Eliana Rotella – Livido (ouverture)

estratto da Livido
di Eliana Rotella

C’è una persona che cerca le parole
in mezzo allo scontrarsi del tempo
sono io, mi chiamo Ovidio
sono chi scrive
chi fa il verso a dio
come i bambini
che giocano ai grandi
e gioco l’indicibile
della trasformazione.

ouverture

Sul palco, le ombre nere di un incendio. È un lascito, un’eredità anonima.
Il fuoco ha risparmiato i contorni squadrati di una finestra.
Le imposte sono chiuse.
Sbarrate.
C’è una lingua di edera che spunta da una crepa tra gli infissi.

C’è una storia da raccontare e non so come iniziare. C’è un vuoto di memoria e nessun testimone. Mi chiedo dove vanno le cose che non lasciano traccia. A volte vedo i corpi che macchiano l’aria e si urtano nelle strade, vedo l’impronta delle ossa nei letti d’ospedale, i segni degli amanti sulla parete, l’alone intatto di un possibile. Di un inizio. C’è una storia da raccontare di cui mi fermo alle soglie. Sono Ovidio e davanti al vuoto di ciò che scompare non ho altro potere che tentare.
Precipitare una storia dalla volta delle storie
e incarnarla nei nomi e nei corpi che l’hanno composta, ricordo
“prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre
unico era il volto della natura in tutto l’universo,
mole informe e confusa, Caos”, ricordo
una stanza bianca, ricordo.

Un neon acceso, anche se è giorno.
Lo fanno i tribunali, le scuole, le cliniche
tutti i luoghi in cui sembra non bastare la luce
e allora la diffondono, la raddoppiano
come se dovessero illuminare loro il cielo.

C’è una persona nella stanza che posso chiamare Narciso.
Entra Narciso, entra scivolando su una sedia girevole. È di spalle.
Ha addosso un camice bianco, la testa avvolta da una cuffia sanitaria.
Ha una voce rassicurante.

Sì?

Confortante.

Grazie.

Quando Narciso parla
sembra che la sua voce arrivi
da ogni parte della stanza.

La mia voce arriva da ogni parte

della stanza, sì. Ti ringrazio.

Prego.

Narciso è in silenzio.
Eco bussa.
Rumore di nocche sul legno.

Avanti.

Non ora.

No?

Narciso non sente.
Eco bussa ancora.
Rumore più forte di nocche sul legno.

Avanti.

Non ancora.
Un lungo silenzio.

Ora?

Più lungo.

Quanto lungo?

Lungo come il silenzio
di un foglio bianco.

Non ho capito.

Lungo come il silenzio –

Fa niente.
Mi sistemo.
Inspiro.
Va bene la voce?

Sì.

Com’era?

Rassicurante.

Rassicurante.

Sì.

Grazie.

Prego.

Poi?

Confortante.

Confortante.

Sì.
Eco bussa.

Avanti.

No.

No?

Narciso non sente.

Ma l’ho sentito.

Allora può fingere di non sentire.
Eco bussa ancora.

Avanti.

Posso segnalarti io
quando dire: “Avanti”,
va bene?

Ti ringrazio.

Un lungo silenzio.

Ora, giusto?

Più lungo.

Quanto?

Molto.
Un silenzio molto lungo.

Scusami –
Cos’è per te lungo?

Lungo come il silenzio
quando ti chiedono
che voce aveva
se ti ricordi
com’era fatto.

Scusa –
Va bene la voce?

Va bene
ora puoi dirlo.

Mi sistemo.
Inspiro.
Guardo le luci.

Vai.

Battuta?

“Avanti”.

Interrogativo?

No, solo: “Avanti”.

Imperativo, quindi.

Non proprio.

Un invito.

Quasi.

Quasi un invito?

Un accenno.

Svogliato?

Solo un accenno.

Un accenno svogliato?

Dillo e basta.

Come vuoi.
Inspiro.
Avanti.

Entra Eco.
Nella piega del gomito, all’altezza dei prelievi
ha un livido enorme, una macchia verde
incastonata nell’epidermide.

Quando un livido è verde sono passati
circa sei giorni dalla contusione.
È l’inizio del processo di guarigione.
Ha dei fogli in mano.
Sono dei moduli da compilare
la pagina bianca del resto della storia.
Controlla che i dati siano giusti.
Sul foglio c’è scritto che ha vent’anni.

Ho vent’anni.

Buonasera.

È giorno.

Buongiorno.

Buongiorno.

Prego.

È qui per i prelievi.

È qui per i prelievi, giusto?

Giusto.

Sangue e urine.

Sangue e urine.

È già venuta o è la prima volta?

È la prima volta.

La guarda.

La guardo.

Mi guarda.

Narciso porge la mano.
Eco la stringe.

In realtà volevo i moduli.

I moduli. Certo.

Narciso sorride.

Sorrido.

Sorride.

Indulgente?

Sorride e basta.

Magnanimo.

I moduli.

Eco li porge. Narciso legge.
Le chiede:
ha avuto un rapporto non protetto?

Leggo:
ha avuto un rapporto
non protetto, sì?

Sì.

Sì.

Leggo che di solito usa
metodi contraccettivi.

Li usi.

Li uso.

E questa volta?

Si è rotto.

Si è rotto.

Capisco.

Davvero.

Certo.
Posso darti del tu, no?

No.

Sì.

Non può.

Da quanto lo conosci?

Un po’.

Un po’?

Non può darti del tu.

Non ricordo.

Hai detto che si è rotto.

Ho detto che non può.

Chiedo perché c’è scritto:
si è rotto.

Sì.

È per questo che sei qui.

Sì.

Da me.

Non può darti –

Da te.

Ti fidi?

Non le dare –

Di te?

Lo volevi?

Il livido sul braccio di Eco si illumina.
Il neon si spegne.
Il corpo ha una memoria precisa.
A volte guardiamo un livido
e non sappiamo come ce lo siamo fatto
cos’è successo.
La pelle sì.
La pelle trattiene l’invisibile.

E quindi?

E quindi non è andata così.
Non ricordo.
Dobbiamo ricominciare.


Il testo qui pubblicato, inedito online e su carta, è tratto da Livido di Eliana Rotella, vincitrice della Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40 (2023/2024), in scena al 52° Festival Internazionale del Teatro di Venezia.

Mise en lecture / Stage Reading (Venezia, Arsenale – Sala d’Armi E, 27-28 giugno 2024)

testo Eliana Rotella
con Marco Cavalcoli, Bianca Cavallotti, Eliana Rotella
disegno sonoro Andrea Gianessi
regia Fabio Condemi

produzione La Biennale di Venezia


Courtesy La Biennale di Venezia – ph. Andrea Avezzù


NOTA AL TESTO: PRESENTAZIONE / SINTESI E MATERIALE DI RICERCA

Avete presente quando vi trovate addosso un livido e non vi ricordate come ve lo siete fatto?
È una storia di cui non sapete ricostruire l’inizio, è rimasto solo un segno. Momentaneo. C’è una storia che è accaduta davvero che ha al centro un vuoto di memoria. Mi sono chiesta: come si fa a raccontare un trauma di cui non si ha ricordo? Ovidio è il narratore e autore della storia. Evoca la figura di Eco, suo doppio, e di Narciso. Con loro cerca di ricostruire quello che è successo. Quando si arriva in prossimità dell’evento, come quando si preme su un livido, il corpo di Eco, la sua memoria cellulare, si ribella. Fa male. È il segno che le cose non sono andate così e quindi si deve ripartire da capo. Ogni volta, immaginando una versione, un finale diverso, perché è nel tentativo di vivificare lo spazio vuoto che si ritrova la potenza trasformatrice della parola, che si passa da oggetto del discorso a soggetto narrante. È per questo che ho scritto Livido.

*

Ovidio tenta di raccontare per colmare un vuoto di memoria, un vuoto di narrazione, l’afasia davanti alla violenza, all’impronunciabile. L’immobilità granitica del mito la cui fine tragica è inevitabile viene sgretolato alle basi della narrazione. Narrare come base di rivolta, come difesa ultima davanti all’avanzata del vuoto, immaginare come risposta alla mancanza dialogica della violenza. Ripetere come riscrivere, come ritornare al ruolo fondante del perché mettere e mettersi in scena, un ripetere come tentativo di liberazione da parte di un soggetto e non il ripetersi oggettificazione di una gabbia senza via d’uscita, disumanizzante, del reiterare il trauma rimanendo in un cerchio chiuso. Il passato incistato di precedenti, le leggi non scritte di una tradizione che pone le sue basi in un millenario immaginario di narrazioni abusive si sgretola, lentamente, davanti a nuove narrazioni, nuovi modelli, di nuovi futuri possibili. L’azione dell’abuso, nel senso di uso eccessivo o arbitrario di qualcosa, è la stessa dinamica alla base dello saccheggio delle risorse di cui la terra dispone, la stessa dinamica alla base dello sfruttamento di forza lavoro umana per l’arricchimento degli abusanti, della repressione di persone marginalizzate per mantenere una posizione di potere. Eco, nel suo essere ninfa, incarna il corpo sfruttato del mondo, in rivolta davanti a un meccanismo di invasione egotica, calpestando l’altro per un proprio desiderio: il negativo del dialogo, della pluralità, della convivenza. Narciso, dall’altro lato, è l’ego umano che schiaccia l’eco, in ogni sua molteplice forma. Narciso è il corto circuito dell’essere umano contemporaneo nella sua emanazione di presunta supremazia, nel rifiuto di tutto ciò che non assomiglia al suo riflesso, di tutto ciò che implica l’altro, la relazione con il mondo in quanto cosmo di plurime espressioni vitali.

*

Sul palco, le ombre nere di un incendio. È un lascito, un’eredità anonima. Sembra non si entri lì dentro da molto tempo. Il fuoco ha risparmiato i contorni squadrati di una finestra, sullo sfondo. Le imposte sono chiuse. C’è una lingua di edera che entra tra le fessure delle persiane.

In scena Eco, Narciso e, tra loro, Ovidio. Ovidio è il nome dato a chi racconta la storia, una storia che ha vissuto davvero. Nel momento in cui parla, Ovidio crea la realtà scenica enunciandola, modificandola, riscrivendola. Gli accadimenti vengono incarnati, agiti, da Eco e Narciso.

Eco nella piega del gomito, nel cavo cubitale, tra le vene, all’altezza dei prelievi, ha una macchia verde. Un livido enorme. Accecante, smeraldo. Una gemma durissima incastonata nell’epidermide. Quando un livido è verde sono passati circa sei giorni dalla contusione. È il segnale dell’inizio del processo di guarigione. È del dopo che Ovidio vuole parlare. Della sopravvivenza, della ricostruzione. Degli infiniti modi che ci immaginiamo per rimanere in vita.

La scena dell’abuso non si vedrà mai, in nessun modo, neanche metaforico, trasfigurato, non verrà mai descritto, pronunciato in forma poetica o allegorica. La violenza sarà definita dal vuoto sotteso del non essere mostrata, del fermarsi sulle soglie di, dal suo perimetro. Ovidio tenta di raccontare per colmare un vuoto di memoria, un vuoto di narrazione, l’afasia davanti alla violenza, all’impronunciabile. Ovidio tenta di ricostruire i fatti a partire da quello che è sicuro non sia successo, in quel momento. Tante ipotesi di come sarebbe potuta andare la storia cambiando l’evento principale, quanti più modi possibili in cui riesce a immaginare si sarebbe potuta sviluppare la stessa scena. Ogni volta, davanti, al vuoto di memoria, davanti all’impronunciabile, inventa un nuovo sviluppo, un nuovo finale. Ogni volta, ricomincia da capo.

Ovidio, nell’ouverture, disegna lo spazio. Cerca di ricordarsi la temperatura della luce, l’assetto della stanza, fa entrare Eco e Narciso, ne guida i movimenti.
Ogni volta che si arriva alle soglie dell’evento, della violenza, il corpo di Eco si ribella, il suo livido si accende. L’immobilità granitica del mito la cui fine tragica è inevitabile viene sgretolato alle basi della narrazione.

Nel prevedibile svolgersi degli eventi, nel ripetersi di un copione già scritto si accende il verde del livido di Eco, che apre la strada all’interstizio del cambiamento.
La luce verde, inarrestabile, inarrivabile di una rivoluzione, di una trasformazione per guarire, del tendere verso per mettersi in movimento. Il corpo di Eco in rivolta apre lo spazio alla funzione lenitiva dell’immaginazione, per tentare con ogni versione possibile della storia di liberare Eco (e quindi Ovidio) dal ruolo immobile, passivo, della vittima. Da oggetto abusato, a soggetto narrante. Creatore.

Ripetere, in questo testo, è centrale per varie ragioni. Da una parte ripetere è il ricominciare ogni volta nel tentativo di riscrivere una storia, pur davanti a un fallimento della rappresentazione, di riappropriarsi del proprio corpo e di riscrivere gli ordinamenti gerarchici.

La narrazione di questa storia incarna un livello ulteriore oltre a quello degli accadimenti scenici. L’azione dell’abuso, nel senso di uso eccessivo o arbitrario di qualcosa, è la stessa dinamica alla base dello saccheggio delle risorse di cui la Terra dispone, la stessa dinamica alla base dello sfruttamento di forza lavoro umana per l’arricchimento degli abusanti, della repressione di persone marginalizzate per mantenere una posizione di potere, come scrive ne Il corpo del mondo Eve Ensler.

Eco è natura plurale, forza del logos che secondo Ovidio inganna Giunone raccontandole storie mentre le altre ninfe sue sorelle si uniscono a Giove. Per questo: “[…] di questa lingua che mi ha ingannato potrai disporre poco: farai della voce un uso più che breve. […] Solo quando uno finisce di parlare, Eco può emettere suoni e deve limitarsi a ripetere le parole udite”. Eco è convivenza ed entropia amorosa, inarrestabile, che si cerca di ingabbiare, senza voce, senza corpo. Eco è la minoranza sovversiva che viene repressa, nel suo affermarsi, nel suo nominarsi, nel suo narrarsi.

Narciso, dall’altro lato, è l’ego umano che schiaccia l’eco, in ogni sua molteplice forma.
Narciso, alla fine, distrugge se stesso, nella sua impossibilità di vedere e desiderare altro da sé.

Attraverso una struttura di ritornello, come impianto semantico analizzato da Deleuze e Guattari in Millepiani, si affronta lo spazio chiuso e il suo disfacimento, il suo “raggiungere le forze dell’avvenire” attraverso una risemantizzazione, una riterritorializzazione dei corpi e delle parole utilizzate per descriverli, disegnando la possibilità di ritrovare una pluralità d’essere, una molteplicità di sintassi per altrettante esistenze, per la possibilità di riappropriarsi del proprio corpo, della propria storia, di un altro modo di stare al mondo, di un presente che, forse, rimarrà il tentativo di arrivare a una liberazione passo dopo passo, storia dopo storia, ripetizione dopo ripetizione.

Siamo in un momento storico in cui, più che mai, la liberazione dei corpi e l’abbandono di un ego occidentale, patriarcale e antropocentrico si fa discorso intersezionale di resistenza. Parte del tentativo di tornare a una posizione corretta del vivere umano sta nel cercare di vedere il mondo non come un sistema gerarchico e binario di sfruttamento e abuso, di impositiva sopraffazione ma (citando Uexküll) “come una plurale sinfonia di infiniti viventi”, in cui ciascun punto di vista, vegetale, animale o umano che sia, acquista importanza paritaria così come lo acquistano diversi corpi all’interno della specie umana. Se già nel suo celeberrimo Manifesto Cyborg Donna Haraway propone il superamento dei dualismi che contraddistinguono la nostra cultura (uomo/donna, natura/cultura), nel suo nuovo libro Chthulucene, ci ricorda che tutto è interconnesso, tutto è contaminato, tutto ci riguarda. Non stiamo più cercando di capire cosa c’è di sbagliato o di giusto in un esistere, stiamo ritrovando quella collettività deviante e necessaria per un’azione consapevole nel mettere in discussione le categorie, le tradizioni reiterate, i miti calcificati e intoccabili, per poter trovare in un’eco molteplice e trasversale la risposta a un ego gerarchizzante, paralizzato e impaurito.


Eliana Rotella si diploma come autrice presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. I suoi testi vanno in scena con la sua compagnia “Corpora” in Italia (tra cui Piccolo Teatro, Teatro Kismet) e all’estero. È due volte finalista al Premio Tondelli Riccione e menzionata al Premio InediTo 2021 e al Premio Annoni 2022. Vince l’edizione 2023 di Biennale College teatro, drammaturgia under 40. Lavora come dramaturg per la danza e per la prosa, tra gli altri per Liv Ferracchiati. È tradotta in inglese, spagnolo, tedesco, francese e greco, collaborando con il Parlamento Europeo e con il Ministero degli Esteri.



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