Annotazioni da una sera di fine agosto (dopo che è piovuto)

Agosto 2022

È piovuto. Scrivo «è piovuto» ma dico, sempre, «ha piovuto»: un indizio, forse, del fatto che conoscermi qui dentro, nel perimetro della pagina scritta – anzi schermo può darsi tattile di questo strano aggeggio, luminescente parallelepipedo rettangolo di per sé né buono né cattivo il cui nome non mi sfugge ma non scrivo per capriccio – non equivale a conoscermi lì fuori, nel parlato; ma questo vale per tutti chi più chi meno, e resta pur sempre un indizio che prova non è.
Dunque è piovuto. Pioggia rispettabilissima, era nell’aria da stamane. Cionondimeno stasera nessuno aveva l’ombrello: la gente giù per strada correva a cercar riparo, saltellando tra le pozzanghere con le mani a coppino sulla testa (e nel fuggi fuggi generale ho provato tanta tenerezza frammista a un gretto autocompiacimento per l’agio casalingo in cui stavo crogiolandomi).
Qui le pozzanghere ci mettono niente a formarsi, e sono pozze infide, bastarde nel profondo: ti raffiguri nell’impavida mossa di adagiarvi la suola, affondi la scarpa per intero. Adesso che è piovuto, la gran pozza d’acqua dinanzi casa riflette le luci dei lampioni e tutto intorno, moltiplicandone i bagliori. Così la strada pullula di luci tremule e belle, e le persone dapprima acquattatesi dove capitava, ora, da brave lumachine, vavaluci tenaci, hanno rimesso fuori le antenne e di nuovo passeggiano come se nulla fosse.
Ogni tanto alzo lo sguardo e le vedo da quassù. Io, di vedetta discontinua ma partecipe, su questo frammento di ‘fuori’ in cui giorno dopo giorno scelgo di indugiare (la mia finestra: limite e cornice). Io vestito di due indumenti soltanto, mutanda e canottiera, che leggo spensierato; o meglio, è il leggere che mi spensiera. Il dettaglio di mutanda e canottiera quivi combinati è motivo ricorrente, trasversalmente autobiografico, cinematografico, letterario. L’una color grigio topo, elasticizzata, aderente; l’altra bianca come le si confà, ad ampio scollo, cafona il giusto, a coste larghe. Potrei e non potrei essere un bel vedere, dipende dai gusti su cui non val la pena discutere.
Leggo Giorgio Manganelli, Antologia privata, prima edizione Rizzoli, 1989. La brossura è in condizioni direi ottime. Le pagine, abbrunitesi ai bordi, emanano un odore a tratti pungente: se sto inalando certe strane muffe, se mi sto intossicando, m’intossico giulivo. Stravaccato sul letto a lume di bagiù, mi trovo a tratteggiare delicate sottolineature, parentesi e freccette in quantità.
Dell’Antologia sto leggendo la seconda e ultima parte, “Extravaganti”. ‘Estravagante’ vuol dire, in primo luogo, ‘stravagante’; ma qui significa ‘che è fuori da una raccolta ufficiale’, a indicare talvolta una serie di scritti minori spesso grandemente, magnificamente interessanti. Sovviene, ad esempio, una sezione della raccolta Le poesie di Cesare Pavese (Einaudi, 2017), “Estravaganti scelte, dicembre 1926 – agosto 1930”; ecco due titoli per restare in tema: «No, io son nato per l’inverno», datata 11 agosto 1927 (qui Pavese era diciannovenne), e «Piove».
In Manganelli, egli stesso curatore della propria antologia non a caso privata, la selezione di Extravaganti consiste in una miscellanea di (non)recensioni, brevi monografie, appassionati articoli inerenti la letteratura, la musica, l’arte, la società. Ecco quindi il focus su Italo Calvino e l’allora fresco di stampa ma postumo Lezioni americane (l’articolo apparve su “Il Messaggero”, 1988); seguono: la riscoperta della «trappista della perfezione» Cristina Campo con Gli imperdonabili (“Il Messaggero”, 1987), e Pietro Citati con Il migliore dei mondi impossibili (“Corriere della Sera”, 1982). Via via tutti gli altri e altri argomenti; confesso: li ho già letti, non perché io abbia il vezzo di leggere i libri da coda a capo, pratica di cui peraltro mi stupirei poco, bensì perché nel completare e rileggere questo mio testicciuolo, queste mie annotazioni da una sera di fine agosto dopo che è piovuto, rivedute e lasciate a riposare o fermentare quel paio di giorni, finanche tre o quattro, o cinque o sei per via di altre scritture di cui potreste o non potreste sentir dire, nel frattempo, insomma, questo Manganelli – in cui ho ritrovato cose che avevo già lette e altre no – l’ho infine divorato.
Ma stasera, la sera che è piovuto, è qui che ho riposto il segnalibro, in corrispondenza di una frase da cui non si può guarire, ultimo estratto dal testo di Citati dove Manganelli ha ritenuto opportuno metter punto: «L’arte è un contagio: il più terribile che l’uomo abbia scoperto; brucia le mani innocenti che prendono in mano i fogli di carta, acceca gli occhi che guardano, sconvolge le menti meglio difese».
Rileggiamola insieme, per ferirci.
Il segnalibro ha tre foglie di aloe vera stampate sul fronte che fanno capolino dal basso, e una frase di Gianni Rodari sul retro: «Vorrei che tutti leggessero. Non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo». La citazione, ahinoi, la si trova nel web con virtù di prezzemolo. Scrivo ‘ahinoi’ poiché in realtà è stata manomessa da non so chi né quando; l’originale è più strutturata e perciò, bisogna ammetterlo, forse carente d’effetto: «Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo» (in La grammatica della fantasia, Einaudi, 1973). Noterete che i due frammenti, quello di Citati nel libro e quest’altro di Rodari nel segnalibro, sono in vena di contrappunto. E giacché, a rigore, il segnalibro lo si pone in corrispondenza dell’ultima pagina letta, così da rileggerla o riassumerla in un sol colpo d’occhio e proseguire (c’è chi sceglie diversamente? C’è chi, a cospetto della sottile ma inevitabile demarcazione imposta dalla pagina, preferisce l’al di là all’al di qua?) – esse dunque, le due frasi, si toccano pure: rumori e voci non ne sento, siano urla o bisbigli, o fracasso di alterco o risate, o strusciamenti amorosi. Epperò va detto che il mio udito tanto in alto o in basso di frequenze libresche e segnalibresche non riesce ad andare, ergo mi tocca supporre. Ma che qualcosa stiano combinando o combineranno quando volgerò lo sguardo e la mente altrove – io su questa faccenda, per quanto insondabile, quasi ci giurerei.
Dicevo del contrappunto. Durante la lettura ascolto Chopin in sottofondo, la Polacca n° 6 in La bemolle maggiore op. 53, “Eroica”. Scelta non casuale: Cristina Campo annovera le Polonaises quali esempio di «sprezzatura», e a capire in cosa consista questa sprezzatura, per quanto sia arduo definirla, ci pensa Manganelli: «Incontro superbo di distrazione e maestria, di noncuranza e di esattezza, ma anche, squisitamente, di inesattezza, una altera, favolosa inesattezza, nobile e plebea, quotidiana e fatata». Al pianoforte, Martha Argerich, in un video del 1965 facile da trovare. Ecco, lei, la pianista che preferisco, per cui ho una cottarella musicalplatonica dacché ero poco più che ventenne, lei è, tra i personaggi qui citati, l’unica ancora in vita: ha compiuto 81 anni il 5 giugno, ma che sia tuttora di eccezionale bravura (per quanto acciaccata) e bella altrettanto (guai a dir sfiorita) su questo non ci piove. Mentre qui, come sapete, oggi è piovuto.

Con una simile compagnia – Manganelli, Pavese, Calvino, Campo, Citati, Rodari e pure Chopin, e Hofmannsthal, Ovidio, Leopardi, Manzoni, Dickens, Schulz, Pessoa, di passaggio nei tre articoli extravaganti summenzionati – con tanto fior fiore di trapassati, direste voi, parrebbe di trovarsi al camposanto (invero luogo di vita molto più che altrove).
Oppure, a voler travalicare col pensiero certi incerti confini, sarebbe come abitare uno dei molti non-luoghi atemporali, di empirea giustezza a me idealmente commisurata, cui immagino di poter aspirare. Uno spazio che mi aderisce perfettamente, un tempo scollato dal tempo, quando è appena piovuto e non so che ora sia e quale sia la mia ora e non lo voglio sapere.


Vassilij Kandinskij, Accento in rosa, 1926.
In copertina: Alcuni cerchi, 1926.

Giuseppe Cappitta nasce a Siracusa il 9 novembre 1985. In ambito letterario è autore di opere di narrativa e poesia, cui si aggiunge una miscellanea di testi a indirizzo critico, filosofico, memoriale. Suoi racconti, saggi e prose brevi sono apparsi in «Blogorilla Sapiens», «Bomarscé», «Morel, voci dall’isola», «Spaghetti Writers», «Kairos», «L’Appeso» . Vive a Marzamemi.



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