di Jacopo Verworner
All’inizio degli anni ’90, la costa della Toscana fu investita dall’onda lunga della “second summer of love”, esplosa in Inghilterra e di lì trasmigrata a Ibiza un paio di anni prima. Buona parte della cosiddetta Generazione X – ho in mente i nati tra il 1965 e il 1980 – è venuta in qualche modo a contatto con quest’onda: ci sono quelli che se la sono presa in piena faccia e se la sono goduta rimanendo in piedi, quelli che invece ne sono stati completamente travolti, quelli che l’hanno cavalcata, quelli che sono stati raccattati dalla conseguente risacca, e pure quelli che sono rimasti a prudente distanza a osservare quello che accadeva ai loro coetanei.
Questa vuole essere una guida alle tappe (intese sia in senso fisico che esperienziale) percorse da quelli che di questa ondata sono stati i protagonisti. Cioè ognuno di noi, come recitava un noto adagio dei tempi.
011. Matrimonio
“This is what the impending apparent end of everything actually means. It means that the denouement of human history is about to occur and is about to be revealed as a universal process of concrescing and expressing novelty that is now going to become so intensified that it is going to flow over into another dimension.”
~ Terence McKenna, Alien Dreamtime
Il protagonista si è ormai fatto un professionista in carriera. Vive in un ampio appartamento con terrazza a tasca che si affaccia sul parco. Il suo ufficio sta al ventisettesimo piano di un grattacielo, dal quale può perdersi nell’osservare gli aerei che atterrano e decollano intorno a uno degli aeroporti più grandi d’Europa. Ogni mattina, prima di uscire, si guarda allo specchio, si sistema la cravatta, e stenta a riconoscersi. Addirittura, gli viene da ridere pensando al gioco di prestigio che sta facendo, e si chiede per quanto tempo ancora riuscirà a ingannare tutti. Tutti tranne Klara.
Succede una sera, alla fine di una cena di lavoro con una dozzina di colleghi. Qualcuno propone di andare a ballare. Il protagonista si schermisce, sa che si finirebbe comunque in un posto squallido e commerciale. Con ogni probabilità nel peggiore di tutti, un locale con selezione all’ingresso e musica latineggiante sito nel sotterraneo del palazzo in cui lavora. Quindi preferisce passare per un musone che non sa divertirsi, e si scusa dicendo che non si sente a suo agio nelle discoteche. Il che non è del tutto falso: si sente a suo agio solo in “certe” discoteche.
Il latore della proposta alza le spalle, tanto più che la maggioranza dei colleghi decide di seguirlo. Klara invita i rimasti nella sua nuova casa per un’ultima bevuta. Di Klara, il protagonista sa che ha un paio di anni più di lui, ha studiato a Pisa e sta facendo una rapidissima carriera, tanto che a neanche quarant’anni è già direttrice di dipartimento. La sua casa è un ultimo piano recentemente restaurato di una palazzina di inizio Novecento. Un architetto – o forse lei stessa – si è incaricata di incastonare dettagli contemporanei – scaffali in metallo e punti luce – nella struttura in legno che sorregge il tetto. L’arredamento, i manifesti e le foto alle pareti rivelano gusto e interesse per architettura e arte contemporanea. Si siedono su un grande divano bianco, Klara racconta di un suo recente viaggio di lavoro a Parigi, che ha poi prolungato nel weekend per vedere una mostra di Anish Kapoor. Estrae il telefono e mostra delle foto.
Il protagonista se ne accorge subito ma non sa se dirlo. Da un lato ha fiducia che Klara colga il riferimento: dopotutto ha studiato a Pisa negli anni giusti, ed è pertanto verosimile che sia venuta a contatto con l’ambiente. Dall’altro teme il possibile giudizio degli altri tre colleghi che presenziano, uno dei quali è il suo capo. Alla fine, in un momento in cui riesce ad avere l’attenzione esclusiva di Klara, le dice, in italiano: «Ma tu lo sai chi è quello che suonava alla mostra di Kapoor?» «Certo, è Richie Hawtin». «E sai anche come si faceva chiamare quando era uno sfigatissimo ventenne coi capelli a scodella?» «Chiaro, nel ’92 ero a Pisa, Plastikman era un classico agli after dell’Imperiale». A questo punto il protagonista avrebbe voluto abbracciarla, ma chiaramente non sarebbe stato il caso in presenza di altre persone. Però questo gancio fa scattare il desiderio reciproco di conoscersi meglio. Vanno a pranzo insieme la settimana successiva, e iniziano a pianificare un’uscita in cui possano liberamente abbandonarsi ai loro interessi in comune.
Il giovedì successivo ci sarebbero i Mirror System al Cocoon. Klara è particolarmente entusiasmata dal fatto che si tratti di due personaggi di provenienza assortita che si sono poi ritrovati a fare musica elettronica insieme: Steve Hillage era partito come chitarrista di progressive rock, Miquette Giraudy come aiuto regista e attrice, in particolare nel film More, quello con la colonna sonora dei Pink Floyd. Il protagonista è incuriosito e comunque si lascerebbe trascinare, ma il suo entusiasmo finisce per eguagliare quello di Klara non appena realizza che i Mirror System altri non sono che i System 7, quelli della meravigliosa 7:7 Expansion.
Il Cocoon è una costruzione moderna nella zona industriale prossima al porto fluviale. Ma si differenzia dagli edifici circostanti per la pareti stondate e striate di grandi finestre: da fuori potrebbe sembrare una palazzina di uffici, non certamente un capannone, un magazzino o un opificio. Entrati e superato il guardaroba, un ampio corridoio abbraccia la pista principale. Sul muro che circonda la pista, stondato e bucherellato, sono stati ricavati delle grandi cavità ovaleggianti il cui lato inferiore è rivestito di cuscini. Alcuni vi hanno già preso posizione per seguire da lì la serata. La pista è enorme, l’impianto delle casse fa impressione, e già al volume attenuato del preascolto fa tremare nelle ossa. Sulla destra, un corridoio delimitato da tubi di vetro violacei conduce alla seconda sala, che funge anche da ristorante. Klara dice che ci si mangia molto bene, pare che addirittura punti alla stella Michelin. In attesa che i Mirror System entrino in scena, si sistemano lì a bere un cocktail colorato mentre prosegue la condivisione dei loro trascorsi nei primi anni ’90.
Difficile riempire una pista così grande di giovedì sera, in una città che alla fine non è tanto più grande di Firenze, ma alla fine il risultato non è deludente. C’è un po’ di tutto tra gli spettatori, incluso diversi tipi in giacca e cravatta che evidentemente sono venuti direttamente dall’ufficio. Comunque, l’età media relativamente avanzata fa pensare che molti abbiano consuetudine anche coi System 7.
Hillage si palesa con una chitarra a tracolla, una maglietta nera anonima e degli occhiali con la montatura spessa, da nerd. Giraudy biondissima e minuta, con un tailleur color pesca e degli enormi occhiali da sole con la montatura bianca che non sfigurerebbero in un Bistrot del XVIème arrondissement. In tre parole: due borghesissimi sessantenni. Che però regalano un set in studiatissimo crescendo. Quando arrivano a Song for the phoenix hanno davanti a loro l’intera pista bell’e cotta e appagata, per un attimo si guardano negli occhi, si sorridono, scoppiano a ridere, lei appoggia la testa sulla sua spalla. Adesso si può fare: il protagonista e Klara si abbracciano.
Finito il concerto, non indugiano e si avviano a rientrare – dopotutto per loro l’indomani sarà un giorno di lavoro come un altro. Sono le 11, ma siccome siamo a nord ed è quasi estate, c’è ancora una vaga luce dell’imbrunire. Il cielo sfoggia tutti i colori dello spettro tra il blu e l’arancione, e il fiume va via taciturno, riflettendo delle luci dei grattacieli.
021. Funerale
“A shaman is someone who has seen the end, and therefore is a trickster, because you don’t worry if you’ve seen the end. If you know how it comes out, you go back and you take your place in the play, and you let it all roll on without anxiety.”
~ Terence McKenna, ibidem
Sotto la consolle, disposti a scacchiera, una cinquantina di box per vinili. È il Teatro delle Rocce di Gavorrano. Le gradinate però sono vuote. C’è un solo essere vivente a fare da pubblico: un uomo vestito interamente di rosso. Mantello, abito, camicia, cravatta, scarpe, la bombetta in testa e addirittura una calza calata sul viso. Siede sulla gradinata a capo chino, la testa tra le mani. Il mantello rosso, enorme, interamente dispiegato a semicerchio dietro di lui, sembra una grande chiazza di sangue.
I deejay si alternano alla consolle, salutandosi appena con dei cenni e tenendo bene la distanza quando si danno il cambio. Il cielo si fa grigio, sempre più scuro. La musica cupamente accompagna l’imbrunire, tuoni la sovrastano, inizia a piovere. Il principe Maurice si libera del mantello, si alza e inizia a scendere la gradinata. Estrae un microfono, legge da un foglio:₁₀ «C’erano le discoteche. Ci abbiamo ballato, ci siamo sentiti speciali, ci abbiamo affidato i sogni e le speranze. Siamo tornati vittoriosi, perdenti, impacciati, bellissimi e sfigati. Ci abbiamo perso l’ingenuità, i telefoni, le chiavi di casa. Ci siamo baciati, ci siamo toccati le vite, ci siamo abbandonati, ci siamo alterati e dimenticati cosa fosse il mondo fuori dal week-end». Arrivato sotto la consolle, prende a volteggiare, e finisce per rovesciarsi a terra. E resta lì, immobile, a lasciarsi bagnare dalla pioggia, mentre l’ultimo deejay se ne va a testa bassa, le luci si spengono e infine anche la musica si dissolve.
Il protagonista si trova a pochi chilometri di distanza in linea d’aria, tant’è che se ci prestasse attentamente orecchio potrebbe addirittura sentire in lontananza il ritmo battuto dalla cassa. Ma non può vedere il teatro vuoto, non può contemplare la notte che lo ammanta, né può sentire sulla pelle la pioggia che continua a battere sulle rocce. Perché quello che ha davanti è un grande e ben illuminato salone di una casa colonica. E innanzi a lui una bimba che lo guarda e sorride, seduta davanti a una torta bassa di cioccolata, con su una candelina accesa. Batte un tuono, salta la corrente, lei sussulta spaventata. «Vieni Marianna» le dice il protagonista prendendola in braccio, «questo buio fa paura, menomale che avevamo già acceso la candela».
10 Il testo è tratto dalla nota di accompagnamento alla canzone Discoteche abbandonate dei Coma_Cose.

Jacopo Verworner nasce e si forma a Firenze e dintorni. Intorno ai trent’anni, a seguito di una poco riuscita carriera accademica, lascia l’Italia e vaga in cerca di quiete, agi e comodità. Finisce per arenarsi in Svizzera, dove già aveva passato beati mesi di castigo in adolescenza, e dove tuttora vive, dividendosi tra Crisopoli e Widmad. Per soldi scrive di economia e politica monetaria, per diletto scrive delle cose che gli passano attorno. Ha pubblicato su «Micorrize» una serie di racconti ispirata al suo periodo francofortese, e su «In Allarmata Radura» un saggio sulla vita da esiliato in Svizzera.
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