Pan

di Grazia Palmisano

Pan mi sta inseguendo.
Sì, proprio quel Pan. Con zoccoli che picchiano sul marmo, corna e viso da caprone.
Solo che sembra appena uscito dalla fashion week milanese. Indossa una lunga tunica bianca, molto elegante, stile Armani, linee semplici ma esclusive. Sugli zoccoli campeggiano stivali rosso sangue, che lasciano libera la zampa: una particolarità su misura per un dio.
Nell’enorme salone lucido di ceramica e marmo luccicante, decorato da greche dorate e battiscopa di rame, io corro e lui mi insegue.
Non è da solo. Gli fa compagnia una faccia bianca, enorme, con due gambette esili, vestita di bianco e oro: mi ricorda uno di quei grandi rosoni di gesso da cui pendono i candelabri nella reggia di Versailles. Entrambi sembrano indossare la stessa tunica. Pan mi ricorda Re Luigi, sebbene lui sia alto e snello. Lei è bassa e tonda, ai piedi calza stivaletti rossi. Non so chi sia, sembra una immensa luna piena, con occhi di onice. Ha un’espressione contrita e preoccupata. Lui invece pare ghignare, come se fosse certo di afferrarmi.
Perché mi stiano inseguendo non lo so. Io stavo bellamente facendo un accidenti di niente e questo bel salone era tutto mio. Un intero palazzo sfarzoso a mia disposizione.
Finché da dietro una colonna sono sbucati loro, prima lui, aggressivo e deciso, poi lei, timida e impacciata. Per mettermi in salvo sono finita su una scala antincendio, a ridosso del piccolo riquadro di ferro da cui posso saltare fuori. Hanno capito che voglio scappare da lì e invece di correre più forte si sono fermati.
Ora che ho la libertà a portata di mano, mi pare più importante restare, capire, parlare con loro. Dopotutto la scala antincendio è sempre qui, posso andarmene quando voglio.
Dico:
«Chi siete?»
«Lo sai benissimo» risponde lui. «Hai il mio nome impresso nella tua testa».
«E tu che ne sai di cosa ho io nella mia testa?»
«Ci sono entrato». Ghigna sempre, in modo odioso.
«E lei chi è?» dico.
«Tua madre. Faresti meglio a parlarci».
«Non è mia madre». L’ho detto con tono duro, non volevo. Mi rivolgo a lei con tono più mite, dico: «Lo sai anche tu che non sei mia madre, non le somigli neanche».
«Dici sempre che sono una statua di gesso» risponde pacata.
È vero, lo dico spesso in effetti. Ribatto:
«Però tu hai solo la faccia di gesso. Non sei lei».
Mi siedo su un gradino della scala antincendio, loro mi guardano dal basso. Passo le mani sulle gambe e mi pungo, infilo le dita nei capelli e cadono petali rossi. Mi alzo e mi specchio nel vetro della porta antincendio, vedo un cespuglio di rose rosso sangue. Mi giro e gli grido contro:
«È colpa tua! Se tu e quella statua di gesso non foste mai venuti qui, non sarebbe successo».
«Perciò ci hai chiamato».
«Io avrei chiamato voi? Pan e Gesso?»
«Non si chiama Gesso».
Io lo so come si chiama, e so perché sono venuti qui. Lo so, ma non me lo ricordo. Salto oltre la scala antincendio. L’acqua attutisce la caduta, dalla gamba del pantalone sguscia fuori il cespuglio di rose, resto in tuta, nuoto fino a riva, mi siedo.
So cosa vogliono da me Pan e Gesso, vogliono ridarmi il rosso.

Torno a casa. Il ronzio del frigorifero sembra il grillo di quell’estate. Quando rientrò stavano cantando come matti nel giardino. Madonna era all’apice del successo, io le volevo somigliare e il caldo per poco non ci ammazzava tutti. Lui mi era sfuggito senza che me ne accorgessi. Ero seduta sulla tazza del bagno esterno, una pipì veloce, prima di rientrare e finire di mangiare. Avevo addosso la canotta del tempo delle mele, Sophie Marceau e il tipo si baciavano, io non avevo mai baciato nessuno. Ero ancora sulla tazza quando se ne andò. Fu un attimo, ebbi una vertigine, un capogiro improvviso, aprii le braccia, poggiai le mani alle pareti, non durò molto. Quando mi rialzai e tirai su i pantaloni lui era sparito. Prima che se ne andasse non sapevo niente di lui e non seppi niente per tutto il giorno. Quando rientrò ero in camera, sdraiata e confusa. Non lo riconobbi, non lo avevo mai visto. Si arrabbiò, scappò prima che riuscissi a parlargli. Aveva un mantello rosso che svolazzava mentre atterrava in strada. Uno strappo al collo, poggiai la mano, non c’era niente ma il dolore era reale. Non sapevo che fare. Lo chiamai sottovoce, dormivano tutti. Non rispose, non lo potevo rintracciare, era buio. La campagna senza luci inghiottiva ogni cosa. Gli occhi si chiusero per lo sfinimento. Lo incontrai, era cambiato, i capelli cresciuti, il mantello sbiadito, lo sguardo malinconico, non sembrava più arrabbiato. Mi prese la mano e così ballammo al suono del respiro, volteggiammo e a ogni giro mi pareva di essere di nuovo parte di lui e lui parte di me, senza accorgermi che spariva lentamente, finché il rumore di un ferro non mi svegliò. Erano le sette, dovevo andare al lavoro.
Avevo quattordici anni.
Quando firmai il contratto da apprendista lui cercò di fermare la mia mano. Non ci riuscì. Non sapevo fosse lui, ignorai ogni cosa, tranne la mia smania di autonomia, la mia illusione di dimostrare a tutti qualcosa. No, non a tutti: solo a lei. A volte servono chilometri e migliaia di soldi persi prima di capire, di accettare la verità.
Il sangue, il mio vero sangue, sparì quell’estate, e io con lui. Un’emorragia di cui non mi accorsi, una trasfusione ininterrotta. Da allora nel mio braccio è entrato di tutto, ma solo lui sa nutrirmi, il suo colore, il suo calore, il suo modo di essere, ciò che era suo era mio e lo avevo barattato per un lavoro in confezione, dalle otto alle cinque del pomeriggio. Nessuno mi disse ‘brava’, nessuno mi ridiede il sangue che avevo perduto, nelle vene rimasero amarezza e veleno. E lei. Avevo perso un amore vero per un affetto finto.

Ogni tanto lo incontro, nell’unico posto in cui possiamo vederci. Gli do appuntamento nell’ombra, però quando arriva scappo. Mi vergogno di averlo tradito in modo tanto stupido. Eppure ogni volta che voglio vederlo, lui arriva. Arriva sempre, ma sempre con lei. Sempre.
Oggi avevo cercato di arrivare senza farmi vedere, nascosta dietro una colonna.
Quando apro gli occhi lo perdo. Se solo potessi dormire in eterno…

Mi ero svegliata con una canzone di Tanita Tikaram, quando lo persi, e ogni volta che voglio rivederlo la riascolto, Twist In My Sobriety. Anche io ho avuto uno sbandamento e ascoltarla mi fa sentire meno sola: forse anche Tanita ha perso il suo rosso e la sua canzone mi dà il conforto di un’amica. Tanita non può tradirmi come ha fatto lui, anche se a tradire sono stata io. E mi chiedo: finiranno mai le lacrime di non averlo più con me? Cosa sarebbe cambiato se non mi avesse mai lasciata?

Un giorno gli chiesi le ragioni dei suoi travestimenti. Disse:
«Ti spaventavi, perciò mi travesto».
«Mi spavento lo stesso».
«Allora non verrò più».
Quella risposta mi turbò, non trovai la forza di ribattere. Poteva travestirsi come voleva, purché non sparisse del tutto. (È vero che mi fa paura ma senza di lui diventa complicato, a volte impossibile, andare avanti).
«Perché arrivi sempre con lei?»
«È tra me e lei che scegli ogni volta».
Non capii, fu una delle risposte che ci separò più a lungo. D’un tratto non volli più incontrarlo.
Trascorsero anni, e fu l’unica volta in cui venne lui a cercarmi. Ero su un carro, di notte, gli oggetti illuminati solo dalla luna piena. Gli scossoni mi impedivano di dormire, tentavo di sonnecchiare lungo il tragitto. Mi svegliai urlando: mi aveva afferrato per i fianchi, affermava che mi ero sdraiata su di lui e che quel carro era il suo giaciglio. Mentiva, però ero felice di averlo rivisto, mi era mancato tantissimo. Non posso vivere senza Pan. Lo chiamo così da quando gli dissi: “Sei buono come un panino alla Nutella”.
Non sapevo fosse un dio e mi svegliai con la faccia graffiata.
Non ho mai capito come riesca a superare la barriera che ci divide, però lo fa. Invece a me non è concesso, posso solo aspettare che lui accetti di venire a trovarmi. Siamo come Navarre e Ladyhawke, se non fosse che noi abbiamo più tempo: finché dormo possiamo stare insieme.
Eppure a me non basta, lo voglio sempre con me, non tollero più questo continuo via vai, le attese, l’eventualità che non arrivi.
Insiste a dire che non può vivere senza di me, che finché ci sarò io, ci sarà anche lui, ma io non ci credo, se fosse vero non se ne andrebbe, verrebbe ogni notte.
«Se tu non chiami, io non posso arrivare» disse una volta.
«E quella notte sul carro? Speravo che almeno tu mi proteggessi».
Rispose che a me della sua protezione non importava un bel niente. Disse: «Tu mi vuoi quando sei in difficoltà».
Se ne andò. Di nuovo restammo lontani.

Il ronzio del frigo mi tiene compagnia, me ne sto qui a pensare se chiamarlo o no.
Lo vedo sedersi di fronte a me, non sto dormendo, sono sveglia. Dice:
«Doveva succedere una volta o l’altra. Ho pensato che fosse tempo di andare».
Lo guardo, il frigorifero ronza, ne ho cambiati parecchi dalla prima volta che scappò. Mi viene il batticuore, dico:
«Andare dove? Per sempre?»
«Non c’è altra possibilità. Ormai non hai più bisogno di me».
«Aspetta, non so di che parli!»
«Sì che lo sai». (Sì che lo so).
Dice di non essere mai scappato, di essersi fatto da parte come io desideravo. Dice che in verità era a lei soltanto che volevo dimostrare di essere brava, e volevo farcela da sola, senza di lui. Dico:
«No, non senza di te».
«…E tuttavia io ci sono stato. Ora che hai smesso di dormire, posso andare».
Rido in maniera isterica. Sembra stia dicendo sul serio.
«Che vuol dire che ho smesso di dormire? Finché sono viva ho bisogno di dormire».
«Appunto».
Si alza con il migliore dei suoi sorrisi, rimette a posto la sedia, posa un bacio sulla mia guancia. Che sensazione strana… Prima d’ora non lo aveva mai fatto.
«Sei stata in gamba» dice. «Sono fiero di te».
È rimasto solo uno spiraglio attraverso cui lo vedo, sta per chiudere del tutto la porta.
«Ma tu chi sei?»
Ride forte e inizia a scendere le scale. Lo rincorro, inciampo, riesco a tenermi al corrimano, mi pare di veder svolazzare un mantello rosso.


Orsola Damiani, Pan e Gesso, 2023.

Grazia Palmisano è nata in un trullo a Martina Franca l’ultimo giorno di gennaio di un bellissimo anno. Ha vissuto a Torino e attualmente risiede a Corsico. Da piccola voleva diventare grande, ma ha cambiato idea. Legge saggi, narrativa e poesia. Suoi racconti sono pubblicati su riviste online e cartacee, tra cui «Waste», «Bomarscé», «Offline», «Il diario del riccio», «Quaerere», «L’Irrequieto», «Verde», «Alkalina», «Spaghetti Writers», «Salmace», «Gargolla», «Storie Bizzarre», «Enne2», «Distruttori di Terre». Abita in un blog, sgranocchia noci brasiliane, fantastica, recita nascosta dietro un sipario e suggerisce storie alle dita.


Orsola Damiani, diplomata all’Accademia di Illustrazione di Roma, segue un Master in Incisione e poi… vola a Parigi per uno stage. Tornata in Italia, tra una china e un pennello approfondisce il fantomatico mondo dei computer. Crea il suo logo – un piccolo pesce rosso che nuota tra illustrazioni a mano e grafica editoriale – affiancando al lavoro di Illustratrice quello di Graphic Designer per la comunicazione e promozione di festival, mostre d’arte, stagioni e spettacoli teatrali, rassegne musicali ed eventi. Pubblica libri per ragazzi, crea illustrazioni per magazine online, riviste di moda, etichette di vini e birre.


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