Il mandorlo

Il mandorlo di cent’anni ha cent’anni già da qualche anno. Si erge fino a quattro metri, ha perso vigore ed è un po’ rinsecchito. Il tronco scuro, sbilenco, cavo, è dimora per formiche che trafficano in ingresso e in uscita. Il fogliame è rado e macchie di licheni screziano in più punti la corteccia, come tatuaggi sulla pelle rugosa di un anziano.
La linfa, tuttavia, scorre ancora al suo interno e l’albero ha gettato un ramo nuovo dal legno elastico, fiero, grigiastro, con una superficie liscia e densa: sembra un innesto posticcio, un trapianto terapeutico architettato dall’uomo, invece svela la cronaca di una resilienza pura.
Il mandorlo sta tra un fico e un ulivo e, quando lo vedo, non posso non sorridergli come si fa a un amico che è porto sicuro. Spesso cerco il contatto del suo legno, manifestando un codice che invoca fortuna. Per qualche istante metto le mie cellule sulle sue, allaccio le braccia al tronco. Mi trasmette qualcosa che non intendo appieno, come non intendo se lui ne ricavi qualcosa.
Immobile eppure in continua evoluzione, questo albero ha vissuto più di due volte il mio tempo; significa il doppio delle esperienze, il doppio delle gioie, il doppio dei dolori, il doppio del mio niente. È lì da prima che il fico e l’ulivo nascessero, inerte sotto un cielo di acqua o di fuoco, alla mercé del vento che preme da nord-est, avvolto nel chiarore della luna o, più spesso, in una coperta di tenebre.
Il mandorlo di cent’anni, in primavera, regala un’insperata profusione di fiori, bianchissimi, profumati: nettare per impollinatori, rifugio per occhi spenti, carezza per l’olfatto. Soffio un grazie a fiori delicati che piangeranno petali per consolidarsi in frutti dal mallo verde, ipertrofico e setoso. Nutro un’ammirazione totale per la brillante mutazione che avviluppa una pelle vegetale, carnosa, a uno scrigno legnoso, inespugnabile a mani nude, capace di proteggere il prezioso seme da molteplici predazioni.
Medito sulla raccolta settembrina delle mandorle. Con la scala raggiungerò i rami alti, ammasserò e custodirò i frutti insieme a scorci del passato in cui era mio padre la scala che mi consentiva la rampicata per la raccolta. Al cospetto del mandorlo di cent’anni, forse, intenderò appieno ciò che mi è stato trasmesso.


© Chiara Arcadi, 2024.

Carlo Rossi è incostante e irrequieto, ma ha pazientemente scritto testi pubblicati su «Offline», «Neutopia», «Rivista Blam», «Smezziamo», «Formicaleone», «Enne2», «Rivista Piegami», «Articoli Liberi». Ha usato uno pseudonimo per il suo racconto più lungo selezionato da una nota rivista cartacea. Accreditato quale fotografo, ha seguito svariati concerti lì sotto palco. Ha vinto un premio fotografico internazionale, ma non vuole proprio dire quale.


Chiara Arcadi, pugliese, da sempre l’arte ha un posto importante nella sua vita. Appassionatasi al violino, poi alla fotografia, al braille e alla lingua dei segni, ha un diploma come educatore e assistente alla comunicazione LIS. L’illustrazione è ora il fulcro delle sue giornate. Esplode tardivamente questa necessità di disegnare, di restare in silenzio e nutrirsi di bellezza e colori, lasciando fiorire entusiasmo, spirito positivo e buone vibrazioni.



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