Le Uova

di Giorgia Distefano

Avevo nove anni, probabilmente anche meno.
Santina stava procedendo a passi faticosi per il marciapiede in salita, avevamo entrambe il fiatone, io la seguivo. Era sempre questo lโ€™ordine: lei il leone, coi capelli folti e corvini che le esplodevano spettinati dalla testolina olivastra, io il topolino, nascosto dietro le zampe del predatore per non farsi sbranare.
Gradualmente, si fermรฒ. Appoggiandosi con la schiena al muro, gli strass lilla appiccicati alla giacchetta rosa strusciarono contro la superficie grezza; se ne staccรฒ qualcuno, succedeva sempre. Lei giocava per strada, i suoi vestiti erano puliti, ma occasionalmente sdruciti o consumati. La stampa plasticosa di una bambola sulla sua maglietta era priva di una mano scollatasi in lavatrice. Dove una volta vi erano dei grossi brillantini colorati, rimanevano soltanto delle minuscole tracce circolari di colla.
Il suo sguardo laconico era rivolto alla saracinesca arrugginita di fronte, sullโ€™altro lato della strada. Quella brutale e spigolosa tenda di metallo corroso non era completamente chiusa, restava una larga fessura oscura, da cui spirava un forte odore di benzina. Da lรฌ, credevo si sarebbe allungato un grosso mostro dalle dita appuntite e la bocca bavosa piena di denti, pronto a trascinarci dentro per mangiarci vive.
Invece vi entrรฒ dentro scivolando un grosso topo grigio e marrone, dalla coda viscida di verme.
ยซMariaยป mi chiamรฒ, asciugandosi i palmi sudati sui leggings verde fluo. ยซMa se io muoio, tu piangi?ยป

***

Entrai nel bagno in punta di piedi, attraverso vestiti spiegazzati e sporchi, che calpestavo, e flaconi vuoti disseminati sul pavimento, che scostavo con la punta delle pantofole. Indumenti e prodotti per il corpo erano semplici indicatori di una ragazza sbandata, disordinata, sciatta, non capace di curare la casa. Ma nel mio bagno, la particolaritร  erano i cartoni di uova sparsi ovunque: per terra, sulle mensole, ai bordi della vasca, sulla cassetta del cesso.
Un mese prima mโ€™era venuta la fissa del bagno insonorizzato. Avevo mangiato per due giorni frittate, toast francesi, uova sode. Pensavo che avrei pianto tuorli a un certo punto.
Stufa, iniziai a lanciarle dalla finestra. Ne ruppi un poโ€™ dentro la cassetta della posta del mio vicino, le regalai alla vecchia dirimpettaia con la fisionomia da struzzo. Si spaventรฒ quando mi vide, ero in condizioni pietose. Le vecchie sono oneste come i bambini. Mi disse che una volta ero piรน carina.
Dopo essermi sbarazzata di tutte le uova, iniziai ad assemblare i cartoni seduta per terra, con le gambe livide incrociate. Li mettevo insieme con il nastro adesivo, accarezzavo la loro superficie ruvida e compatta.
Chissร  se le uova urlavano, nel frigo, nella notte.
Quando cercai di appoggiare quel grosso mostro dalle cupole come ventose al muro, realizzai di non avere architettato nulla su come lo avrei fissato alle pareti. Serviva anche un pannello per il soffitto. Come lo avrei posizionato? Dovevo attaccare i cartoni uno alla volta? Salire su di una scala? Lasciai perdere. Mi misi a sedere sul pavimento del bagno, con quella distesa di cartone che tenevo tra le mani, poggiata su di me come una rigida coperta. Mi addormentai, con la testa su un paio di jeans arrotolati vicino la vasca.
Quello era il mio periodo delle uova. Cosรฌ lo chiamava Marco, ridacchiando con le mani in tasca. Mi stava aspettando, sentivo quel catorcio che aveva come auto persino da dentro il mio bagno, che insonorizzavo non coi cartoni delle uova, ma dissociandomi dalla realtร .
Mi guardai allo specchio, quel vestito blu cadeva sul mio corpo allo stesso modo in cui ci sarebbe caduto sopra un sacco di iuta. Avevo un aspetto terrificante, ma non potevo farci niente. La bruttezza mi aveva colta dallโ€™interno, permeava le mie ossa, mi lasciava le labbra secche e gli occhi infossati. Un filo di sterno trasparente sbucava fuori dal cappotto che pesava come la pelle di unโ€™altra donna sulle mie spalle. Mi sentii un poโ€™ meglio dopo essermi spiattellata in faccia del trucco, ma non sembravo altro che una donna brutta che cercava disperatamente di travestirsi da bella ragazza.
Il rossetto sul porco.
Entrai in auto, il buio illuminato solo dai lunghi fari caldi. Marco aveva il telefono in mano, stava scrivendo a chissร  quale ragazza gli fosse passata per la testa quel giorno. La sua preferita del momento era una donna piรน grande di lui di ventโ€™anni, coi capelli tinti di rame e gli occhi azzurri. Una volta ero io, la sua preferita. Ma una volta ero piรน carina.
ยซMetti la cintura, non cโ€™รจ mica lโ€™airbagยป. Lo diceva ogni volta. ยซSe sono ubriaco al ritorno guidi tu?ยป
ยซNon cโ€™รจ modo di ubriacarsiยป.
ยซVa bene, coccodรจยป.
Restรฒ in silenzio per i successivi venti minuti, ossia tutto il tragitto. Era insolito, ma non gli chiesi nulla, nรฉ riguardo il suo tacere, nรฉ per incitarlo a conversare. Dโ€™altronde, per avermi chiamata โ€œcoccodรจโ€, non doveva essere di umore particolarmente pessimo.
Nella mia mente vi era solo silenzio. Non mi era rimasto piรน nulla da dirmi.
Lo guardai per un secondo: lui doveva essere sereno in quella sua pelle, distesa sul corpo da bastardo. In quella sua faccia ringiovanita da stronzo.

Era irrealistico come compagno, a quella cena, ma non conoscevo nessun altro che potesse farlo. Non dovetti pregarlo. Mi sentivo miserabile, camminando accanto a lui. Una tristezza proporzionata alla sicurezza dei suoi passi si infondeva in me, nebulosa, in ogni mio arto, la percepivo nel sangue. Mi sentivo un corpo imbalsamato, senza organi. Pensai che se glielo avessi detto avrebbe iniziato a parlarmi di Deleuze e Guattari, quindi rimasi ben accorta a tenere la bocca chiusa.
Nessuno fece caso a noi, entrammo come ombre fugaci e malleabili, infilandoci tra gli altri invitati, alle spalle di una cerchia loquace di signori e signore di mezzโ€™etร  e di bellโ€™aspetto.
Marco fece dei commenti su quanto fosse scadente lo spumante.
ยซSembri la Madonna Addolorata, con questo vestitoยป parlรฒ squadrandomi. Sospirai. ยซHai un certo fascino post-apocalitticoยป aggiunse. Non era un complimento, ma nella sua voce nulla riusciva a identificarsi come un insulto. Sapeva scegliere finemente le parole, il che, a volte, me lo faceva volere bene piรน come una donna. Con quel dolce distacco e consapevolezza di una gentilezza rigida, inevitabile.
Seduti a un tavolo rettangolare con altre dieci persone, riuscimmo a non conversare per lโ€™intera durata del pasto. I commensali erano immersi in vivaci discussioni circa le loro conoscenze in comune. A guidare la conferenza erano due coniugi vestiti in stile minimal, ma i minuscoli ricami sui loro completi ti lasciavano sapere che quello non era soltanto un banale tailleur beige, o una giacca gessata e stirata alla perfezione, ma il dispiegarsi di un dettaglio specifico: erano ricchi da far venire il vomito.
Il cibo arrivรฒ, lo tagliavo e ne versavo un poโ€™ sul piatto di Marco. Non era necessario essere discreta, nessuno ci faceva caso, non avevano lโ€™attenzione nรฉ la voglia necessaria per guardarsi intorno. Tutta la loro realtร  non era altro che un avvolgente specchio che si trascinavano intorno assieme ai vestiti, il botox e il trapianto ai capelli.
Guardai attraverso due dei loro colli rugosi, per scorgere un tavolo in fondo alla sala.
Vaporosi capelli lisci, neri, pieni. Una pelle vellutata e abbronzata, affilati occhi verdi incastonati al viso, le labbra coperte dal rossetto perlato.
Santina. Era lei, senza alcun dubbio.
Indossava un abito scollato color amaranto, che su di lei vestiva con unโ€™eleganza senza eguali. Stentava a mangiare, sorrideva coi denti perfetti, allineati come una collana di perle. Accanto a lei, un uomo le cingeva le spalle sotto un larghissimo braccio. Rideva rumorosamente, e gli occhi gli scomparivano tra le guance paffute. Lei era una modella. Come non fosse vera, lucida come una statua, meravigliosa.

A sette anni dipingemmo insieme i gusci delle uova sode, per Pasqua. A sei anni, mi bisbigliรฒ di avvicinarmi a lei durante lโ€™ora di religione. Mi chiese se non trovassi strano credere in qualcosa che non possiamo vedere. Lei aveva sempre questi slanci crudeli, a cui io non sapevo rispondere. Non mi ponevo certe domande, non avevo abbastanza curiositร . Ero una bambina strana e poco disponibile alla vita reale.
La fede scivolรฒ via dal mio corpo con la stessa naturalezza con cui crescono i capelli. Nellโ€™adolescenza il pensiero della morte mi perseguitรฒ fino a renderlo il mio unico interesse. I sarcofagi, le casse da morto, i cimiteri, la tanatologia. Mi interessai a lungo al nostro comportamento allโ€™interno dei cimiteri, alla cultura dellโ€™attesa, alle signore che lโ€™uno e il due novembre si annotavano i nomi di chi veniva a visitare la tomba dei loro genitori morti a novantโ€™anni ciascuno. Come Santina, che si annotava sul diario rosa col lucchetto chi le faceva gli auguri in classe il giorno del suo compleanno.
Lโ€™Antico Egitto mi ossessionava per le sue pratiche mortuarie sin da quando io e Santina andavamo a scuola assieme. Chissร  se ricordava quella mia tendenza, o di quanto spesso pensassi a quel lungo uncino dallโ€™estremitร  a spirale. Come un cavatappi, liberava il cranio dal cervello. Immaginavo quel grosso aggeggio di bronzo con la materia cerebrale gocciolante tra tutte le sue sinuose curve. In alternativa, tiravano fuori lโ€™organo rugoso attraverso le cavitร  oculari. Meditavo su quale potesse essere la consistenza degli occhi di un cadavere, ci pensavo anche quando Santina si tirava giรน una palpebra inferiore e mi chiedeva di soffiarci dentro per far rimbalzare fuori le ciglia staccate e disperse. In alcune occasioni, i morti da mummificare venivano decapitati. La loro testa, dopo essere stata riempita di resina per tenerla rigida e consistente, veniva incastrata di nuovo tra le spalle come se fosse un piano di una torta da cerimonia: con un bastone conficcato nel mezzo.

Santina aveva la faccia da cattolica. Non vedevo chiaramente da quella distanza, ma sembrava indossare uno di quei braccialetti di legno, a riquadri e perle grosse, con sopra attaccate le immagini minuscole plastificate dei santi. Il suo fidanzato invece portava un grosso orologio abbacinante, degli anelli massicci. Persino la montatura dei suoi occhiali, neri e spessi, con dei medaglioni dorati incastonati alle aste, si abbinava a quella congerie di gioielli terrificanti.
In unโ€™agognata pausa, finalmente io e Marco sgusciammo via dal tavolo. Quando gli chiesi di alzarsi, mi rispose โ€œnatรผrlichโ€. Mi veniva una gran voglia di staccargli la testa e farci le uova strapazzate dentro, quando lo faceva. Gli afferrai un braccio e lo trascinai con me verso Santina, arrivando alla sua schiena scoperta. Marco mi lanciรฒ unโ€™occhiata perplessa.
ยซVorrei parlarleยป lo informai. Lui alzรฒ le spalle. Svincolandoci dalla calca di persone che si era accumulata e subito dopo diradata attorno a lei, la chiamai per nome a voce alta.
Si voltรฒ, i capelli morbidi fluttuarono da un lato allโ€™altro, la pelle elastica della sua schiena si piegรฒ, i suoi occhi mi punsero come lunghi aghi affilatissimi. Le sue labbra si schiusero dolcemente, rivelando gli incisivi candidi. Si portรฒ una ciocca vaporosa dietro lโ€™orecchio, e si liberรฒ in fretta di un capello rimasto incastrato sotto unโ€™unghia rettangolare smaltata di rosso. Frugรฒ nella borsetta, abbinata alle scarpe laccate. Mi sorrise ampiamente. Nella mano inutile che tentai di allungare verso di lei per richiamare la sua attenzione, infilรฒ un rigido cartoncino, spigoloso e lucidissimo.

Dott.ssa M. Santina Pia
Medico specializzato in psichiatria
Contatti:

Tempo di risollevare lo sguardo, era giร  tornata sui suoi elegantissimi passi incrociati.
ยซChi minchia erano quegli scoppiati?ยป chiese il suo amabile fidanzato, senza curarsi di non lasciarci sentire. Lei scosse la testa mostrandogli il labbro inferiore. โ€œNon ne ho ideaโ€, lessi il labiale.
Marco soffocรฒ una risata.
ยซNon mi ha riconosciutaยป dissi. ยซAvrei preferito non venire chiamata scoppiataยป.
Marco fece oscillare la testa. ยซUn poโ€™ scoppiata sei. Stra-pazza-taยป.
ยซMollamiยป.

La luna era bianca e gelatinosa come un albume appena cambia colore sul fuoco. Era una questione di chimica.
Il fidanzato di Santina agitava davanti al viso di un signore anziano le chiavi della sua Audi sportiva, stava parlando dei suoi nuovissimi pneumatici. Marco stava fumando, ma si gelava, sentivo che le gambe mi tremavano fino a rischiare di cadere.
Unโ€™improvvisa ondata di calore e rumore di utensili dโ€™acciaio mi attirรฒ verso le spesse pareti lisce del ristorante. Attraverso una rustica finestra sul muro dellโ€™edificio osservai il lavoro frenetico di cuochi e camerieri. Mi attaccai allo stipite con grande conforto, godendo del tepore, nonostante lโ€™odore fitto di gamberi e cozze mi disgustasse. Vidi un ragazzino, con guanti e grembiule, entrare dentro la cucina dando un calcio alla porta dโ€™ingresso. Teneva sulle braccia un cartone di almeno trentasei uova. Mi guardรฒ e mi sorrise, poggiandole sul ripiano in acciaio vicino a me. Borbottรฒ un timido saluto, per poi andarsene di corsa. Nessuno lo guardรฒ, erano tutti alienati nella loro umida e soffocante sopravvivenza.
Allungai un braccio allโ€™interno della stanza, afferrai un uovo con la punta delle dita, e mi allontanai. Lo mostrai a Marco, prima di avvolgerlo in un fazzoletto e infilarlo nella borsa.
ยซAveva ragione, quello lรฌ. Tu sei una scoppiata, e io peggio di te, che ti sto appressoยป.
ยซCe ne andiamo?ยป
ยซNeanche il tempo del dolce! Immagino tu debba andare a covare lโ€™uovoยป.
Mi prese per un braccio, e invisibili andammo via.
Nel parcheggio poco illuminato, riconobbi la grossa e lunga Audi di quellโ€™uomo. Era bianca, smagliante, posteggiata cosรฌ male da occupare uno spazio sufficiente ad almeno altre due auto.
Mi avvicinai, lasciando andare il gomito di Marco. Recuperai lโ€™uovo dalla mia borsa, aveva il guscio ocra, col timbro verde smeraldo. Lo urtai dolcemente due volte sullo specchietto per creparlo, poi infilai unโ€™unghia nella rottura. Rimanendo calma e concentrata, mi avvicinai al parabrezza, versando delicatamente lโ€™albume lungo i tergicristalli. Ero attenta a fare scorrere il tuorlo da un guscio allโ€™altro con dolcezza, senza fargli perdere la sua labile forma e compattezza. Versai quel piccolo ovale sul palmo della mia mano, per poi stringere la maniglia della porta del conducente, disintegrandolo in una viscida colata bionda.
Gettai i gusci dietro uno pneumatico. Con un ciottolo raccolto da terra, graffiai la fiancata.
Porsi la mia borsetta a Marco, con la mano pulita.
ยซMi prendi i fazzoletti imbevuti?ยป
ยซSai che se guardano i filmati di sicurezza sei morta?ยป
ยซFinalmenteยป.

Lei avrebbe pianto?


ยฉ Ilaria Pranzetti, 2020.

Giorgia Distefano, classe 2003, nata e cresciuta in provincia di Catania. Studentessa di Filosofia presso lโ€™Universitร  di Catania.


Ilaria Pranzetti (aka IAIA), nasce nel 1993 a Recanati, il โ€œborgo selvaggioโ€ delle Marche. Da sempre appassionata di Illustrazione e Grafica d’Arte, ha studiato Decorazione Pittorica allโ€™Istituto Statale d’Arte di Macerata, quindi all’Accademia di Belle Arti di Macerata, dove ha arricchito la sua formazione con lo studio della scultura, fotografia, pittura, legatoria. Parallelamente agli studi universitari si รจ avvicinata al mondo del tatuaggio, che per certi versi considera legato al mondo dellโ€™incisione: raccontare una storia tramite il segno e lโ€™inchiostro, tradurre o celare un messaggio, lasciare unโ€™impronta indelebile nella materia. Il suo segno: minimale e sintetico, in bianco e nero; figure surreali capaci di fare da specchio, diventare simbolo di qualcosa che abbiamo dentro ma che forse non siamo piรน capaci di definire e comunicare. Attualmente lavora come tatuatrice in alcuni studi tra Marche ed Emilia Romagna, ma lascia sempre spazio a progetti differenti che possano stimolare e ampliare la sua ricerca artistica.



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