eterne che si inarcano. Buccia perfetta stesa sopra il gorgo aperto da dita magre e macchiate di nicotina.
La suoneria riparte, a ogni nota mi sfaldo un poco, mi faccio polvere davanti alla bugia che sei diventata. Al mondo che non siamo più.

Facevamo un mondo è apparso in anteprima il 3 marzo 2025 su L’Appeso Numero 6.


© Valeria Puzzovio, 2025.

Caterina Villa è nata ad Assisi il 22 giugno 1988 ed è cresciuta a Perugia. Dopo una parentesi londinese, adesso vive a Roma, dove lavora come giornalista e autrice televisiva. Ha pubblicato vari racconti in antologie e su riviste cartacee e digitali.
.


Valeria Puzzovio è un’illustratrice della provincia leccese. Lavora in ambito editoriale e pubblicitario creando illustrazioni con tecnica tradizionale (matite e pastelli) o tecnica mista (collage analogico o digitale). Realizza le illustrazioni per Barbablues edito da Pietre Vive Editore e le copertine di Il colore delle cose fragili e Tra le pagine l’incontro (Collettiva Edizioni) e di Piccole storie finite male (Besa Editrice). Partecipa a mostre individuali e collettive, fiere di settore (The House of Illustration Fair London 2018), eventi culturali e manifestazioni artistiche (Mercado de obra grafica di Barcellona 2014, Lucca Comics&Games 2015), residenze artistiche (Lago Film Fest 2018). Nel 2018 è tra gli artisti vincitori del contest Dieci Copertine di Italianism. Nel 2020 è selezionata alla Mostra Internazionale del Libro d’artista VII edizione a Noto (SR). Nel 2021 ha collaborato con Fidelio Productions realizzando i disegni per il film Vetro di Domenico Croce. Dal 2023 collabora con Interno Libri Edizioni.

.



Vuoi sostenere L’Appeso?

Lascia un commento

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑