Kurt Cobain. Un pezzo patetico

di Demetrio Paolin

Parto da una avvertenza: è un pezzo patetico, quindi se come me non amate i pezzi patetici, con l’evidente ossimoro tutto interno al mio animo, che ne sto scrivendo uno, potete lasciar perdere; se invece, per un motivo particolare, di piacere colpevole o altro, amate i pezzi patetici ecco, ve lo dico, questo fa per voi. Il pezzo dovrebbe/vorrebbe parlare di Kurt Cobain, se tutto va come è giusto che vada il pezzo uscirà il 5 aprile 2024, a trent’anni dal suicidio del cantante, nell’anno dei miei cinquant’anni tondi. Da dove parto? Parto che sono trent’anni che non suono la chitarra, ho smesso nel 1994, ho smesso a novembre di quell’anno, poi dopo vi racconto perché, ma non posso fare a meno di pensare che in realtà ho smesso di suonare la chitarra proprio nell’aprile 1994, quando il corpo di Cobain fu trovato morto nella sua casa. Avevo iniziato a suonare la chitarra da solo, da autodidatta, intorno ai diciassette anni, in parte per provare e rifare nella mia camera, tra i miei libri d’università, una macchina da scrivere Olivetti, quelle canzoni che mi piacevano. Fu un apprendimento faticoso, ma lentamente divenni sufficientemente bravo, compravo i libri con gli accordi, erano scritti in inglese, ci misi un poco a capire come funzionava, e cercavo di imparare le tab, per fare gli accordi etc etc, essendo autodidatta, mi vergognavo molto di fare gli assoli, spesso erano macchinosi, le mie dita lo erano, c’era gente che conoscevo e che studiava da anni, e io no, e quindi mi sono sempre accontentato di fare la seconda chitarra, quella ritmica. Un giorno, mentre giravo su vari canali musicali, mi sono imbattuto per la prima volta nei Nirvana, era la fine del 1991 o 1992, so che tutti state pensando a Smells Like Teen Spirit, ma invece no, fu Come as You Are, e rimasi colpito, era tutto molto semplice, molto facile, lontano dai virtuosismi che mi affaticavano e che non riuscivo a fare, cercavo con il mio inglese precario di imparare i testi e di capire, e il mio inglese precario mi comunicava qualcosa che io in qualche modo sentivo mio. Ovviamente comprai il disco.


La prima canzone che ho imparato a suonare dei Nirvana fu Something in the Way, che rimane una delle mie preferite (moltissimi anni dopo in Batman, un Batman poco memorabile per mille motivi, l’attacco della canzone, di quella canzone, mi commosse al punto di piangere). In quella canzone c’è un verso, per me memorabile, «It’s OK to eat fish ‘cause they don’t have any feelings», mi ritrovai a canticchiarlo un giorno, seduti, a tavola in cucina, nella casa della mia fidanzata di allora, che si chiama N e pure lei ora ha cinquant’anni, e credo che sia felice con dei figli. Allora di anni ne avevo venti, sì, stavo scrivendo credo, ma sarebbe stato un semplice gesto di condiscendenza alle regole della narrazione. Ci eravamo conosciuti a una partita di calcetto, io giocavo allora, ero molto magro, moltissimo più di ora, ero basso, brevilineo, con gambe muscolose, i capelli folti e neri, facevo l’università, avevo dato i primi tre esami, storia romana, ermeneutica filosofica, italiano e avevo preso tre 30, davanti a me c’era un avvenire stupendo, e nella palestra in cui ci vedemmo, mi ricordo che lei disse qualcosa a proposito del mio corpo, qualcosa di come fossi tutto sommato bello, mi colpì, io non mi credevo, né tanto meno mi credo ora, tutto sommato bello, e quindi risposi con la mia solita ironia e auto-denigrazione. Molto tempo dopo eravamo a casa sua e lei mi diceva una cosa semplice ovvero che non c’ero, non ero mai lì, io dicevo che c’ero e che ero lì, e lei diceva Anche adesso non sei qui, aveva ragione, allora non potevo dirglielo ora sì, quando parlavamo spesso la mia testa pensava a altro, si perdeva nelle sue malinconie, ubbie e ossessioni. Non mi fai entrare, disse, Dove?, dissi, C’è uno spazio da cui mi sento esclusa, Non ci entra nessuno, dissi, Perché?, disse, Perché sarebbe inutile, dissi, sarebbe inutile perché è uno spazio dove non ci sono sentimenti, sono come un pesce, continuai, nell’acqua non sento niente, io non ho sentimenti; volevo dirle che io non pensavo, ma semplicemente dicevo parole, che le parole erano i miei sentimenti; Non senti niente neppure per me, disse, È diverso, spiegai. Credo che quel giorno mi lasciò anche se non fu quel giorno preciso, perché quando morì Cobain eravamo insieme a Bergamo, non so il motivo esatto di andarcene a Bergamo, però eravamo lì, e mi ricordo ancora chiaramente che usciti dalla cattedrale, girata una via, mi venne da vomitare per la tristezza che provavo e mi girai in un angolo e vomitai saliva e bile e c’era lei che mi teneva la testa nel vicolo, da allora per molto tempo, per quasi tutto l’anno, ho vomitato a giorni alterni, senza dei veri motivi, che non fossero il vomito in sé. Kurt Cobain era morto, e io non me la passavo bene, c’era la letteratura però: il 1994 fu il primo anno che lessi Ulisse di Joyce, fu una cosa bella, invece di andare a lezione, prendevo il libro e mi sedevo davanti al Po ai murazzi e leggevo le avventure di Bloom e Stephen e Molly, ovviamente allora pensavo di essere Stephen, mentre leggevo il romanzo, Cobain era in parte vivo e poi dopo morto, poi era molto morto, e con lui era morto anche Senna, quindi era dopo l’1 maggio 1994, e io pensavo che la faccia di Cobain sarebbe stata bellissima per sempre, e che sarebbe stata perfetta per fare Stephen, l’orfano, il debole, l’intellettuale la cui intelligenza condanna a essere infelice, mi riconoscevo in lui, in Cobain, l’angoscia adolescenziale ha pagato bene, ora sono vecchio e annoiato, mi dicevo, mi diceva Cobain, e secondo me Stephen avrebbe capito e anzi avrebbe fatto sì sì con il capo; io stavo nel mio universo gelido, uno dei film che avevo amato di più era Un cuore in inverno, io ero così. N una volta mi disse, non era la volta del tavolo della cucina, eravamo in un parco, pioveva, lei aveva un ombrello, io stavo lì senza niente, mi disse che ero una galassia impenetrabile, e io non le dissi niente, solo che lei era diventata tutta pioggia, questo le dissi, ma lei appunto risposte che non era il punto e non era una risposta, io le volevo dire che ogni cosa che facevo si rompeva, ogni cosa che facevo si rompeva, tutto andava a rompersi, anzi io stesso mi rompevo, così infine una volta mi portò a sentire una lettura di Cent’anni di solitudine, mi disse che era il suo libro preferito, a me Márquez non ha mai fatto impazzire, se non per un libro di racconti, I 12 racconti raminghi, e in uno di questi c’è una immagine che io collego sempre a ciò che è stato il rapporto con N, una distesa di neve con qualche macchia di sangue, ognuno è libero, e può interpretare la metafora come crede meglio; ovviamene lo stronzo siderale che era in me, sempre pronto a distruggere tutto, come mi piaceva vedere i palchi e gli strumenti che venivano distrutti, e fatti a pezzi, mentre eravamo lì a questa lettura, in un battistero romanico bellissimo, accomodati su sedie da osteria, mentre lei sentiva il susseguirsi delle parole del suo scrittore preferito, io iniziai a dire epperò e ma e ma dai!, e tirai fuori l’Ulisse, fu un gesto brutto, convengo, ma ovviamente era finita, era finita prima, era finita dalla conversazione della tavola in casa sua, ma durò ancora un po’; poi un giorno, stavo guardando la televisione, mi telefonò e mi disse che era finita, e io le dissi che il giorno dopo c’era il compleanno di un nostro comune amico, Ci andiamo, disse, ma ognuno per sé, io dissi ok: arrivato alla festa la vidi e lei mi domandò come stavo e io le dissi che avevo il cuore rotto e un po’ di colla, e mi sentivo ‘dumb’, stupido, lei mi disse che avrei dovuto pensarci prima, e io dissi che il pensiero non era mai stato il mio forte, e lei mi presentò un ragazzo e mi disse Ti presento G e io dissi Ciao G, G fa il dj a questa festa, disse lei, io sentendo la musica che passavano le casse, dissi Bella musica di merda. L’estate passò così, io passai l’estate a imparare a memoria e a suonare Nervermind e In Utero. In Utero mi piace moltissimo, mi piacciono di In Utero alcune canzoni molto più di altre, mi piace Milk It, mi piace Radio Friendly Unit Shifter, Tourette’s, ma mi piace molto Dumb, che poi ho saputo essere la canzone preferita della figlia di Cobain, e All Apologies. Suonavo per me perché sì suonavo in un gruppo, ma facevamo musica italiana, i Nomadi, De Gregori, Guccini, Vecchioni, io amavo i Nomadi, anzi amavo la voce di Augusto, dopo che è morto lui è tutto diverso; una volta abbiamo fatto un concerto e N è venuta, e mi ha trovato accovacciato dietro una macchina in preda ai crampi allo stomaco che vomitavo, Stai bene?, disse, Sono una rockstar, risposi, da allora non ci parlammo per almeno dieci anni o più, fino al matrimonio di un amico comune.
Oggi se mi guardo indietro capisco di essere stato una persona patetica e non risolta, il che non vuol dire che oggi io non sia altrettanto patetico e non risolto, in un certo senso se dobbiamo attribuire un potere concreto al gesto di Cobain credo che sia di averci cristallizzato: le persone intorno ai cinquant’anni sono tutte assolutamente patetiche e non risolte, lo eravamo a venti e lo siamo a cinquanta, siamo goffe, fuori tempo, sbagliate quasi sempre, non siamo neppure capaci di rinunce, la rinuncia è un atto di volontà, la volontà è una cosa che abbiamo sempre trovato disgustosa, non degna, abbiamo sempre preferito smettere, smettere è diverso da rinunciare, e se non lo capite, ecco è perché voi siete o troppo vecchi o troppo giovani, ma se lo dico a uno di cinquant’anni, e lo prendo al pub, anche se non lo conosco e mi siedo e gli domando Quanti anni hai?, e lui fa Cinquantuno o quarantanove o quarantadue, e io allora gli dico Tu sai che rinunciare è diverso da smettere?, e lui mi guarda come dire Sei coglione a farmi una domanda così?, se invece lo dico a una persona di ventiquattro o trenta mi guarda come un cretino. Ecco, Cobain ci ha cristallizzato in questo sentimento di inadeguatezza, in questa vergogna, e in questa disperata forma di autoironia, che invece di farci dire Sto male, ho bisogno di aiuto, ci fa dire Sono un rockstar… Tutto è finito poi, ve lo dico, quando ho visto le acque lasciare il fango nel novembre 1994; l’alluvione: quell’evento ci ha distrutto, intanto distrusse la sala prove che stava all’altezza del Tanaro e ci portò via gli strumenti, ci distrusse perché vivemmo come separati isolati, come se quel fango non fosse uscito dalla piena dei fiumi, ma da noi stessi vomitato, cagato, sputato da dentro noi stessi, capire a vent’anni che non avevi futuro, o che il tuo futuro sarebbe stato arido, secco come il fango quando si secca, fu uno choc non indifferente, il fango portò via la mia chitarra e da allora non suono più, anzi ho smesso piano piano, oggi non riesco neanche più ad articolare le dita sulla tastiera, qualche volta riesco appena a fare l’intro di Come as You Are, ma mi vergogno e così tento con tutto il cuore di dimenticare ogni singola nota, di disimparare a suonare, e contrariamente alle altre cose ci sono riuscito, a dicembre di quell’anno, 1994, smisi anche di scrivere poesie, erano poesie brutte, mi ricordo che era una sera di dicembre, pensavo che niente aveva senso, e mi ricordo solo una camicia bianca di mio padre stesa fuori, che mi colpì il pensiero che con il freddo si sarebbe ghiacciata, e questo pensiero mi parve buffo, non degno di tragicità, non degno di un poeta, ma di una persona che avrebbe continuato a vivere, perché non aveva sentimenti.


Demetrio Paolin (1974) Vive e lavora a Torino. Ha pubblicato il romanzo Il mio nome è Legione (Transeuropa, 2009), i saggi Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana (Il Maestrale, 2008), Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria, 2014) e diversi studi critici su Primo Levi. Ha collaborato con il Corriere della Sera e il manifesto. Conforme alla gloria (Voland, 2016), il suo secondo romanzo, è stato tra i dodici finalisti del Premio Strega 2016. Tra le pubblicazioni più recenti, il romanzo Anatomia di un profeta (Voland, 2020) e Il bisogno e la necessità (Tetra, 2023). Attualmente, tra le altre cose, sta conducendo il gruppo di lettura sulla Trilogia di Samuel Beckett, i cui appunti di lettura sono disponibili sul sito di Lettera Zero – Nuova Serie.


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