Elle

di Simone Redaelli

Oggi ti ripenso come a una maga senza incantesimo.
Ed ero piccolo, il tardo pomeriggio, in via Rombon, a Milano, mano nella mano con papà, quando giravo la testa per rivederti.
Eri già lì, te lo ricordi?
E avevi un corpo ardimentoso di donna urbana, ma con la fiamma della vita racchiusa tutta dentro, sotto la teca della tua compostezza. Perché fuori, al crepuscolo, ti mostravi ancora algida, fremente come ghiaccio.
E adesso, dove sei? Dove posso andare, per cercarti?
Una notte, quando mamma e papà dormivano, sono uscito per trovarti. La luce baluginante dei lampioni bagnava l’asfalto d’una limpidezza simile all’acqua montana, e tu rilucevi fra le automobili che si fermavano. Eri sorgiva.
Ho sempre pensato che bellezza fosse irruzione laddove tutto è incedere. E tu sgorgavi e mi chiamavi a te, e quando ti ho raggiunta, hai parlato una lingua propria del ritorno delle fiabe. O delle grandi storie.
E m’hai detto:
Un jour, je t’aimerai.
Et alors seulement,
tu seras grand.

T’ho inseguita in queste parole, anche oggi che davanti a questi alunni spiego Henri de Toulouse-Lautrec, e mi sembra d’avvicinarti, ma solo per un attimo, come un déjà-vu caduto nell’ombra, nell’ombra della tua luce, che inseguo senza fine, mentre guardo una ragazza in prima fila e rivolgendomi alla classe dico Toulouse-Lautrec non era un bambino, il n’était pas un enfant, non lo è mai stato, e mi ascolto spiegare che le donne di mezza età sono quelle con l’esistenza più interessante.
Perché una donna, dico, quando finisce di lavorare, si spoglia. Juste comme le fait un homme.

Giochiamo, mi dice più tardi la ragazza, quella che in aula era in prima fila, e me lo dice in un francese che sembra italiano, je suis ta muse et tu es mon peintre.
Adopero la tua lingua, anche stasera, mentre le rispondo ma io non ho talento, mentre la ragazza, piegata, quotidiana, mi dà le spalle e si riveste come provano a vestirsi le bambine, senza il dono ragionato dell’equilibrio.
Mi stai guardando?
Oui… E ti vedo.

E mi manchi, quando avanzo sul sagrato e qualcuno mi sfiora una spalla e allora mi giro verso la facciata della Cathédrale Sainte-Cécile: solo sinuosi ondivaghi mattoni, temo sia il vento che corre dalle acque del Tarn per ravvivarmi la sensazione dei tuoi effluvi, ma la luce s’incide sull’ingresso del museo e in un abbaglio sono alla biglietteria.
Eccomi, nella città di Albi, a poco più di ottanta chilometri da Tolosa. Ti troverò, almeno qui?
Toulouse-Lautrec ha inventato la pubblicità, sento dire a una guida, les affiches du Moulin-Rouge sont le premier exemple d’art vendu au marketing, e mentre guardo questo manifesto vedo due ragazze, fresche nei tratti, gioconde, adibite a custodire la sala ma nessun segreto, le quali invece di svolgere la propria mansione con imposta ordinarietà, discorrono lievi e si accorgono di me, e sorridono, e allora penso che Toulouse-Lautrec non aveva assolutamente in testa nulla di tutto ciò, proprio non pensava al fatto che questi suoi manifesti sarebbero giunti fino a noi, e che io mi sarei ritrovato a fissare dei fac-simile, delle copie, mentre gli originali sono in fase di restaurazione: pour que les générations futures puissent en profiter, mi dirà poi una delle due ragazze, quella che s’è alzata e ora mi viene incontro.

La osservo, qualche passo più lento di lei, mentre mi guida per le strade de la ville rose, mentre cerco di ricordare come siamo tornati a Tolosa: ma avanza come una donna immatura senza spirito, acerba al portamento, controfigura della sua seduzione, con questa sua pelle sagace, che non può fingere un’età che non ha.
Tu me rappelles le pont neuf de Toulouse, mi dice ridendo.
Lo guardiamo, il ponte.
Perché?
Parce qu’il n’est pas neuf, risponde, il est vieux!, ci pensa un attimo, Tu sei un bambino, prova a dirmi, ma vecchio. Tu es comme un vieil enfant.
Allora sento di nuovo che siamo vicini, che sto per trovarti, ancora.

E torno a quell’ultima notte. Mano nella mano, mi hai portato dove tutto si faceva colori alla luce della tua fiamma. M’hai detto: Tu ne seras plus le petit bijou de maman.
Ed è successo. Sotto il passaggio di un treno oltre il muro della stazione. È stata l’ultima volta che mi sono distratto.

Oggi invece mi ritrovo ancora di fronte a una classe: In questo lui e van Gogh non potevano che essere agli antipodi, spiego, entrambi così deformati dalla vita, di certo impossibilitati a ricevere amore, eppure, aggiungo, per ovvie ragioni, il pittore olandese dovette ripiegare su una certa idea di vittimismo, quello della povera reietta la quale, proprio perché rigettata dalla società ed ingiustamente esclusa dalla vita civile, deve per forza essere un’anima bella, dal cuore nobile e puro, senz’altro piena di spirito, e soprattutto capace di profondi sentimenti. Molti critici sostengono che Toulouse-Lautrec avrebbe derubricato tali intenzioni espressive a mere sciocchezze perché, insisto, lui non avrebbe mai risparmiato nessuno e, quando sedeva nel suo studio, lo faceva per ritrarre il vero, concludo.
Ma io non sono d’accordo. No, non sono d’accordo. Perché non vogliamo ammetterlo, ripeto a me stesso, alla mia mente, ma di fronte al bambino, di fronte all’uomo senza altezza, la donna usa parole dolci, gesti di materna tenerezza, c’è un modo di prendersi cura che dipende dall’aspetto, e nulla può la statura intellettuale del tuo animo, la perizia accesa della tua mano, sei solo un bambino innanzi alla signora di mezza età, che ti tocca la testa, e ti dice parole accorte, e ti promette che la vita è luogo sicuro, perché è quello che cerchi, non altro. Tutto il resto è storia dell’arte.

Era questo, ciò che facevi con me?
Guardami. Mi sono fatto grande, vero? Lo so, non sono cambiato. Mi riconosci? Già, non ha funzionato. La tua magia, intendo. Me lo avevi promesso.
Sei il mio unico segreto. No, non l’ho mai detto a nessuno. I miei amici non sanno nulla di te. Nemmeno mamma e papà.
Ti sei presa cura di me. Ogni volta che piego lo sguardo sei nella coda del mio miraggio. Una vertigine in questa mia esaltazione. Ma poi non ci sei.
Mi racconto delle storie incredibili. Avanzo sul filo sottile dell’inattendibile. Mi illudo ogni giorno di ritrovarti. Sì, la fantasia mi tradisce.
Non so come fare. Da quando non ci sei più, la realtà ha smesso di funzionare. Devo crescere, però.
J’ai besoin de toi. Non so più come cercarti. Je ne sais pas comment faire sans toi. Dove sei? Je me sens perdue sans toi.
E da quando ho smesso di spiegare, la studentessa in prima fila non smette di guardarmi.


© Didì Gallese, Distanze, 2025.

Simone Redaelli è un biologo molecolare con un dottorato di ricerca in medicina rigenerativa. Lavora a Milano come Medical Writing Manager nel settore della comunicazione scientifica e come ricercatore in Bioetica all’Università di Zurigo. Nel 2018 fonda Culturico, una piattaforma online che si propone di combattere la disinformazione e la misinformazione scientifica e culturale. Appassionato di lettura e di scrittura creativa, nel 2022 inizia a frequentare i corsi di Raul Montanari. Suoi racconti sono apparsi su «Rivista Blam», «Argonline», «Nazione Indiana», «L’Appeso».


Diana Daniela Gallese (Didì), illustratrice editoriale e artista poliedrica, è diplomata in grafica e illustrazione presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Amante del potere esoterico del nero, delle tenebre, e delle storie orrorifiche, esordisce in editoria con l’albo illustrato La Leggenda di Sleepy Hollow (Officina Milena, 2019). Le sue illustrazioni accompagnano testi editi da Officina Milena, ABEditore, Pidgin, Empireo Editora; collabora inoltre con riviste editoriali nazionali e internazionali tra cui «Tit’s n’ Tales», «9righe», «IMON», «La Nuova Carne», «Bomarscé», «L’Appeso». Collabora con la Casa delle Donne di Avezzano (AQ) ed è parte del collettivo di artisti CRUSH di Roma, per cui realizza eventi e laboratori artistico-creativi.



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