{dis}impegno letterario #2
a cura di Simone Sciamè
In Italia non si legge, si scrive e basta. I libri che si vendono di più sono l’uno la copia dell’altro. Si compra solo online, nessuno mette più piede in libreria. L’editoria è in mano a un circolo elitario di personaggi che detengono il potere di decidere chi merita di pubblicare, di essere valorizzato, e chi non ne è all’altezza. I buoni libri li fanno i buoni editori. La piccola e media editoria non esistono. Ormai pubblichi solo se hai i follower. Per interessare gli editori bisogna scrivere un libro sui temi caldi di quest’epoca. Scrivere è una fatica.
Queste sono alcune delle frasi che circolano nella cosiddetta bolla letteraria. Sono tante le narrazioni che si intrecciano, quando si parla di letteratura, di editoria, di scrittura. Ognuno cerca di suonare la propria campana, qualsiasi sia il suo ruolo all’interno del settore. Esiste infatti l’idea che ci siamo fatti dell’editoria e poi c’è l’editoria per quello che è in realtà. {dis}impegno letterario nasce dall’esigenza di sondare terreni poco battuti di questo mondo, di avere un approccio liquido ai temi della letteratura contemporanea, in un clima di ascolto e di osservazione, accennando provocazioni solo per scuotere il campo e vedere cosa c’è sotto. Criticare, ma non distruggere. Un lavoro di ricerca dal basso, di analisi e autocritica del nostro settore, specie dove la letteratura diventa un pretesto per analizzare la sintomatologia della realtà che abitiamo, che respiriamo e all’interno della quale operiamo.
Questo è {dis}impegno letterario, rubrica in cui, una volta al mese, apriamo un dialogo con chi l’editoria la fa.
Il secondo appuntamento è con Emanuela Cocco e Antonio Esposito.
Il ruolo dell’editor è fondamentale per il processo di pubblicazione di un libro. Se andiamo tra i ringraziamenti di ogni opera è probabile che troveremo qualche riga dell’autore o dell’autrice dedicata alla persona che si è occupata della fase, complessa ma gratificante, di editing. Un ruolo di osservatore, di consigliere, ma non solo.
Emanuela, Antonio, quali sono i doveri di un editor e cosa non dovrebbe mai fare?
Emanuela:
Una cosa scontata: un editor dovrebbe capire cosa sta leggendo. Poi dovrebbe provare a capire l’intento dell’autore e verificare che questo sia diventato un “testo”. Un po’ mi incazzo quando vedo gente che si presenta come editor, ma non lo è. Ogni lavoro ha la sua dignità e fare l’editor implica un percorso, un minimo di studio. È impossibile pensare di mettere le mani su un testo senza avere tanti tipi di conoscenze diverse. In un testo letterario entrano in gioco tante discipline ed è importante sapere come queste dialogano con il testo. Dovere dell’editor è affrontare l’editing come un percorso. Non basta il master in editoria, molte cose le impari lavorando. Non si smette mai di studiare. Ogni testo ti insegna qualcosa. Poi un editor ha il dovere di essere rigoroso e chiaro nel proporre le modifiche all’autore. Non bisogna mettersi sul trono e imporre il proprio punto di vista. Si deve sedere accanto all’autore e proporre gli interventi in maniera rigorosa, perché se il testo fa acqua da tutte le parti è bene che l’autore lo sappia. La proposta può anche essere rifiutata, ma è dovere di un buon editor provarci.
Antonio:
Una delle prime cose che deve fare un editor è capire la sua posizione nel momento in cui riceve un testo. Se si tratta di un editor freelance, parliamo di un lavoro rivolto esclusivamente al testo, cioè che non prevede una imminente pubblicazione. Se parliamo invece di un editor che lavora per una casa editrice, bisogna, oltre alla qualità del testo, immaginare il possibile posizionamento del libro all’interno del catalogo. In una situazione ideale, un editor, tra tanti testi buoni, dovrebbe scegliere quelli adatti al proprio progetto; ma in una casa editrice arriva di tutto, e questo complica il lavoro di selezione. Concordo con Emanuela. L’editor è anzitutto un buon lettore. È colui che capisce i meccanismi del testo e, qualora non li capisse, che dialoga con l’autore per fare in modo che l’opera possa esprimersi al meglio. Noi dovremmo avere un ruolo ancillare, nascosto, almeno così diceva Max Perkins. Ascoltiamo e diamo stimoli. L’editor non dovrebbe fare sentire la propria presenza e, secondo me, nemmeno intervenire sulle frasi, se può evitare. L’ideale sarebbe segnalare il problema, proporre una soluzione, attendere che l’autore o l’autrice metabolizzi le criticità e intervenga. Un buon lavoro di editing, quando riesce, permette a chi scrive di fare riflessioni che torneranno utili anche nei testi futuri. In definitiva: un editor è un buon lettore aperto all’ascolto e che dispone di un buon bagaglio di conoscenze transmediali messe al servizio di chi vuole raccontare una storia.
Sono risposte che mi suonano incredibilmente familiari e al tempo stesso inedite. Le vostre parole mi hanno fatto pensare al mio personale percorso. A differenza di altri, io non sono laureato, e si innesca in me l’immagine dell’editor che vorrei essere, ma anche quello che gli altri si aspettano che io sia. A questo punto vi domando se ci sia un percorso di formazione prestabilito o se invece si possa essere un buon editor senza possedere il “patentino”.
Emanuela:
Assolutamente sì. Quando stavo per laurearmi in Lettere ho vinto il concorso Rai Script per lavorare come sceneggiatrice e alla fine non mi sono laureata, anche se come editor mi sono formata per cominciare all’agenzia letteraria Herzog, e poi ho studiato e insegnato in tanti posti diversi, eppure da un istituto tecnico. Lo studio di cui parlo io è uno studio serio, che non ha niente a che fare con il master. Anzi, a volte è proprio il professionista che si è laureato e ha un master che dimostra di saperne meno, perché ha un approccio troppo scolastico. Ricordo che quando ho tenuto come docente il corso di editing per Minimum Fax, non ho voluto sapere il percorso di studi degli studenti. Ho letto due schede: una scritta bene, una scritta con i piedi. Quella scritta bene l’aveva scritta una ragazza che veniva da tutt’altro ambiente. Quella scritta con i piedi l’aveva scritta uno studente che aveva già aperto la sua agenzia editoriale.
Quali sono i criteri di valutazione di un testo?
Antonio:
Avendo lavorato sempre all’interno di case editrici, la scelta di un libro per me doveva essere compatibile con la linea editoriale definita dall’editore. Però, in generale, sono alla ricerca di una voce che sia originale. Spesso gli editor a questa domanda dicono che cercano una “voce originale”, appunto, ma cosa sia esattamente una voce originale nessuno lo dice con precisione. Non è facile. Il talento, la creatività, la voce, sono questioni che non hanno una definizione precisa, possiamo però provare a riconoscere dei criteri. Per me la voce è un’estrema consapevolezza dei meccanismi narrativi unita alla consapevolezza e alla padronanza delle espressioni linguistiche che vengono utilizzate all’interno del testo. Siamo in un momento storico in cui i grandi scrittori si stanno riappropriando della lingua, della forma libro, dopo anni in cui il dialogo col mondo del cinema ci aveva dato romanzi che erano simil-sceneggiature. Scelta che credo derivasse anche dalla possibilità di poter con maggiore semplicità vendere i diritti delle proprie opere e vivere di scrittura. Per me una voce che funziona è una voce capace di scrivere una storia utilizzando la lingua e fa di essa lo strumento principale della narrazione. Al momento non ho particolari riferimenti in Italia – penso a Magris, Mari… – sto apprezzando però ciò che arriva dall’Est Europa: Gospodinov, Krasznahorkai, Cӑrtӑrescu, che non parlano più in termini di romanzo, parlano di libro, rinunciando a una connotazione formale. Spesso le loro opere sono flussi linguistici dove è il pensiero a costruire la storia. Nel mio tentativo di accompagnare chi scrive, cerco di mettere l’accento sull’aspetto linguistico, su ciò che diventa poi definizione dell’atmosfera della storia.
Emanuela:
Non importa quello che accade, ma come lo fai accadere. Come fai cadere le immagini nella mente del lettore. Io faccio sempre l’esempio di quello che diceva Raymond Bellour a proposito dell’immagine cinematografica e dell’analisi del film: l’analisi del film è un corpo sfuggente e seducente. Anche la letteratura dovrebbe essere un corpo sfuggente e seducente. Ma soprattutto un corpo, non un elenco di eventi, di caratteristiche e di dati. A me interessa che l’autore riesca a costruire un’esperienza percepibile dal lettore. Se un libro è un elenco di eventi e non è uno spazio percorribile dal lettore, non è un’esperienza, allora sono davanti a un livello basso di scrittura. Non puoi dirmi che il personaggio è triste senza farmi vivere l’esperienza della tristezza. Sei capace di costruire quell’esperienza? Di farmela vivere? Quello si può raggiungere lavorando con la lingua, ricordandosi che non si può pensare a un’idea sganciata dalla lingua. Non si può dire “l’idea è buona, ma lo stile è fiacco”. Perché lo stile incarna l’idea. Non potrebbe esserci quell’idea se non fosse incarnata in quello stile.
Antonio:
In Come si legge un libro (e perché), Harold Bloom dice che tutti i libri brutti sono sinceri. Lo scrittore è colui che imbastisce un’enorme menzogna per dire la sua, o una, verità. Nel momento in cui sei incapace di imbastire quella menzogna, l’unica cosa che puoi fare è dire sinceramente quello che vuoi dire.
Emanuela:
Lo diceva anche Pontiggia: l’autenticità non è qualcosa di vero. Puoi scrivere una storia inventata ed essere autentico e stare nell’inautenticità quando scrivi un fatto autobiografico. Raccontare un fatto non è letteratura. Chi se ne frega se è reale, se quando lo racconti suona inautentico. Alla fine, la percezione dell’autenticità è molto codificata, non è spontanea.
Sei più autentico quando stai parlando con un tuo codice, che hai costruito con pazienza, che hai imparato a usarlo.
Antonio:
Se proprio dobbiamo esprimere una sentenza verso la narrativa degli ultimi anni, penso che l’ossessione per “la storia vera” sia un male. Capisco, da un punto di vista editoriale, che questi argomenti vendono, ma il discorso letterario si complica. La letteratura è diversa dal giornalismo, dall’aneddotica, dalla semplice rappresentazione dei fatti. L’Italia ha una grande tradizione di autori di bozzetti – De Amicis, Capuana, De Roberto, Serao, altri – che con la verità avevano un rapporto articolato e che codificavano a seconda del mezzo di espressione.
Qualche giorno fa leggevo da qualche parte che quando la storia è vera ma scritta male bisogna comunque difenderne la verità testimoniale. Io non sono d’accordo. Se fosse per me non verrebbe pubblicata. Il nostro strumento è la lingua. La narrativa nasce quando uno sconosciuto mi racconta una bella storia, anche se non è vera. Per il fatto di cronaca c’è il giornalismo.

Avete notato delle tendenze del mercato editoriale? Pensate questa tendenza possa essere positiva per stabilire lo stato di salute dell’editoria italiana?
Emanuela:
Ho notato una difficoltà a staccarsi dalle storie familiari, in cui vengono descritti rapporti straordinari con la nonna, la mamma, la zia, e restano straordinari solo per chi scrive, perché raccontati da chi li ha vissuti. La tendenza alla storia autobiografica sembra che sia premiata dall’editoria. Ho visto poi che certa letteratura di genere, che a me piace molto, possa essere considerata letteratura a tutti gli effetti e possa parlare di oggi in modo sperimentale, ma anche costruire una macchina d’intrattenimento efficace per il lettore rispetto ad altre storie. Non è solo letteratura d’evasione. L’orrore non è solo per alieni, ma sta prendendo piede anche in Italia. Alcuni stanno facendo un salto verso la letteratura di genere. Mi viene in mente Orso Tosco che ha vinto il Premio Scerbanenco. Io l’ho sempre apprezzato, ed ero contenta quando uscì con il suo romanzo. Ero curiosa di leggere una sua storia investigativa, perché è affascinante sapere come uno scrittore che ha sempre scritto altro si approccia a un nuovo genere. Penso anche a Davide Longo, che non conoscevo, che ha scritto tutto un ciclo di gialli investigativi con grandi personaggi e grandi storie.
Antonio:
Nel genere si sta trovando maggiore innovazione, anche perché c’è più pubblico. È anche più facile per l’editore scommettere con una qualche forma di serenità. Negli ultimi anni c’è stato un grande lavoro della critica, anche per rivalutare questo tipo di letteratura. Basti pensare a King, che fino a non tanto tempo fa era considerato di serie b, oggi la critica ne riconosce anche le caratteristiche letterarie.
Nella letteratura non di genere, proprio perché non sono un fan dell’autofiction, della scrittura del sé, trovo affascinanti quegli scrittori che stanno recuperando il “fantastico”. In tutte le sue declinazioni insomma: la scrittura d’invenzione. Anche in maniera fanciullesca, ne sono attratto. Penso a Jules Verne, London, Salgari: scrittori creatori di mondi. Mondi che finiscono con l’appartenere anche al reale. Non sempre sono certo che Macondo non esista, per dirne una.
Sto dando attenzione in questo momento a quegli scrittori che non hanno problemi a inserire elementi immaginifici nella scrittura realistica. Trovo incredibile la capacità umana di trasformare in finzione ciò che abbiamo intorno.
Facciamoci del bene: due o tre testi che per voi sono stati fondamentali per la vostra formazione di autori e editor.
Facciamoci del male: un libro o un autore che per voi è sopravvalutato.
Emanuela:
Ne potrei citare tredicimila. Ma mi hanno condizionato tutti i libri di analisi del film, da Paolo Bertetto a Bellour, Christian Metz. Cose apparentemente distanti dalla letteratura, ma che non riesco a togliermi dalla testa. Non riesco a pensare alla pagina senza sapere come inquadrarla, senza chiedermi che luce abbia. La drammaturgia, a teatro, mi ha insegnato a non abusare dell’attenzione del lettore, perché ogni frase, se fiacca o scritta male, il pubblico la massacra. Se devo citare un autore, penso Henrik Ibsen.
Tra quelli che non leggerei, penso a Leoni di Sicilia o ai libri di Concita De Gregorio. Non li calcolo, troppo alieni rispetto a quello che mi piace leggere. L’amica geniale so che molti l’hanno amato, io ho iniziato a leggerlo, mi sono annoiata e l’ho mollato.
Più parlo con addetti ai lavori e più sbuca questo titolo. Lo descrivono molti come sopravvalutato.
Emanuela:
Il solito drammone, non ci vedo nulla di originale. Posso capire che tanti l’abbiano apprezzato, ma a me non ha dato niente. Il personaggio che tradisce la protagonista, ecco, se dovessimo fare un paragone con Bel Ami, siamo su un altro livello. Quello è un personaggio davvero bastardo, molto più di lui. Questo si fa le tresche, sai che roba. Questa profondità dei personaggi non l’ho trovata. Mi è sembrato il classico melodramma italiano.
Antonio:
Sono innamorato degli scrittori-lettori, quelli che ti raccontano dei libri che leggono. L’Italo Calvino critico letterario è stato molto formativo per me. Lui era un amante della tradizione letteraria, ma avendo lavorato per anni in casa editrice, era anche capace di applicare una logica editoriale ai libri che sceglieva.
Dei contemporanei, Fabio Stassi, Giordano Meacci, Wanda Marasco.
Anche se oggi ha meno lettori, la narrativa postmoderna è stata importante, libri come L’opera galleggiante di John Barth o i racconti di Donald Barthelme, in quelle opere lo scrittore attua un gioco metaletterario in cui racconta cosa sta facendo mentre scrive. Quando li leggevo era come guardare quegli orologi con la scocca trasparente in cui leggi l’ora ma al tempo stesso intravedi il funzionamento meccanico interno. Da editor ho una formazione da autodidatta, non ho mai studiato narratologia, mi sono sempre limitato a osservare le storie; e quegli autori sono stati d’aiuto.
Ciò che invece ritengo sopravvalutato semplicemente non lo leggo. Ci sono una serie di libri “da classifica”, autori che posso anche nominare, ma non mi sembra di esprimere un’opinione forte, né d’interesse.
Siamo figli dei nostri maestri, nella scrittura e nell’arte di trattare il testo. Vi chiedo: esiste un modo per giudicare il testo che non venga dalla tradizione, dalla “pura inerzia accademica”, per dirla con Siti, di chi ci ha insegnato a valutare e scrivere un testo? Quanto la nostra personale formazione influenza la valutazione di un libro, magari rifiutando una possibile innovazione ponendo il bollino di “astruso” oppure “illeggibile” e via dicendo?
Emanuela:
Esiste un’egemonia dell’archi-trama classica, quindi tutto ciò che non è “viaggio dell’eroe”. Tanti editor e critici fingono di ignorare che non tutto quello che non rientra in quello schema è un errore. Questo taglia le gambe a tutte quelle opere che se ne fregano di quel modello e tu, editor o critico, non le puoi valutare seguendo quel criterio. Se le valuti con quel modello le snaturi, le fraintendi. Questo vale sia per gli editor “scolastici” che hanno studiato narratologia ma rifiutano in maniera ottusa ogni altro tipo di narrazione, perché se non rispecchia quel modello tu lo forzi, segnali ogni possibile bellezza dell’opera come errore.
Quindi un editor deve leggere tanto, perché non esiste un solo modo per raccontare una storia e lui deve conoscere i tanti altri modi che un autore ha a disposizione per farlo.
Il rischio è anche quello di appiattire ogni voce che prova ad andare fuori dallo schema. Negli ultimi anni abbiamo stabilito che un modello funziona, testimoni molti film e libri blockbuster, e abbiamo capito che possiamo sostituire un personaggio con un altro, purché rispetti le caratteristiche archetipiche, purché gli si riservi un arco di trasformazione degno, purché si porti la storia a un climax. Questo può garantire un risultato in termini di vendite o può trovare un target, un posizionamento. Ma non si rischia di lasciare poco spazio per la sperimentazione?
Emanuela:
Tanti interventi di editing che vedo, in tanti casi è proprio ignoranza. Si riconosce solo uno schema e si applica ciecamente. Come la regola “show don’t tell”. Regola giusta, ma a volte si può rompere con serenità.
Antonio:
Quest’anno mi è capitato di tenere delle lezioni di scrittura e ho provato a non dare regole rigide. Quando, parlando di narrativa, si danno delle regole si rischia che chi è alle prime armi poi le applichi in maniera meccanica. Ogni volta devo provare a far capire che, più che una regola, siamo di fronte a una soluzione possibile. Se uno ha una storia da raccontare, la vera questione è il come. Il come non può passare sempre e solo dal viaggio dell’eroe, lo show don’t tell o altre formulette simili. Ogni romanzo o racconto che un autore scrive è il tentativo di dare risposta a una domanda. Ed è un’indagine che lo scrittore fa di volta in volta. Quando scrive una storia, l’autore sta cercando di imparare a scrivere quella storia. Conoscere le regole, però, avere coscienza di una tradizione, è importante anche per capire dove si colloca ciò che si sta facendo.

Il conflitto è il motore della storia. Ma cosa accade se si sfoltisce il motore della macchina narrativa? Ha senso scrivere un libro senza conflitto?
Emanuela:
Magari ha un senso, ma anche un costo. Alcune scelte hanno un senso, ma nella resa ti trovi davanti a una materia letteraria con cui è difficile entrare in dialogo. L’opera forse si muove su altri binari. A me, come lettrice, personalmente piace essere messa alla prova, il conflitto deve esserci, ma non deve essere per forza il mostro sotto il letto, può essere anche un conflitto interiore. Io avrei dei problemi a leggere un libro senza conflitto.
Antonio:
Credo sia possibile scrivere un libro senza conflitto. Se decidi di rinunciare al conflitto, sicuramente hai un altro obiettivo. Come quando Calvino scrive Ti con zero, scrive un racconto sulle possibilità. La narrazione è tutta nel volo della freccia, non il momento della partenza e non il momento in cui colpisce la preda. Anche lì non c’è conflitto, ma ci sono altri elementi a permetterci di interpretare il testo. Tutto è possibile, bisogna però interrogarsi sul senso ultimo dell’esperienza narrativa.
Sono proprio entusiasta quando leggo un racconto o un romanzo che poco ha a che fare con la narrativa consolatoria, come se mi stesse mostrando un mondo nudo e questo mi allontana il senso di ipocrisia, di artificio. Mi piace quando un libro mi mostra un aspetto della realtà che mi era sconosciuto. Così come mi piace quando ciò che ci circonda viene masticato e sputato, assumendo nuove forme, ma mantenendo la stessa sostanza. La narrativa è uno strumento di immersione o astrazione dalla realtà. Quando, per voi, la narrativa raggiunge il suo obiettivo?
Emanuela:
È proprio quello che mi è sconosciuto in letteratura che mi interessa. Da scrittrice, vorrei portare il lettore in quella direzione. Quello che cerco non è una letteratura che mi descriva quello che già conosco, ma che mi metta in una situazione di scomodità, di disturbo. In questo periodo ho letto Troie di Dennis Cooper, che mi ha messo alla prova e in una posizione in cui non mi troverò mai, e per questo è un gran romanzo.
Antonio:
Voglio libri che mi portino in zone inesplorate del mondo e del pensiero. Devono essere occasioni per allargare lo sguardo. Magari sono al confine con cose che già conosco, c’è una piccola parte di familiarità perturbante, ma poi scavallano. Mi convincono quei libri in cui le cose che conosco vengono presentate in modo inedito. Posso subire la fascinazione anche per la semplice storia di un appuntamento al bar tra due innamorati, ma solo se l’autore mi fa concentrare su cose a cui non avevo mai fatto caso prima. Mi è capitato di conoscere di recente scrittrici pubblicate per lo più su rivista – tipo Sarah Majocchi, Lidia Noviello, Sara Cordero – che applicano logiche di questo tipo quando scrivono. Sono brave a osservare. Praticano curiosità quando scrivono; mi piace chi è curioso.
Oltre a parlare di letteratura, scrittura e di editing, questa rubrica vorrebbe accennare della sana autocritica partendo dall’opinione di chi vive l’editoria in prima persona. Vi chiederei dunque un pregio e un difetto dell’editoria contemporanea.
Antonio:
Pregio direi la bibliodiversità. C’è una gran possibilità di pubblicare. Mi è capitato spesso di non poter pubblicare libri che comunque avevo apprezzato in valutazione, ma finisco col ritrovarli altrove.
Il male è l’altra faccia di questo pregio: troppi libri in uno spazio che non è capace di accoglierli. Siamo il terzultimo paese in Europa per lettori. Produrne quasi centomila l’anno significa muoversi in un sistema ingolfato. La sovra-produzione per un editore poi comporta anche problemi di costi, e quindi problemi di gestione economica: redazioni pagate non a dovere, anticipi e diritti pagati male, rapporto conflittuale con le fiere, eccetera.
Emanuela:
Per me il pregio è che se scrivi, la possibilità di pubblicare c’è. Se scrivi bene e non hai agganci, comunque una possibilità esiste. Il problema è che pubblica anche chi scrive male e questo infastidisce, perché capita di andare in libreria e trovare libri scritti male. Ci vorrebbe un filtro più serio, perché a volte manca la dignità del testo, resta solo la voglia che ha l’autore di dirsi autore e questo avvilisce tutto.
Antonio:
Su questo concordo, ma fatico a dirlo in maniera netta perché temo di pormi come filtro e di soggettivizzare la questione.
Emanuela:
Io non me la prendo quando l’influencer vende migliaia di copie del suo libro. Ma quando si cerca di spacciare libri fiacchi come letteratura di ricerca mi infastidisco.
In conclusione: uno dei motivi per cui ho scelto di curare questa rubrica, è perché pare che ci sia un’editoria che idealizziamo e una reale. Questo spazio non nasce per arrogarsi il diritto di descrivere l’editoria per quello che è davvero, ma dato che esistono dei corpi che abitano questa bolla – perché è vero che i libri parlano da soli, ma se è vero che parlano i libri belli, parlano anche quelli brutti – allora credo sia giusto dare loro la possibilità di esprimersi. Lo si fa molto sui gruppi whatsapp e molto meno sulle riviste o negli ambienti istituzionali, alle fiere, e quindi vi chiedo: qual è il ricordo legato a questo mondo che portate nel cuoricino e quale invece riconoscete come una brutta esperienza?
Emanuela:
Per me, di positivo, penso a tutti i rapporti di stima che ho maturato nel corso del tempo. Mi è capitato di interessarmi al lavoro di persone che non potevano fare niente per me e viceversa. Stima durata anni ma senza favori e opportunismi. Ce ne sono tante di persone così, che quando le ritrovi le stimi. Ed è una cosa magnifica del lavoro in editoria.
Di negativo, tutte le volte che mi sono trovata davanti a persone che vedono l’editoria come uno scambio democristiano di favori. Non c’è un dialogo, ma un prosciugamento di energie. Le vedi e pensi: ma perché ho speso tempo con queste persone? Facciamo letteratura, non politica. Ti aspetti un’altra qualità umana. Per me è un imperativo non sfruttare un’altra persona per ottenere un beneficio. In editoria, tanti ragionano al contrario. Io cito il grande Davide Morganti: con lui è iniziato un rapporto di stima, ma è sempre stato un orso. Quando dirigevo la collana tReMa e io chiedevo il racconto, lui mi diceva “non ho tempo”, ma mai si è scalfito il nostro rapporto. La stima non svanisce così, altrimenti è opportunismo.
Antonio:
Le persone hanno un ruolo fondamentale, nel bene e nel male. Molte delle persone conosciute in questi anni, per questioni affettive, si sono slegate dal loro ruolo editoriale e hanno assunto un ruolo importante nella mia vita.
D’altro canto, al di là degli attriti che ci possono essere come in ogni altro settore, ciò che mi infastidisce sono le etichette applicate sulla gente senza conoscerne il lavoro, e il loro tentativo di svolgerlo con coerenza in un meccanismo che fa acqua da molte parti, se non da tutte.
Ogni testo ti insegna qualcosa. Essere editor oggi – Dialogo xon Emanuela Cocco e Antonio Esposito è il secondo appuntamento di {dis}impegno letterario, una rubrica a cura di Simone Sciamè.

Emanuela Cocco. Autrice ed editor, vive a Roma. Ha scritto per il teatro e per la televisione, come autrice e come critica. Ha pubblicato racconti e saggi di analisi letteraria su varie riviste e raccolte. È stata lettrice del Premio Italo Calvino e giurata del contest letterario del TOHORROR Fantastic Film Fest del 2024. Ha insegnato editing e scrittura per Minimum Lab i corsi di minimumfax e tante altre scuole di ogni ordine e grado. Collabora con la rivista «Carmilla». È tra i fondatori di «Terra di nessuno», spazio di critica della drammaturgia, e «Degrado Rivista». Ha diretto la collana di letteratura sinistra TREMA (Edizioni Arcoiris) e ha fondato e dirige Scrivere di Notte, scuola di scrittura e video, rivista. Tu che eri ogni ragazza (Wojtek) è il suo primo romanzo. Trofeo (Zona42) la sua ultima storia.

Antonio Esposito (Napoli, 1989). È editor di narrativa per Giulio Perrone Editore. Suoi racconti e articoli sono apparsi su «Minima&Moralia», «In allarmata radura», «Ostranenie», «Rivista Blam!», «Grado Zero», «K de Linkiesta», e altri.
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