di Alma D'Inverno
Io e Leila siamo bambine. Giochiamo a truccarci come fanno le nostre mamme. Leila inizia per prima.
«Siediti» dice, indicando lo sgabello.
Io mi siedo. In principio non so dove guardare: lei mi viene vicino, io fisso un punto in alto sopra la sua testa, oppure guardo la finestra, i muri, il pavimento. Ma non guardarla in volto è impossibile. È troppo vicina. Riempie la mia visuale. Allora trovo approdo nella sua fronte: è liscia; si corruga leggermente quando Leila si concentra. Anche le sue guance sono lisce, e pienotte e morbide (posso immaginare). Il suo naso è sottile, rotondo in punta. Un tenero e innocente nasino, se non fosse che ha l’imperdonabile colpa di condurmi alla sua bocca. Una bocca normale. Labbra non troppo sottili, mai screpolate, rosa intenso.
Io dico:
«Oggi fa caldo».
Leila dice:
«Sta’ zitta, non distrarmi».
Gli angoli della sua bocca sono centri di gravità. Mi attraggono alternativamente. Mi avvisano di un cambiamento imminente nella conformazione della sua bocca. Preannunciano il sorriso di Leila, le esitazioni di Leila, il broncio di Leila (quando sbaglia). Poi c’è ‘la barca’. È così che Leila chiama l’arco di Cupido.
Leila dice:
«Non muoverti. Adesso metto il rossetto sotto la barca. Bisogna volumizzare».
Rimango ferma immobile. Il suo arco di Cupido io lo chiamo ‘culla’, dove posso riposare lo sguardo. Ne ho bisogno, perché la sua bocca mi sembra infinita. Infinita è la varietà di pose che la sua bocca assume. Eppure ho imparato a riconoscerle una per una. Così ho definito l’infinito. In quel momento penso – no, non penso: intuisco, senza saperlo – che Leila possiede l’infinito non-infinito (per me soltanto), che non significa nulla, o forse sì. Non importa.
Leila dice:
«Fatto».
Io rispondo:
«Di già?»
Lei dice:
«Questo rossetto ti sta benissimo».
Io dico:
«Grazie».
Credo di arrossire. Leila mi ha già messo il fard. Forse non se ne accorgerà.
Leila dice:
«Sei tutta rossa. Senti caldo?»
Faccio cenno di sì con la testa. Leila spalanca la finestra. Dice che fuori, parcheggiata dinanzi casa sua, c’è la macchina di suo padre. La vedo fare ciao con la mano. Bussano alla porta: è sua madre. Papà è arrivato, bisogna prepararsi per uscire. Leila mi sorride. Ha lezione di violoncello, non c’è tempo per rifinire l’ombretto. Dico che sarà per la prossima volta. Lei risponde che non vede l’ora. Non vedo l’ora anch’io, penso tra me.
Mi guardo allo specchio. Lei si mette alle mie spalle, fissa il mio riflesso. Dice di avermi truccata come la sua insegnate di musica. La sua insegnante è bellissima, dice. Mi infastidisco, anche se non capisco la ragione.
«Adesso sei bellissima anche tu» dice Leila. Aggiunge che io lo sono sempre, bellissima.
Il fastidio svanisce. Divampo. Sento le labbra calde. Caldi i contorni degli occhi, calde le tempie e le orecchie.
Leila posa il rossetto sulla scrivania. Riordina velocemente i trucchi. Quando ha finito, si avvicina all’armadio. Prende un vestitino, lo ispeziona tenendolo di fronte a sé, lo posa sul letto. Inizia a spogliarsi. Mi scopro a spiarla dallo specchio, volto lo sguardo: osservo la scrivania, i disegni appesi alla parete (un pavone dai colori impossibili; una casa di campagna in una notte stellata; un tramonto sul mare), il cestino dell’immondizia (pieno per metà di carte, trucioli di matita, poco altro), l’appendiabiti (una felpa gialla con un logo che non conosco; un cappello), la porta. Di nuovo lo specchio, involontariamente (?). Adesso Leila è nuda. Indossa solo le mutandine, bianche, aderenti al sedere, che ha la forma di una ciliegia. Le sue gambe sono sottili. Sulla schiena le si contano le vertebre; le sporgono le scapole. Si gira. Ha il pancino piatto. Quando alza le braccia, ecco le costole. Il suo seno consiste in due rigonfiamenti appena percettibili, perciò non porta il reggiseno (io sì: porto già la seconda). I suoi capezzoli sono scuri e carnosi, tendono all’insù. Il calore che prima sentivo in volto adesso lo sento dappertutto. Non me lo spiego. Leila mi guarda dallo specchio. Mi sorride. Dice che posso provare il suo vestitino prima che lo indossi lei. Suo padre la sta aspettando, ma se voglio c’è tempo.
Mi vedo allo specchio. Indosso una maglietta a maniche corte e una gonna. Abbasso lo sguardo: ho le gambe divaricate sullo sgabello. Devo fare pipì. Sotto la gonna, le mie mutandine sono nere, con un fiocchetto rosso e molte coccinelle disegnate.
Alla sua proposta di provare il vestitino rispondo di no. Anche questo sarà per un’altra volta.
Leila dice:
«Ok».
Indossa il vestitino. È verde, aderisce leggermente ai fianchi, le copre le ginocchia. Si guarda allo specchio. Sbuffa.
È bellissima.
È notte. Ripenso a Leila.

Alma D‘Inverno nasce da qualche parte in qualche tempo. «L’Appeso» è la prima rivista a ospitare un suo scritto, o così pare.
Alice Filippazzo è originaria della provincia di Monza e Brianza. Ha studiato arte e fotografia; ha collaborato con uno studio fotografico in qualità di assistente e con diverse agenzie di moda come fotografa. Trasferitasi in Trentino nel 2015, negli ultimi anni si è appassionata alla grafica, in particolar modo all’illustrazione digitale. Tra le sue attività recenti figurano la partecipazione a una mostra collettiva e la creazione di opere in ceramica.

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