Requiem – Dei morti e della libertà

«Nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio. […] Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre. […] A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: Che ti portarono quest’anno i morti?».

Andrea Camilleri scrive di tradizioni perdute a cominciare dal 1943, ottant’anni fa, quando «con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli».
Invece perdute non lo furono del tutto, oppure tornarono poco per volta, merito di quei figli o figli dei figli che di queste tradizioni ne mantennero la memoria e le poetarono (questo è un refuso meraviglioso: in principio scrissi ‘portarono’) fino a noi.
Io ricordo che negli anni ’90 i miei zii ‘facevano’ i morti, palesandone a turno la presenza. E questi nostri morti cominciavano a manifestarsi giorni prima, spostavano i mobili al piano di sopra, grattavano e calpestavano, insomma, c’erano e non c’erano, stavano preparandosi (preparandoci) alla notte più importante, e noi nipoti lì mezzi spauriti e mezzi eccitati, a tendere le orecchie, a guardarci intorno ‘cacatizzi’. Ma c’era una cosa che facevano i nostri morti (e vi giuro che da nessun’altra parte ne ho letto o sentito dire): ci chiamavano a casa. Il più delle volte rispondeva mia madre, in combutta con quegli altri dei suoi fratelli: “Pronto? Ah, sei tu… Come dici? Vuoi parlare con Giuseppe?” e mi guardava, e io la guardavo e aspettavo… “Tieni, è il nonno”. Telefonate continue, soprattutto quando faceva buio o poco dopo cena, e con voci rauche come provenienti davvero da un altro mondo i morti ci dicevano di non litigare, di comportarci bene, di fare i buoni con mamma e papà, che sennò la notte venivano e ci grattavano i piedi.
Ma se di questo grattare i piedi Camilleri non fa parola “carezze”, dice , il sommo Giuseppe Pitrè scrisse a suo tempo: «[…] è già la sera aspettata, e i bambini, i fanciulli non hanno requie; pure vanno a letto ben presto tra timidi e speranzosi […] Intanto i monelli vanno per le strade gridando in tuono lamentevole e prolungato: “Li morti vennu e ti grattanu li pedi!”. E qui vedresti i fanciulli farsi piccini, rannicchiarsi per paura dei morti, paura che non fa male, che non stuzzica nemmeno i vermini. Palpiti, trepidazioni, speranze li agitano; ma pure tengono chiusi gli occhi per non dispiacere o per non impaurirsi della loro vista. Finalmente poi viene il sonno, e tutto s’immerge nel profondo silenzio della notte […]».

A pensarci bene, laddove crescendo interpretai la messa in scena in famiglia come una trovata per far passare il tempo ai bambini, sì che anche a noi fosse concesso di festeggiare i morti a quel modo, al pari dei grandi quand’erano bambini e dei loro genitori e così via, ecco che oggi i ricordi di quei giorni straordinari mi tornano alla memoria come fossi nei loro panni, e penso al divertimento nel nascondersi e nel darsi il cambio (perché se in due andavano a fare i morti, altri dovevano restare, altrimenti ci saremmo insospettiti), quindi nell’escogitare nuove astuzie e trucchetti, e nel contempo penso ai loro animi ancora e per sempre addolorati, che forse soltanto così, con l’impersonare spensieratamente i cari scomparsi mantenendone vivissima la memoria, potevano trovare un po’ di sollievo.

Oggi sì che certe tradizioni possono dirsi realmente perdute. C’è chi le trova spiacevoli. Soprattutto, viviamo in tempi fin troppo diversi. Di nuovo Camilleri: «E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire». Io la farei ancor più breve: la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà.

Ricordiamoci di questo: dei morti e della libertà.

***

Stamattina al cimitero, lì dove riposano i miei nonni, ho visto due lucertole rincorrersi.


ANDREA CAMILLERI, Il giorno dei morti, in Racconti quotidiani, Mondadori 2001.

GIUSEPPE PITRÈ, Il giorno dei morti e le strenne dei fanciulli. Lettera di Giuseppe Pitrè alla signora Albertina Borghet, Giornale di Sicilia, Palermo 1875.


© Giuseppe Cappitta, Vanitas con lucertola, 2019.

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