a cura di Giuseppe Cappitta

“Il buio mi pose delle domande. Le figure delle carte non mi lasciarono in pace”. Chiusa a forza in uno stanzino, India si nutre degli arcani e rivive gli incontri con le persone per cui ha letto i tarocchi. A segregarla lì senza cibo né acqua è stato Leo, il suo compagno, il suo ‘grande amore’. Uscita finalmente da quella prigione, la giovane donna tenta di ritrovare se stessa in una famiglia complicata e in un nuovo legame sentimentale. Ma quando viene a sapere che Leo è volato giù dal loro vecchio appartamento al secondo piano, va da lui in ospedale e avvia un dialogo immaginario con quel carnefice che non si sveglia.
Con Chiedi se vive o se muore Gaia Giovagnoli entra a pieno titolo nel novero delle autrici la cui scrittura può dirsi matura a tal punto da essere riconoscibile, nello stile e nei temi; nell’immaginario da cui ha origine e trae ispirazione. Per realizzarlo, Gaia Giovagnoli e nottetempo hanno guardato al mondo che lei stessa abita e conosce, e che non smette di indagare: i tarocchi.
Ma Chiedi se vive o se muore è da intendersi un libro sui tarocchi nella misura in cui le carte e la loro specifica eppur mutevole simbologia si concretizzano nella realtà cruda e con essa interagiscono, divenendo dapprima strumento di analisi, poi di intervento. Emerge così uno sguardo antropologico unico, capace di muoversi attivamente sul confine tra mondo reale e pensiero magico.
Frutto di una conversazione telefonica con una donna rimasta anonima che ha raccontato la sua storia di violenza e solitudine (mai vista di persona né più sentita), Chiedi se vive o se muore narra di quelle identità costruite sull’idea del trauma, legate al dolore, al male cullato e nutrito. Di qui la violenza, le ferite procurate e quelle inevitabilmente riaperte. Preda del caos di una relazione ‘divorante’ giunta al culmine, India tenterà una fuga lenta e complessa nella quale passato, presente e futuro andranno intrecciandosi passo dopo passo: ecco la Forza, la lotta tra una donna e una fiera, tra ordine e caos: le mani ad afferrare le fauci, nel tentativo di rivendicare la propria libertà.

Gaia, Chiedi se vive o se muore è uscito il 25 agosto scorso. A distanza di mesi dalla pubblicazione, mi piacerebbe conoscere le tue sensazioni riguardo il romanzo.
Il libro sta piacendo, siamo andati in ristampa dopo pochissimo. Molte persone mi scrivono, dicendo che si sono ritrovate in questo o quel personaggio e, soprattutto, che anche loro hanno vissuto storie che pensavano fossero amori assoluti e che invece le hanno chiuse in uno stanzino. Non lo dico per vanto: mi stranisce quanto una storia che prima era solo nella mia testa possa diventare altro, appartenere ad altri. Parlare. Spero continui a farlo. È molto emozionante.
In esergo: Antony and the Jonhsons, Cut the World; Brenda Lozano, Streghe; Lisa Taddeo, Animale. Tre citazioni, tre spunti e chiavi di lettura differenti, la prima delle quali tratta da una canzone. Dunque, “tagliare il mondo”: con le lame dei tarocchi?
Tagliare il mondo con più lame: gli arcani maggiori dei tarocchi sono un bel modo di sezionare la propria esperienza, quella che teniamo alle spalle e quella che sta davanti e ancora deve arrivare. Non a caso India, la protagonista, è una cartomante e usa le carte come lanterne per illuminare varie parti della propria storia, così come alcuni episodi vissuti dalle persone a cui ha fatto le carte.
Ma esistono anche le altre lame, i coltelli, ciò che incide la pelle. C’è nel libro una lotta di potere, come in ogni storia d’amore. C’è della violenza.
La parola ‘lame’ è contenuta in ‘animale’. Trattasi di una curiosità di poco conto, se non fosse per gli interessanti punti di contatto con il romanzo di Lisa Taddeo, questioni controverse quali la rappresentazione del trauma, le dinamiche di potere uomo-donna, l’ossessione, il desiderio femminile. Hai già avuto modo di parlarne nelle scorse settimane, ma se vuoi puoi aggiungere ulteriori considerazioni a riguardo.
Con Animale (e con molti altri libri), Chiedi se vive o se muore condivide il fatto di avere al centro una donna piena di rabbia. Traspare nei toni, nelle varie realizzazioni che accompagnano la narrazione. Digrigna i denti, anche contro sé stessa.
Il suo corpo e la sua vita sono stati la tela sulla quale il compagno e altre figure prima di lui hanno sfogato desideri e violenze (personali, sociali) e lei, arrivata a rischiare la vita, è stanca. Ora che prende la parola si ritrova a indicare chi considera i carnefici, e non fa sconti a nessuno.
È un personaggio che non vuole davvero liberarsi di quel fuoco. Non vuole una catarsi, non del tutto. Culla la rabbia.
La donna nella nostra società deve essere una “good girl”, rispettare dettami e ruoli e toni per poter essere giusta. Degna. Attraente. Anche le volte in cui è rappresentata come triste (in vari media, non solo in letteratura), la femminilità standard viene rispettata, non ribaltata. Resta un oggetto desiderabile anche se col broncio. Quando si arrabbia, invece, la femminilità si strappa. Si sforma. Chi è donna e alza la voce viene considerata pazza, isterica. Esagerata. Capita che si faccia “tone policing”: che senso ha aggredire? Non è meglio discutere pacificamente?
Ciò che non si capisce è che la rabbia è un valore: deve essere tenuta viva. Serve a ricordarsi che si è state ferite. Certo dovrà poi incanalarsi, essere creativa, rivolgersi al di fuori di sé. Rendersi utile a costruire qualcosa.
Capita spesso che le persone che non hanno parole per dire il proprio disagio e che non maneggiano concetti come patriarcato, maschilismo, femminicidio, violenza strutturale (è un linguaggio elitario) rivolgano la rabbia verso sé stesse, la depoliticizzano, non facendo un discorso di liberazione ma di autoflagellazione. Si ammalano. Ciò che serve è indirizzare la rabbia, renderla propria, sì, ma non pensare che sia esclusiva, che riguardi solo il singolo. Ha mille e mille corpi e volti. Provengono da una storia secolare. Ricordarselo, può essere una buona base per procedere un discorso funzionale, attivo, politico.
Ho iniziato la lettura di Chiedi se vive o se muore la sera dell’acquisto. Ricordo il primo segnalibro capitatomi sottomano, piccolo omaggio dal sito e casa editrice di scacchi Le Due Torri (e sì, mi sono chiesto se esista un legame tra il pezzo e la carta: sembra di no). Ma per quanto sia una coincidenza per certi aspetti affascinante, il punto è un altro: Capitolo tre, La Torre (se ho fatto bene i conti, il mio arcano di nascita). Questa che si scoprirà essere tra le preferite di India è «la carta delle rivoluzioni», che d’un tratto, nel bene e nel male, «porta grossi sconvolgimenti»; qui vi è anche il riferimento alla punizione, a una vendetta «che purifica».
La carta della Torre è un arcano molto spesso associato a cose negative: litigi, disastri improvvisi, perdite di lavoro e soldi. Parla di allontanamenti da persone, anche persone care, amate. È poi una carta molto biblica: rappresenta la caduta della torre di Babele, con la punizione del fulmine divino che pone fine alla tracotanza dell’essere umano che pensa di poter toccare il cielo e farla franca.
Ma sappi che è una bella carta di nascita, almeno per come la interpreto io: è una guida molto severa, la Torre, perché toglie di mezzo dalla propria vita tutto ciò che non è davvero solido, e richiede di fare spazio perché qualcosa di diverso, più stabile, possa invece sorgere. Vero è che è anche una carta di tensione, di burrasca. Chi è guidato da questa carta rischia di voler far tremare sempre ogni superficie per testare la resistenza di cosa ci ha costruito sopra, e rischia di farlo anche con i rapporti umani.
C’è un costante test. E a non tutti piacciono i test.
Per India è una carta fondamentale. È parte del suo passato, perché parla di una vita che pensava solida e che invece si è sgretolata. Una figura è uscita di colpo dalla sua vita. Inoltre, la persona che amava si è lanciata giù da un’altezza. La sua esistenza è raffigurata appieno nella Torre: sia simbolicamente che figurativamente.
È vera anche la questione della vendetta che purifica. India si rende conto della necessità della Torre, quando parla. E si rende conto che lei stessa è il fulmine e le fiamme, in quella carta. Ha contribuito a far franare un edificio che l’aveva protetta, ma che era diventato asfissiante. Che mirava al cielo ma la staccava da tutto il resto.

Nel capitolo dedicato alla carta del Diavolo emerge il tema del malocchio. Il procedimento del piatto pieno d’acqua sospeso sulla testa è identico a quello praticato da mia nonna quando soffrivo di mal di testa. Era lei il mio rimedio contro il dolore. Andavo a trovarla, le dicevo che avevo mal di testa, lei mi diceva di sedermi e procedeva con il suo rito. Tuttora non saprei dire se nel piatto versasse le gocce d’olio di cui scrivi, né cosa pispigliasse alle mie spalle, non le ho mai chiesto nulla a riguardo: presumo di aver sempre preferito restare all’oscuro dei dettagli; di mettermi nelle sue mani, dolorante e inconsapevole, e lasciare che lei facesse il necessario per guarirmi. Non ricordo se prima o se dopo il piatto, mi sfiorava la testa e la fronte con rapidi tocchi in punti specifici (tracciava le linee di una o più croci?). E incredibilmente – o perlomeno questo è ciò che ho sempre pensato: che fosse incredibile – il mal di testa passava. Tornavo a casa rigenerato. In paese, mia nonna era molto conosciuta per le sue pratiche: metteva al sicuro la casa e allontanava i temporali; per ogni cosa che richiedesse il suo intervento aveva una preghiera o una cantilena recitata pispigliando in siciliano. Che io sappia, in paese oggi non c’è anima viva che possa dirsi depositaria delle sue pratiche. Lei aveva imparato da una donna che aveva imparato da un’altra donna e così via, e non saprei dire se qualcuna delle persone a lei vicine sia riuscita ad apprendere ciò che io non ho mai avuto il coraggio di domandare. Temo, in verità, che a mancare sia stato l’interesse (da bambino avevo ben altre cose in mente), poi il tempo: oh, che peccato non aver documentato alcunché; soprattutto, non essermi speso abbastanza per preservarne la memoria…
Raccontaci di te, del tuo rapporto con la magia e i riti apotropaici, con le preghiere e gli scongiuri.
Il taglio del malocchio con il piatto pieno d’acqua e l’olio benedetto è una pratica molto diffusa in Italia, in varie regioni. Si fanno gesti e si dicono preghiere, si tracciano piccole croci (spesso ci sono variazioni sugli scongiuri e su come tagliare l’olio, se con il dito o delle forbici), e il male si allevia o scompare – può essere fisico, mentale, sociale. Ancora ci sono donne molto anziane che lo fanno. Non tutto è perduto.
Il mio rapporto con la magia è molto personale. Ho ritualità mie che mi fanno sentire potente, capace, attiva nei confronti della vita; che mi aiutano a mettere al sicuro le persone a cui tengo. Mi fanno stare bene.
C’è qualcosa in questi riti di davvero magico, di liberatorio, per me: nei movimenti associati alla volontà e all’intenzione, negli oggetti, nelle parole, nei simboli che vanno oltre la nostra storia personale.
La prima pratica di divinazione l’ho fatta che ero una bambina. Sarò stata in quarta elementare. Era un piccolo rito di famiglia che veniva tramandato, e che serve a capire chi sposerai. Feci come insegnato dei nodi a un fazzoletto, in una notte di luna piena, recitando delle parole in rima. Piena di speranza ed emozione, riposi il fazzoletto sotto il cuscino e… non sognai nulla. Direi piuttosto rivelatorio!
Anche i tarocchi li ho conosciuti sin da piccola. Sono molto grata alla mia famiglia per non aver mai reso del tutto tabù certe cose. Si è sempre parlato di futuro, fantasmi, sogni rivelatori. Certo, un po’ sottovoce, un po’ credendoci e un po’ no, ma tant’è.
Le donne di famiglia a volte consultavano una medium che utilizzava anche i tarocchi per aiutarsi a veicolare i messaggi. Non ho mai assistito alle letture, ma origliavo i racconti di cosa avesse loro rivelato. E mi immaginavo ogni dettaglio in modo molto fiabesco: loro in una stanza piena di scintillii, di strane apparizioni. Mi affascinava tanto. Provavo paura e attrazione insieme, e questa sensazione mi è rimasta. È il mio motore narrativo.



«Le loro ombre si gonfiarono, mentre parlavano. Arrivarono fino al soffitto». Ho pensato ai cartoni animati, o al cinema espressionista tedesco. Scrivere vuol dire attingere continuamente all’immaginario costruitosi, spesso a nostra insaputa, sin dall’infanzia.
India assiste spiando dalla finestra alla lettura di carte della nonna e di un’anziana signora. Quando le vede maneggiare i tarocchi è ancora una bambina. Il passaggio che citi è tratto da questo episodio. E sicuramente, anche ricordando l’episodio in questione, il suo immaginario rimanda a qualche scena da cartone animato. Forse pensa alla strega di Biancaneve, quando si trasforma in vecchia? Anche là vediamo la sua ombra che si gonfia contro la parete.
C’è una sorta di espediente narrativo interessante tramite cui India racconta qualcosa per poi smentirsi, ammettendo infine che quanto appena narrato non corrisponde al vero. Dico ‘espediente’ poiché ti permette di raccontare eventi differenti con pari intensità, generando nel lettore un senso di straniamento legato al dubbio nei confronti dell’Io narrante, ma in realtà appare a tutti gli effetti come un processo, un meccanismo della mente di India. Capita più di una volta, perciò dapprima ricordo di essermi chiesto cosa ci dicesse di India (e secondariamente cosa dicesse di te in quanto autrice); più avanti, però, si scoprirà che la carta natale di India è il Bagatto (a simboleggiare l’inganno, l’astuzia, l’impulso). È molto stimolante trovare la spiegazione o la conferma di qualcosa a distanza di circa cento pagine, poiché testimonia – data una coerenza narrativa impeccabile – il raffinato lavoro di richiami tra il detto, il non detto e il detto in un preciso momento della storia: prende forma così, un tassello dopo l’altro, il mosaico (necessariamente incompleto) di India.
Tutto il libro è il tentativo di India di combattere contro la fiera che è ed è stata la sua vita: e nel farlo ricostruisce, segue fili, ricordi, percezioni – sue, o di altre persone. A volte rilegge episodi e, nel rileggerli, li riscrive. Li inventa. La seguiamo in questo percorso. Ritratta, riformula il suo ruolo, le figure, i discorsi. Dice che fa parte della schiera delle bugiarde, e per lei è uno strano vanto. Lo fa perché quando la vita risulta piena di caos, di cose che sono sfuggite al controllo, raccontare lo stesso episodio con occhi diversi è qualcosa di molto funzionale. India si narra spesso come la cattiva della storia, ad esempio. Così facendo, lei stessa si toglie dal ruolo di vittima o di ingenua, e partecipa alla sua stessa storia. E cambia non solo nel presente, ma anche nel passato. Un miracolo. Riesce a intervenire, in un certo senso, su cose che non può davvero cambiare. Ha un’arma in più che le permette poi di camminare diversamente anche verso quello che ancora non è stato scritto.

© Daniele Castellano, La Forza (coloralt). Primo tentativo di finalizzazione.
«Il fascino è un mezzo potentissimo. Condiziona la lettura. Il fascino persuade; è grazie al fascino che il cartomante è così efficace» (capitolo Il Papa). “Fascino” deriva dal latino fascinus o fascinum, ‘malia’, ma anche ‘amuleto fallico’ – per cui con malia s’intende il maleficio, laddove l’amuleto rappresenta l’oggetto che lo scongiura –, dal greco báskanos, ‘iettatore, ammaliatore’, a sua volta da básko, ‘maledico’. Questo per dire che in principio il termine fascino indicava una stregoneria malefica: affascinare significava fare il malocchio. Oggi è inteso in ben altro modo, a indicare un potere di seduzione, un’attrazione sì relativa a un influsso quasi magico ma con accezione positiva. Tuttavia c’è chi ne è suggestionato a tal punto da rifuggirlo, ed è forse per un simile misto di attrazione e repulsione che certe persone rifuggono i tarocchi. Cosa le spaventa?
Ti dico la mia: io vedo i tarocchi e sento che sotto/dietro/dentro c’è un mondo infinito, un mondo altro che riesco a spiegarmi soltanto fino a un certo punto; vedo il/la cartomante e provo sensazioni ambigue. Sono trascorsi più di quindici anni dall’ultima volta che mi hanno fatto le carte…
A volte alle persone le carte fanno paura anche per motivi molto terreni: ci sono tanti imbroglioni in giro, che approfittano della buonafede delle persone. Abbiamo visto centinaia e centinaia di casi di truffe. Quando si dà a qualcuno che non si conosce accesso alle proprie fragilità e alle proprie paure, automaticamente scatta un sistema di allarme. Starò facendo bene? Cosa farà con queste informazioni? È giusto così. Molti truffatori fanno delle letture di carte predicendo disastri, morti, e la persona sarà spinta a provare a deviare quella rovina. Lì subentrano altri mezzi – sacchetti di sale, magie fatte a distanza. Un sacco di soldi richiesti, e guarda caso il male è sempre troppo difficile da estirpare. Serve quel lavoro in più, quell’ulteriore bonifico. Molti sono scottati da un certo immaginario, e temono i tarocchi anche perché sono ammantati di malafede. Siamo spinti a proteggere le nostre fragilità. Da noi, inoltre, ci sono tante dicerie. Le carte portano sfortuna. Sono peccato. Non bisognerebbe guardare, chiedere, ma affidarsi alla vita e basta.
Infine le carte inquietano perché è vero: c’è un qualcosa che non si capisce nel loro funzionamento. Anche io dopo tanti anni lo posso dire. Posso analizzare il perché sedersi attorno a un tavolo e parlare della vita di qualcuno sia così efficace. Spiegarmi i meccanismi interni allo storytelling e quelli legati alla co-creazione di un discorso. Ma resiste un mistero dietro a quelle figure, e a come si legano le une alle altre mentre si fa una lettura. C’è una strana voce che parla al posto di quella del cartomante, e che non si capisce di chi sia. Ma dice la verità.
Credo che il mistero dei tarocchi sia necessario che non si esaurisca mai. Per me razionalizzare le carte è un vero peccato. Ben venga averne timore e rispetto: che siano numinose fa parte della loro forza. È ciò che rende questo mezzo così diverso da altri modi di fare luce sulla vita di qualcuno.
Il tuo rapporto con lo spiritismo? Anzi riformulo: il tuo rapporto con l’aldilà?
Preferirei non rispondere perché troppo personale.
Capisco.
Proverò a restare in tema. Una falena che strilla, la ‘testa di morto’. L’episodio dell’uccisione della falena è interessante e perturbante: anzitutto emerge l’empatia di India per l’insetto morente (sull’empatia scrivi: «Non esiste cosa più potente. Non esiste fatto più insopportabile»); in secondo luogo, non si può ignorare la portata simbolica delle falene, insetti di volta in volta associati al cambiamento, alla trasformazione, al viaggio interiore, alla ricerca dell’illuminazione, alla verità invisibile, all’anima (da bambino, quando vedevo una falena, mi si diceva che quella era l’anima di una persona defunta). Aggiungo di aver letto in una recensione un commento inerente l’importanza della scena in relazione alla tua scrittura, alla tua impronta. Nicola Cosentino: “Che si nasca falena o scrittrice a fare la differenza, a permettere di essere ricordate, è la voce, e quella la tiri fuori solo quando soffri davvero. Può sembrare debolezza, ma è l’unica vera forza” [recensione Chiedi se vive o se muore, La Lettura – Corriere della Sera, 3/09/2023].
Ricordo di essermi chiesto cosa pensassi tu di un simile commento, sì bello e può darsi anche vero, ma che di fatto riconduce il manifestarsi della tua voce – in quanto scrittrice – a una sofferenza esperita “davvero”. È così? Alla base della tua scrittura, di ciò che hai scritto e del modo in cui lo hai scritto, c’è la sofferenza?
Credo che chiunque scriva mosso da qualcosa che sanguina. Di cui spesso forse nemmeno è così cosciente. A me piace l’idea che, al di là di osservazioni relative alla tecnica e al lavoro che è la scrittura, si faccia riferimento anche a quello che la muove. Che sia un dolore o altro. Sembra di far peccato a dire che siamo esseri umani, e che scrivere è anche un modo per far fluire parte della nostra umanità. Non è svilente per me, anzi. È bello che i libri vengano fuori da qualcosa di profondo. Non riuscirei a buttare giù una frase, se fosse solo un misurarsi con gli strumenti, con l’abilità di creare una struttura o con quella di azzeccare la limatura perfetta. Che poi a parlare sotto il testo sia la mia sofferenza, solo mia, non lo so. C’è comunque qualcosa che urge dire e che ha bisogno di vestirsi di una trama e di personaggi per poter parlare. Ma non penso sia solo qualcosa che attinge dalla mia storia. Non ho una vita diversa da quella di moltissimi altri. Penso che siamo sezione di realtà molto più grandi di noi – una famiglia, una città, un quartiere, uno Stato, una generazione – e che certi mali vivano a prescindere. Li abbiamo sottopelle, come dei parassiti. Li sentiamo forti e chiari e hanno bisogno di essere rivelati.
A proposito di dolore, ma in un certo senso anche di struttura, penso ad alcuni spunti inerenti il capitolo L’Appeso, carta dodici. A me pare che il capitolo abbia un’importanza per molti aspetti decisiva, non del tutto immediata, e che questa non sia legata alla simbologia dell’Appeso in sé, bensì al ribaltamento narrativo che rappresenta: senza voler svelare troppo, possiamo notare come da qui in poi Leo si palesi in tutta la sua debolezza; c’è la stanchezza, la depressione, il dolore (cui associ: uno specchio deformato, una cintura, una lama, una corda sospesa, un veleno, un salto di sotto, un cuscino…). Ed è qui, o così sembra, che risiede il germe della vicenda, del rapporto tra Leo e India, «la custode del suo dolore», ciò che lo teneva in vita.
Ogni carta nel libro è importante, per un motivo o per un altro, e anche l’Appeso ha un suo valore. Non ha un ruolo maggiore o minore, insomma.
Per quanto riguarda il capitolo, come hai giustamente individuato, noi qua possiamo vedere in un certo senso il rovescio di Leo. India prova spesso a narrarci Leo come una persona dai tratti molto netti: è autoritario, le ha fatto del male, lei si è sacrificata per lui che non l’ha mai davvero tutelata. A poco a poco però vediamo che Leo non è il cattivo delle fiabe – un cartonato piatto – ma una persona. Parte del perché si sono legati così tanto l’uno all’altra si deve al fatto che hanno dolori simmetrici. Capiscono profondamente cosa prova l’altro. Provano a riempire a vicenda i loro vuoti traumatici, e nel farlo non si accorgono che in un certo senso li stanno nutrendo, stanno impedendo loro di rimarginarsi. Hanno ottenuto una sensazione di comfort in questo farsi del bene, che è un farsi del male. Lei ha alle spalle l’idea delle botte come unica forma di contatto con la madre; lui ha un padre suicida.
Entrambi si aggrappano a questi tratti della loro storia, e fanno in modo di non lasciarli mai sfumare, anche a costo di provare costantemente dolore, di richiedere amore a dei fantasmi impassibili. A costo di fallire sempre. Portano questi traumi nella loro relazione e li rendono un linguaggio solo loro, prezioso. Leo è invitato a fare del male a India, perché così può sfogarsi anche di quel padre che l’ha abbandonato; India prova piacere nell’accogliere quel dolore, perché si sente utile, santa, martire. Si sente la sola tutrice, la sola custode della verità di Leo, e l’unica in grado di comprenderlo e di potergli fare del bene.

© Daniele Castellano, La Forza [rough sketches]. Primi bozzetti di studio della figura.
Parliamo della struttura del romanzo. Ciascuno dei ventidue capitoli è associato alla figura di un Arcano Maggiore, dunque alla sua simbologia. Tale associazione supera brillantemente il pericolo di cadere nella banalizzazione di un riferimento sterile poiché fine a sé stesso, divenendo invece il motore e insieme l’architettura della storia. Ma l’ordine delle carte è sparso: l’impressione è che la sequenza sia il risultato della successione degli eventi della storia, ma la storia stessa, dal canto suo, procede a balzi tra il presente e un passato ora recente ora distante, tanto da far pensare che sia il montaggio della storia a seguire un ordine predeterminato delle carte.
Insomma, la parola chiave è ‘montaggio’: come hai lavorato? Come sei giunta alla sequenza definitiva dei capitoli?
Quando penso a questo libro, quello che mi viene in mente è un nodo di tempi, di simboli, di figure. Passato, presente e futuro. Arcani e persone. Tutto mi sembra intrecciato, ogni singola scena parla anche delle altre e del libro nel complesso.
Seguire tutti i fili, nonostante queste premesse di caos, per me è stato abbastanza naturale. Non ho rimontato praticamente nulla: i capitoli sono nati in successione. Ho assecondato la ricerca di India e la sua caccia. Cercava delle ragioni al suo dolore e a quell’amore. Cercava il perché soprattutto di sé stessa. E si è mossa tra i ricordi dello stanzino, gli episodi con i clienti, il suo passato e la relazione con Leo. Ha voluto vedere una trama, un destino che pensava scritto per lei e, così facendo, si è mossa verso il futuro.
Come in Cos’hai nel sangue, in Chiedi se vive o se muore è centrale il rapporto tra madre e figlia in termini di relazione disfunzionale. Nel tuo romanzo d’esordio il riferimento era relativo alle maledizioni famigliari, ovvero al fatto che ogni persona non può che dipendere dal contesto entro cui nasce e cresce. La Caterina di Cos’hai nel sangue attribuiva alla madre alcuni dei suoi traumi. Lo stesso dicasi per India: «Scegliemmo i genitori sbagliati» dice a Leo che non può risponderle, «[…] Se ci chiedono di noi, finiamo a parlare di loro». È un tema a te molto caro, da cui deriva anche una riflessione sulla maternità e di conseguenza su un aspetto al quale fai esplicito riferimento: la sterilità volontaria come forma di assoluzione.

Nei miei romanzi mi sono confrontata con il tema della genitorialità. Ed è emerso più o meno volontariamente. Credo sia una di quelle ferite che dicevamo: si allaccia a un vissuto personale, ma è un cruccio pure generazionale. Mi ritrovo a provare sentimenti estremi, doppi, sull’idea di fare figli, e questo mi porta a riflettere molto su tutto ciò che a questo concetto è connesso. Sui ruoli.
Dico spesso anche durante le presentazioni che sono ossessionata dall’idea delle maledizioni famigliari. Che non sono degli anatemi lanciati da una strega cattiva, che condannano generazioni a venire a sorti orribili, ma il fatto che, volendolo o meno, cresciamo all’ombra di modelli (genitoriali, sociali) che ci precedono. Quei modelli possono anche non essere funzionali. Possiamo ereditarli e portarceli addosso, possono farci ammalare se non vengono riconosciuti e trattati. Possiamo passarli a chi generiamo, condannandolo a una sorte simile alla nostra. In Come dividere una pesca di Noor Naga, uno dei personaggi del libro racconta che liberarono da una malìa la cugina, la quale sputò un pezzo di frutta ingoiato anni prima. Le maledizioni si nascondono in pezzi antichi di cibo. È una bella metafora.
A volte le persone trovano comfort in luoghi perturbanti e violenti, perché è stato solo nella violenza che hanno avuto contatti con persone che amavano. India ama sua madre ma il contatto più vero, l’attenzione effettiva, l’ha avuta solo quando la picchiava. Non si accorge che esiste un altro tipo di affetto che non implichi accettare il male dell’altro; fa fatica a vederlo. India però, in Chiedi se vive o se muore, si misura anche con questo concetto di colpa da dare ai genitori. Con questa eredità di sangue e di trauma. Non perché non ci sia; sarebbe ingiusto non dare responsabilità a chi le ha. Si rende però conto che aggrapparsi così a una maledizione non la rompe, ma la nutre. È stata una figlia amata male; ok. Ma può essere tanto altro. È possibile vivere con dignità anche se si è stati amati male, o non amati affatto. Non si deve per forza portare avanti la profezia.
Hai accennato a una strega cattiva… Penso al tuo poemetto Babajaga, appena uscito per Industria & Letteratura, con il quale torni alla poesia a distanza di cinque anni da Teratophobia. Tra questi, due romanzi nei quali, in modi e circostanze diffferenti, emergono il tuo immaginario e le tue suggestioni forse più profonde e radicate. Il tuo nickname è ‘babagaja’. Baba Jaga: ti affascina, ti ispira, le sei affezionata?
Baba Jaga è una specie di nume tutelare per me. Adoro il fatto che sia vecchia, fuori dal ciclo riproduttivo femminile, potente e ambigua. È cattiva e saggia allo stesso tempo. È legata ai morti, come un’entità psicopompa. Vive nella foresta, un luogo di iniziazione e di altrove. Lei stessa è una figura iniziatica: una volta incrociata, cambia la natura di chi la incontra. È una figura doppia, complessa: rapitrice e mangiatrice di bambini, aiutante, guerriera contro cui l’eroe combatte.
È probabile unione di più dee, ed è la signora degli animali, nonché dell’ordine delle madri-vergini, delle nutrici, delle tessitrici. Alcuni la legano ad Ecate, la signora dei crocicchi. Come può non affascinarmi? È un’entità viva, un simbolo che continua a parlare.
Nel mio libro di poesie ho voluto renderle omaggio. In Babajaga, la protagonista è sia la strega delle fiabe slave, sia una donna reale che si ritrova ad affrontare un lutto. Emergono entrambe le sue nature nei testi, prima in maniera separata e poi via via si fanno sempre più fuse, inscindibili.

Per concludere: il passato, il presente, il futuro. L’intreccio temporale sembra uno dei punti focali della tua scrittura. La tua è una sorta di poetica, di filosofia del tempo, non il tempo misurato, né quello percepito, ma esperito. Nel capitolo La Stella scrivi: «(I tarocchi) parlano di ieri e oggi e domani perché sono la stessa cosa». Facciamo un balzo fino al principio, alla citazione in esergo tratta da Streghe: in riferimento al futuro che passeggia nel presente e al passato che pure passeggia lì accanto, cosa c’è del tuo passato di scrittrice e cosa del tuo futuro in Chiedi se vive o se muore?
Del mio passato c’è l’attenzione ai suoni. L’ho ereditata dalla poesia, e non me ne sono mai liberata.
Del mio futuro c’è il tema del perturbante. Non posso ancora fare spoiler, però.
L’intervista a Gaia Giovagnoli è apparsa in anteprima su L’Appeso Numero 3 (25 gennaio 2024), con le fotografie di Gaia Giovagnoli e gli sketch inediti di Daniele Castellano realizzati per la copertina di Chiedi se vive o se muore.


Gaia Giovagnoli (Rimini, 1992). Scrittrice e cartomante. È laureata in Lettere moderne e in Antropologia culturale all’Università di Bologna. Ha scritto alcuni libri di poesia, tra cui Teratophobia (‘Round Midnight, 2018) e Babajaga (Industria & Letteratura, 2023). Nel 2022 nottetempo ha pubblicato il suo primo romanzo, Cos’hai nel sangue (vincitore del Premio Arfelli, finalista al Premio Fahrenheit Radio3, al Premio Berto e al Premio POP), e nel 2023 Chiedi se vive o se muore.
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