di Giulio Iovine
Non so perché, all’ultimo momento a Nina prese la paranoia: che succede se piove?
«Le previsioni dicono sole» obiettai.
«Ma se piove?»
«Se piove la portiamo in centro, in quel nuovo locale finto asburgico dove si prende il tè».
Alle otto e mezza ci trovammo, Nina e io, in macchina sotto casa di Amalia. Ci eravamo messi gli occhiali da sole perché era il primo sabato di maggio e non c’era una nuvola in cielo. Immobili, guardammo il cancello che dava sul giardino condominiale.
«Sei carico?» chiese Nina.
«Sempre».
«E allora andiamo».
Alla porta dell’appartamento venne ad accoglierci sua madre, barcollando e un po’ stordita. Volle abbracciarci. Le chiedemmo dov’era Massimo, il babbo.
«Non si sveglia mai prima delle undici. Prende i…» e con pudore insolito per lei, mimò uno che prendeva pasticche.
Amalia comparve nel corridoio. Non seppi resistere e in due falcate la presi tra le braccia. La nostra piccolina!, pensai. Era così magra tra le mie dita grosse. Lei rise, mi chiese di andarci piano che sennò la rompevo e ricambiò il mio abbraccio. Le presi il volto tra le mani – i capelli in ricrescita mi pizzicarono le palme – e le stampai un bacio sulla guancia. All’abbraccio si aggiunse Nina, più bassa di noi due ma non meno energica, e restammo così a dire sciocchezze tipo che la macchina aveva appena fatto il tagliando, le gomme erano ok e anche l’olio, l’autostrada era sgombra, la giornata calda ma non troppo.
«Meno male perché io l’afa…» disse Amalia, e prendendo il mio braccio salutò la mamma con un bacio, per poi farsi accompagnare sul pianerottolo. L’ascensore era guasto da una settimana. Feci per scendere il primo gradino delle scale, ma sentii una resistenza.
«Faccio un po’ fatica a scendere» confessò.
«Mica abbiamo fretta» rispose Nina dandomi un’occhiata inconfondibile; e senza dir nulla presi Amalia in braccio, come Superman con Lois Lane.
«Un sabato di lusso. Quest’omone che mi scarrozza in macchina al mare con la mia migliore amica, e in più mi fa pure fare le scale a braccio!» esclamò lei ridendo. Io poggiavo un piede dietro l’altro, con Nina che mi faceva strada sulle scale e poi nel giardino.
Ci mettemmo infine in macchina – io a guidare, Nina dietro con Ama. Guidai inchiodato nella corsia di destra, coi camion che mi sorpassavano, pensando di avere in macchina mio figlio neonato. Amalia e Nina chiacchierarono per un’ora di viaggio a voce alta di non ricordo più cosa. Ama insisté per fare due o tre selfie e fotografare anche me alla guida.
«Non mi mettere mica su Instagram» dissi.
«Stella, tu metti un po’ troppe cose personali su quel profilo» l’ammonì Nina.
Nello specchietto retrovisore notavo le loro mani intrecciate.
«Se vuoi andare in bagno dimmelo, che ci fermiamo all’autogrill» dissi.
«Tranquillo Tiziano, sono a posto».
«Titi, ma stai bene? Non hai detto una parola finora».
«Ero preso dalla guida» risposi – che in parte era pure vero.
Seguì una discussione su quanto potesse essere divertente guidare. Io ero per il sì, Nina per il no: sopportava a stento il suo motorino che faceva al massimo i quaranta all’ora, e stop. Intanto eravamo arrivati al casello. Guidai per le strade del solito paesino sulla riviera romagnola, che per noialtri emiliani è l’unico modo di vedere il mare in tempi ragionevoli senza arrampicarci sull’Appennino. Da mesi Nina e io facevamo a botte (si fa per dire) per scegliere il lido giusto. Parcheggiai al Merlino.
«Tu vai a prendere ombrellone e sdraio» ordinò Nina, «io resto con Ama qui all’ombra».
«Ma Ninni, mica mi brucio se vado al sole».
«Poche storie, stellina. Prima ti metti la crema. Hai già il costume?»
Uscii, lasciandole tranquille; mi procurai l’ombrellone e tre sdraio. C’era gente, ma non troppa. Sulla battigia tranquilla vagabondavano babbi con figli sulle spalle, truppe di ragazzini, l’occasionale quindicenne con iphone e cuffie. Mi misi in costume, tenni la maglietta e andai verso il parcheggio per vedere se Nina e Ama avevano bisogno di aiuto. Me le vidi venire incontro a metà strada, Ama attaccata al braccio di Nina, ben coperta di crema ormai assorbita. Aveva i capelli corti, era magrissima, camminava con troppa lentezza. Ma si era messa il suo costume a fiori azzurri preferito, un due pezzi un po’ volgarotto ma nel suo stile, e brandiva il suo cellulare con le orecchie di Topolino (rosa e brillantinate) montate sopra. Ed era contenta. Il sole se la coccolava come fosse una gattina. Non può succederle nulla di male, pensavo. Non a lei.
Mi afferrò l’orlo della maglietta.
«E questa…?»
«Sono un ciccione».
«Ma nemmeno per idea. Sei bellissimo. Levatela: sai quanto piace l’orso? Secondo me oggi rimorchi, se non stiamo attente».
Mi arresi. Arrivammo all’ombrellone, ci stendemmo sulle sdraio. Nina e Ama chiacchierarono finché Ama non si assopì. La guardammo mentre dormiva.
«Mi sembra stia bene, comunque» sussurrai. «Il morale è alto».
«Quello sicuramente sì» sussurrò Nina di rimando. «Senti, vado a farmi un bagno, l’acqua è limpida. Le badi tu?»
«Ovvio».
«Se ci sono problemi vieni a riva e fammi un urlo. Non mi allontano troppo».
«Ni’, stai serena. Vai».
Guardai Nina fare due piroette in acqua, cercando di rilassarsi. Ama si svegliò dopo circa mezz’ora, mi diede di gomito e con un sorrisetto complice mi chiese:
«Che gnocca, eh?»
«Eh» risposi. «Tu tutto bene?»
«Ma sì. Ah, ora che ci penso: me la leggi questa? Mi fa comodo un parere».
Aveva finito qualche giorno prima il testo di una canzone che poi il suo rapper di fiducia le avrebbe impapocchiato per Radio Appennino.
«Sicuro» risposi.
Mi passò il cellulare con il testo su drive. Rimanemmo a questionare su quella virgola, quell’avverbio, quell’a capo e quel fraseggio per chissà quanto, col sole a picco sopra di noi. Nina, uscita dall’acqua, andò a prendere il pranzo per tutti – si ricordò della mia piadina preferita, speck stracchino e rucola (ma ci mancherebbe altro: ci conosciamo da vent’anni). Per Amalia ne rimediò una prosciutto formaggio e pomodori, che Ama riuscì a finire per metà. Gliela mettemmo da parte per dopo. Passammo il pomeriggio a leggere e chiacchierare.
«Hai voglia di farti un bagno anche tu?» le chiesi, col sole che calava.
«Magari».
«Dai, ti accompagno».
Le diedi il braccio e la portai a riva. La sentivo camminare con tutta la forza che aveva, il piede che lasciava l’impronta precisa e profonda sulla sabbia umida. La condussi in acqua, passo dopo passo, con lei che mi raccontava non so che pettegolezzo su una amica sua e di Nina che secondo lei me l’avrebbe data, anzi “tirata con la catapulta”. Arrivata con l’acqua alle ginocchia si lasciò andare, galleggiando per un po’; poi la presi delicatamente per i fianchi e le feci fare un giro distesa sull’acqua. Nina, rimasta sulla riva, faceva ciao con la mano.
A sole ormai scivolato sotto l’orizzonte, approfittammo delle docce del Merlino. Ci demmo una sciacquata col sapone, ché soprattutto io senza doccia dopo l’acqua salata e il sole non so stare; passammo entrambi l’asciugamano su Amalia bagnata perché ormai c’era l’ombra e non volevamo prendesse freddo, ed eccoci in macchina.
«Se hai fame, qui vicino c’è un bel ristorante di pesce per la cena» disse Nina.
«Ho prenotato per tre, ma posso disdire in qualunque momento» dissi io.
«No ragazzi, vi ringrazio. Sono stanchissima e non ho molta fame».
«Sarà il sole. Siamo cotti anche noi» confermai.
«Vero? Però finisco la piadina di oggi, Ni’, se ce l’hai ancora».
«Stella, che domande fai?»
Aspettammo che finisse di mangiare perché non le venisse la nausea in macchina; e nella notte fresca di maggio, col vento del mare che correva insieme a noi, la riportammo a casa.
«Tutto bene là dietro?» chiesi a metà strada.
«Si è addormentata» sussurrò Nina.
Non volevamo svegliarla. Quando arrivammo, ormai a sera tarda, davanti al cancello del suo condominio, facemmo in modo di sollevarla dal sedile e portarla in braccio fino al secondo piano. La tenni io; Nina mi fece strada nella penombra delle scale fino al pianerottolo. Bussammo e ci aprì Irene, sua madre; in silenzio entrammo e appoggiammo Amalia sul suo lettino in camera, cercando di non pestare le scatoline di farmaci vuote o dare un calcio all’arnese per reggere la flebo, che non ho mai capito come si chiami.
«Come mai è ancora tra i piedi?» chiese Nina in un sussurro a Irene, indicando il trabiccolo.
«Niente, sono io che sono disordinata. Domani lo levo. Tanto il ciclo di chemio è finito».
Chiudemmo la serata in sala da pranzo. Le raccontammo la giornata. Irene ci aprì una bottiglia di bianco – io e Nina ci umettammo solo le labbra. Al terzo bicchiere, Irene lo appoggiò sul tavolo con troppa forza, facendoci sobbalzare.
«Per lui è facile» brontolò. «Ormai coi sonniferi dorme venti ore al giorno, peggio di un gatto. Non è capace, poveraccio, non è proprio capace, quando arriva una difficoltà lui si accartoccia».
Parlava di Massimo. Né io né Nina ritenemmo opportuno metter becco.
«Comunque mi sembra che andiamo meglio» provai a dire.
«Stazionario» rispose Irene perentoria. «Non è in progressione. Ma nemmeno in remissione. Sta lì. Adesso le rifanno la radio, e poi sotto col terzo ciclo».
«Come, ancora la radio…?» esclamò Nina.
«Ha telefonato oggi il reparto. Dicono bene che non è in progressione, ma male che è ancora lì. Hanno mezzo detto che forse a ottobre la rioperano».
«Col laser, mi auguro» dissi io.
«Sì, la portiamo a Monza, se ci danno l’ok».
«Ho sempre voluto visitare Monza» dissi, ottimista. «Adesso mi informo sui ristoranti».
«Buono lì, tu» mi frenò Nina con un cricco affettuoso sul naso. «Pensi sempre a mangiare!»

Giulio Iovine, nato a Bologna il 10 luglio 1987. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da febbraio 2021 ricercatore all’Università di Bologna, dove studia manoscritti antichi e insegna Papirologia. Pubblica prose, meme, teatro e video sui suoi profili Facebook e Instagram (#dinosaurifuturi), nonché sul suo blog (Il Monte Analogo); racconti brevi su riviste, tra cui «Crack», «Digressioni», «Enne2», «Kairos», «Malgrado le mosche», «Smezziamo» (lista completa); e romanzi su Wattpad (‘Francesco Storbini’). È membro della redazione della rivista «Spaghetti Writers».
Valeria Dimartino nasce a Ragusa il 29 novembre 1984. Trasferitasi a Firenze nel 2007, frequenta i corsi di tecniche del colore e disegno creativo presso l’Art.e School of Design Art & Photography. Nel 2013 consegue il master in Collection Design laureandosi al Polimoda International Institute of Fashion Design & Marketing nel 2014. Parte del suo portfolio è visitabile su Not Just A Label.

Lascia un commento