{dis}impegno letterario #4
a cura di Simone Sciamè
Che la vita degli editori indipendenti non sia una passeggiata l’avevamo intuito. Ma quali sono i motivi? Si parla di bibliodiversità, di più di ottantamila libri prodotti nell’ultimo anno; si parla di fiere del libro dai grandi numeri, eppure nei corridoi qualche addetto ai lavori manifesta il proprio scontento. Che fine fanno tutti questi titoli, se in Italia non si legge più? Difficile non affondare in questo mare, se non sei mai salito a bordo. Per questo motivo ho pensato di invitare Emmanuele Pilia (direttore editoriale di D Editore e co-fondatore di Oblivion) e Francesco Quatraro (direttore editoriale di effequ), due personalità attive nel panorama letterario indipendente che, da anni, parlano di cosa voglia dire lavorare come editore indipendente.
Togliamoci subito il dente: partiamo da Più Libri Più Liberi. Tra gli addetti ai lavori ci si segue reciprocamente sui social, e dopo lo scoppio del caso PLPL molti hanno puntato il dito contro Chiara Valerio&Co, accusati tra le altre cose di amichettismo, di essere ipocriti che prima costruiscono la propria reputazione con l’attivismo, sulla superiorità morale, ma che quando necessario chiudono un occhio in favore degli amici, mostrando di avere due pesi e due misure quando si tratta di garantismo. Ora che è passato del tempo, gli editori come hanno vissuto questa polemica? Cosa ne è rimasto, adesso che si sono calmate le acque?
Francesco:
La polemica mi interessa il giusto. Se parliamo di PLPL, noi non partecipiamo alla manifestazione da tre anni con dichiarazioni fatte ogni anno. Facciamo la controfiera, che è una piccola cosa tra pochi editori. Si tiene a dicembre, periodo in cui si fanno le maggiori vendite editoriali, le uscite più importanti vengono programmate proprio per allora, perché c’è il Natale. PLPL è stato organizzato come risposta al Salone del Libro di Torino, fondamentalmente per concedere maggiore marginalità alle case editrici che lamentavano la vessazione delle condizioni dei distributori, e in risposta a questo tipo di mancanze è stata creata una fiera nel fine settimana più importante, anzi nel ponte, quello dell’8 dicembre, in cui in assoluto si vendono più libri. Questa fiera editoriale è stata organizzata prima al Palazzo dei Congressi, poi alla Nuvola di Fuksas. La realtà che principalmente si è occupata di creare la fiera è stata, e resta, l’AIE, l’Associazione Italiana degli Editori. effequ ha partecipato alla fiera per diversi anni, notando una quantità di storture non impacchettabili rapidamente adesso, e infine, nel 2022, ha deciso di non farlo più, per una questione politica e pratica, perché non ci sembrava valesse la pena. Assieme a effequ, hanno compiuto lo stesso percorso diverse altre case editrici, con cui è stata organizzata una piccola “controfiera” negli stessi giorni di Più Libri Più Liberi. Ecco, lo stesso nome della fiera è l’esempio chiaro di quanto il concetto di questa manifestazione sia sbagliato: si dice “più libri più liberi” come se fosse un valore, quando il problema mastodontico dell’editoria sono proprio i troppi libri che si pubblicano. Detto questo, l’impostazione della manifestazione e l’affaire Caffo erano serenamente in linea con quello che ha fatto la manifestazione e che fa l’AIE da anni. Non ha nessun interesse nei confronti dei contenuti, quello che si svolge là dentro è una celebrazione della sovrapproduzione industriale di libri, a prescindere dal loro contenuto, e una celebrazione di nomi già noti, spesso appartenenti a grandi gruppi editoriali (quando la fiera si dichiara esplicitamente “della piccola e media editoria”), nomi che spesso paiono scelti più sulla base della vicinanza amicale che orientati in virtù di una costruzione di un programma fatto di contenuti – pratica chiamata in modo sintetico e forse improprio “amichettismo”. Del resto l’amichettismo è una pratica che andrebbe anche un po’ rivista. Se vuoi una mia opinione, non sono d’accordo che si possa puntare il dito sull’amichettismo. L’amichettismo è fondativo in queste cose, non mi piace, eppure nei contesti culturali è ovunque: lavorare nel mondo dell’editoria sembra essere una continua questione di posizionamento. Questo deprimente approccio è proprio non solo della fiera PLPL, ma di ogni manifestazione a ogni livello, ecco perché puntare il dito può rivelarsi solo questione di opportunità. Tuttavia, PLPL rimane esemplare nell’osservare da sempre, e con più evidenza di tutte le altre manifestazioni, questo tipo di pratiche, perciò anche quello noto come “affaire Valerio” a noi è sembrato un approccio in linea con quanto sempre dimostrato. Ci avrebbe piuttosto stupito il contrario.
Emmanuele:
Sono d’accordo con Francesco sul fatto che l’affaire Valerio sia solo l’epifenomeno di una serie di problemi, che però non riguardano soltanto PLPL. Qualsiasi fiera generalista dell’editoria porta con sé l’impossibilità di creare un vero e proprio programma culturale che sia in qualche modo contributivo di qualsiasi dibattito. Nel tempo, si è formato un gruppo di editori che piano piano si è allontanato da ADEI (Associazione Editori Indipendenti) con cui abbiamo creato delle analisi basate su dati materiali: andando a prendere i bilanci annuali delle realtà – che è necessario ogni volta ricordare non essere Enti Pubblici –, e quindi andando a vedere come vengono spesi i nostri soldi. Quello che emerge è che spesso i nostri soldi non vengono spesi per il miglioramento della fiera in sé, né nel miglioramento delle condizioni lavorative delle persone che sono all’interno della fiera. Le fiere sono ormai dei grandi Parchi Giochi in cui l’unica cosa importante è fare entrare il numero più alto possibile di persone, al di là se questi siano lettrici o lettori o meno. Questo si vede soprattutto nel parco ospiti che viene portato avanti. Ogni anno ci sono sempre più ingressi, ma a fronte di un interesse verso cantanti, attrici e attori, comiche e comici, presentatrici e presentatori. Ogni fiera generalista porta in dote ciò; PLPL ha soltanto attirato occhi più attenti a causa di Chiara Valerio.
Questo presenta il suo conto in modo plastico tra il 2024 e il 2025, biennio in cui abbiamo assistito a un crollo verticale della fiducia degli editori in queste fiere. In questa stagione editoriale abbiamo registrato, in questo gruppo informale di cui ho accennato prima, che in ogni fiera generalista – tranne forse Pisa Book Festival – un malcontento crescente, generato dalla qualità del pubblico (formato non da lettrici e lettori, come dicevamo prima, ma da persone interessate ad altre attrazioni) sia in termini di vendita lorda. Questo è un elemento che non si sottolinea mai abbastanza, ma le fiere le finanziano le case editrici: siamo noi a finanziarle, con i soldi degli stand, e siamo noi a generare l’indotto che circonda il tutto. Un altro esempio di disastro organizzativo è stata la fiera di Genova, che si tiene tra settembre e ottobre: qui bisogna far notare la lungimiranza di un’organizzazione che colloca le maggiori fiere in competizione con altre fiere generaliste indipendenti. Quella di Genova è stata fatta negli stessi giorni del Pisa Book Festival e del Campania Libri. L’anno prossimo si ripeterà la situazione, con l’aggravante che alcune figure professionali sono impegnate sia alla fiera di Genova che a quella di Napoli. Il mondo delle fiere generaliste sta finendo, ormai ha superato una soglia critica in cui inizia a non essere più interessante frequentarle sia come lettrici e lettori, e non più profittevole per editrici o editori. Chi dovrebbe usare il proprio potere contrattuale per porsi in modalità antagonista e fare da punto di contatto tra case editrici e fiere, ossia le associazioni di categoria, non hanno mostrato alcun interesse a intervenire. In tutto ciò, ci siamo noi che i libri li facciamo, che dobbiamo sostenere il costo delle persone che lavorano coi libri e che ci troviamo a pagare il cachet della direzione culturale e i lounge bar allestiti per l’occasione per portarci i giornalisti a prenderci l’aperitivo. Tutto ciò ha poco a che fare con i libri.
A volte si ha la sensazione che o si partecipa a quel tipo di iniziativa o si rischia di essere invisibili. Quale può essere l’alternativa? Può esistere la piccola fiera indipendente che unisce tutti o la maggior parte dei piccoli-medi editori?
Francesco:
Una domanda da un milione di dollari. Innanzitutto dobbiamo chiederci che cosa sia la manifestazione fieristica. In ogni settore esiste e in qualche modo deve riuscire a portare il pubblico in contatto con l’azienda che la produce, ed è l’occasione per le case editrici, che di solito stanno dietro a una scrivania, di essere esposte al pubblico. Alle fiere c’è anche la possibilità di fare vendita diretta: questo è il dato importante per le case editrici, che possono trovarsi a fare profitto senza intermediazione. Questa è peraltro una delle caratteristiche che distingue le fiere editoriali da quelle di altri settori: le case editrici le vivono come occasioni fondamentali per guadagnare in modo diretto, “fare cassetto”. Ecco che, di conseguenza, dall’altra parte, ovvero dal lato di chi organizza fiere, si creano strutture imprenditoriali che, come dice Emmanuele, si fondano sui contributori, in questo caso le case editrici che partecipano affittando lo stand. Il punto è che per la realtà fieristica le case editrici sono clienti, quindi non ha importanza chi siano e cosa producano: fintanto che pagano, funzionano. Io PLPL la frequento da tanto tempo, credo fin dal 2004, perché mio papà aveva una piccola casa editrice e a sua volta partecipava alle prime edizioni. Quindi insomma, ci ho passato quasi vent’anni prima di dire basta. E negli anni ho visto come in differenti epoche si sono susseguiti vari gruppi di case editrici che hanno provato a cambiare le cose. Quello che è stato ottenuto, alla fine, è stato solo di passare da un palazzo di un certo tipo a uno più prestigioso. I costi sono aumentati vertiginosamente e non proporzionalmente a quello che è stato l’aumentare dei costi della vita o del libro stesso. Se i libri prima costavano in media intorno ai 15 euro e adesso intorno ai 18, gli stand costano proporzionalmente molto di più. Questo è un processo industriale inevitabile e non si può chiedere a questo processo di fermarsi, quindi dobbiamo osservarlo per quello che è. Crea una cesura tra l’editoria industriale e quella diciamo artigianale, a conduzione individuale o familiare. Il meccanismo chiede di adeguarsi e questo adeguamento si applica anche per le fiere. Ti dicono: queste sono le condizioni, se non ci sei, passiamo al prossimo. È un meccanismo meramente imprenditoriale: l’offerta e la domanda. Se la domanda è tanta, l’offerta può permettersi di alzare i costi.
Eppure, c’è una differenza. Prendiamo il Salone del libro di Torino: là il meccanismo imprenditoriale suddetto è esplicito: la manifestazione ti dice “noi siamo questo, siamo il Lingotto. Questi sono i costi, puoi partecipare a tuo rischio e pericolo”. La fiera di Roma no, si autodichiara fiera “della piccola e media editoria”, apparecchiando una retorica di cura e di attenzione alle pratiche editoriali minori, quando sta facendo l’esatto contrario: sta portando gli interessi di una grande editoria che ha solo bisogno di stakeholder, come diceva Emmanuele, ha bisogno di case editrici che contribuiscono per portare avanti la baracca. E ogni volta questo processo comporta un prezzo maggiore per questa “piccola e media editoria”. Una cosa curiosa: il programma viene fatto da Chiara Valerio. Chiara Valerio lavora per Marsilio, che è una grande case editrice, non c’entra niente con la piccola media editoria. O ancora: alla fiera “della piccola e media editoria” vengono chiamati grandi nomi, si fanno presentazioni di, per dire, libri Rizzoli, il che crea il paradosso che fisicamente i libri presentati non ci sono, perché Rizzoli è un grande gruppo e non può partecipare alla fiera. Un bel paradosso. E non credo che ci sia la possibilità che un giorno gli organizzatori arrivino e dicano “ah no, ci siamo sbagliati, dobbiamo rivedere a ribasso le nostre aspettative”. Non succederà mai, al limite chiudono i battenti, che forse è quello che io vorrei vedere. Realtà come la nostra non giocano nel loro campionato: loro ci fanno pensare che noi possiamo competere, ma non è affatto così, giochiamo due campionati diversi e la ‘piccola e media editoria’ ci rimette e basta, serve soltanto a fare massa. Non serviamo ad altro che a nutrire la retorica della “bibliodiversità”, quella che vuole che qualsiasi libro prodotto, non importa quale, da chi scritto e con che contenuti, abbia valore di per sé. Una retorica utile a giustificare il meccanismo della produzione incessante di nuovi titoli da immettere sul mercato, valida principalmente per il profitto di chi i libri li muove (i distributori) e non di chi li vende (case editrici e librerie), e meno che mai di chi li legge.
Emmanuele:
Le fiere generaliste stanno morendo perché sono generaliste, non perché sono grandi. Il fatto che siano grandi indica soltanto quale sia il numero di editori o di ingressi attesi. Lucca, con tutti i suoi problemi prima di tutto politici, è una fiera in ascesa. Il problema delle fiere del libro è che sono quasi sempre le fiere del libro borghese. Sono le fiere che promuovono autori che scrivono di cinquantenni che si mettono le corna, di drammi familiari borghesi, di perdita di identità borghesi. Promuovono i libri dello Strega, i libri che vanno in tv. Questa non è una fiera del libro, è una fiera di una tipologia di libro specifica, che però non ha quasi più pubblico. Perché viene fatto? Viene fatto perché la gente viene attirata più dal nome televisivo. Ad esempio, di Scurati interessa più la sceneggiatura per la serie tv, che il fatto che questa serie tv sia stata tratta da un libro. Di quei 200.000 ingressi, in realtà le persone che leggono sono solo una parte. Quando siamo allo stand, una cosa che ci colpisce è vedere quanta gente ci dice “io non leggo, sono qui perché ci sono Barbero e Littizzetto”. E funziona questa cosa, perché per loro ogni ingresso sono 10, 15, 20 euro in base alla fiera, in base alla modalità di acquisto del biglietto. A noi non conviene molto. E poi bisogna dire che chi legge non è detto che sia interessata al catalogo di D Editore o di effequ. Quindi, più che la dimensione, penso che nell’immediato futuro si approfondirà verso una fiera di genere. Il settore si sta muovendo in una direzione di ecosistema di piccole e medie fiere con una forte identità, perché l’editoria più specialistica attrae un pubblico molto più targettizzato, e quindi interessato, che riesce a creare un contesto adatto a lettrici e lettori e a noi stakeholders. Un contesto per cui valga la pena partecipare.

Da poco c’è stata Oblivion che mi pare di capire sia andata molto bene, che sia stata frequentata, almeno così mi hanno detto, io non c’ero. Però vedo che sorridi, quindi è vero. A Oblivion trovi dei lettori che entrano perché vogliono comprare libri, conoscere persone del mondo editoriale, sentire dei consigli, conoscere nuove realtà, no?
Emmanuele:
Be’, non sono così scemo da pensare che Oblivion sia la soluzione, però per me ha senso pianificare un palinsesto annuale di fiere tarate su bisogni degli editori, non su chi monta il cartongesso o su chi deve affittare le sale per le presentazioni. Perché uno dei motivi per cui le fiere gravano così tanto sulle nostre tasche è perché devono durare molto e bisogna affittare le sale per ospitare gli eventi. Questo va contro gli interessi dell’editore, perché spesso deve prendersi una settimana, o più, di ferie, per poter frequentare una. Con tutte le spese accessorie che comporta (personale, strutture, alloggi, eccetera). Questa cosa noi la andiamo a pagare con la nostra presenza, perché essere in una fiera cinque giorni invece di tre, vuol dire poter affittare le sale per 22 ore in più. Ma questi eventi non sono poi neppure promossi: basti vedere come vengono gestiti i social delle varie fiere, e si capisce ancora di più quanto noi serviamo soltanto a far fare cassa. A un incontro avuto con una grande fiera romana, rispondendo alla richiesta di togliere un giorno alla fiera, ci è stato detto abbastanza palesemente che questo è impossibile, perché anche se non viene nessuno comunque loro devono vendere gli affitti per le sale per fare gli eventi. Allora a quel punto alzano le mani, perché la nostra presenza è subordinata a questo, a farci affittare le sale.
Francesco:
Poi è chiaro che alcuni eventi sembrano essere costruiti senza tenere conto delle realtà che andranno a partecipare. Io ricordo certi incontri con le promozioni editoriali dentro dei Grand Hotel: uno poi si chiede perché un’attività tanto parca e che lamenta sempre un “mercato in crisi” debba essere tanto lussuosa. Erano, e credo siano ancora, approcci sovradimensionati rispetto al tipo di mercato in cui ci muoviamo. Il mercato editoriale fattura tantissimo, è vero, più di quello cinematografico, ma noi sappiamo che si tratta una bolla. Sappiamo che i fatturati espressi vengono calcolati su quella che è la fornitura di libri. Perché il mercato funziona, in estrema sintesi, così: i libri vengono forniti alle librerie al momento del lancio; le librerie pagano subito quella fornitura al distributore, che a sua volta li pagherà alla casa editrice. Tuttavia, su quel fornito c’è un diritto di resa da parte delle librerie: vale a dire che possono, solitamente entro 120 giorni, rendere quella fornitura (tutta o in parte). Ecco che poi quella quantità di merce fornita (ovvero fatturata) torna indietro, e quella cifra venduta torna indietro all’editore, che non verrà pagato dalla distribuzione. Il fatto è che questo reso delle librerie non fa statistica, perché i fatturati di cui si parla sono dati solo dalla fornitura. Ecco spiegata la bolla. Il punto è fornire in continuazione le librerie, che poi manderanno indietro i libri e ne prenderanno degli altri, in un eterno meccanismo di produzione editoriale. Ecco spiegato anche perché si fanno così tanti libri: l’importante è fatturare in ingresso, gli ammanchi del reso si tapperanno poi con altre forniture. Spiegato poi come le case editrici vadano in affanno: sono praticamente tutte in rosso, e tutti i movimenti dei grandi gruppi – per esempio, Feltrinelli – dall’inizio del millennio più o meno in poi sono movimenti mirati a contenere quel rosso. Le varie fusioni di aziende, le varie acquisizioni. Mondadori che si fonde con Rizzoli, Messaggerie che acquisisce PDE (un tempo la principale azienda di promozione e distribuzione editoriale), Feltrinelli che si fonde con Messaggerie. Adesso Feltrinelli controlla il 70% del mercato editoriale, possiede la distribuzione, i punti vendita, ma tutto ciò l’ha fatto perché quel suo pezzettino non gli bastava. Le manifestazioni di cui parla Emmanuele non possono essere sostenibili. Una manifestazione, ma non solo di genere, è sufficiente che abbia dei costi contenuti e con dei criteri molto chiari, molto specifici, come hai detto anche tu, Simone. Serve a farsi conoscere, alle persone che sono interessate delle realtà nuove. Se sono di genere è ancora più targettizzato, ben venga. Ma essere sostenibili significa che i costi e il setting devono rientrare in un pareggio di bilancio. All’organizzazione di PLPL non interessa con cosa riempi la fiera. Interessa che prendi lo stand. A noi invece, per la dimensione che abbiamo e gli obbiettivi che ci poniamo, interessa in primo luogo concentrarci sui contenuti. Su questo sono d’accordo con Emmanuele, bisogna creare una situazione sostenibile, più diffusa ancora. Anche fiere, come dire “generaliste”, ovvero plurali, vanno bene, perché abbiano un tema, un programma, un contenuto. Ne esistono tante: giusto per fare un esempio, SherBooks a Padova, che a suo modo non è targettizzata, ma è una manifestazione che funziona benissimo. Ha un suo programma, è frequentata ed è sostenibile.
Per accedere alle sale di fiere come PLPL, L’AIE ti dice che il tuo fatturato deve essere meno di 5 milioni l’anno. Adesso l’hanno portato a 10. Vale a dire che una casa editrice “piccola e media editoria” è una che fattura meno di 10 milioni l’anno: una cifra che ovviamente non fattura nessuno, a parte i grandi gruppi. Manca un settaggio istituzionale per quella che viene considerata piccola e media editoria, perché l’editoria è composta da tante microimprese. Non possiamo pensare di trattare l’editoria, in Italia, come impresa qualunque: l’AIE usa i criteri dei fatturati generici dell’imprenditoria per catalogare le case editrici, salvo poi dire che il mercato editoriale è speciale e unico. Oltre a contraddirsi, danno mostra di non aver proprio alcuna nozione di cosa sia il mercato editoriale. O almeno, di non sapere cosa sia il mercato editoriale nella sua sua forma “piccola e media”, pastrocchiata e confusa con la grande editoria industriale. Tanti elementi, invece, ci suggeriscono che il mercato è cambiato. Prima esistevano soltanto grandissime realtà e altre, come dire, provinciali, chiamiamole, locali. Negli ultimi anni le realtà piccole, ma non locali, anzi di portata nazionale, si sono moltiplicate: si tratta di realtà a gestione familiare o individuale, ma che resistono e fanno parte del mercato a pieno diritto. Questo aspetto sembra essere passato completamente inosservato alle istituzioni. Basterebbe cominciare a fare una distinzione tra quello che è editoria industriale e editoria artigianale. Se noi facciamo venti titoli l’anno, non possiamo star dietro a chi ne fa duecento. Se devo adeguarmi a quel settaggio comincio a produrre di più e faccio schifezze, o comunque vada, non bado al contenuto. Ed è così che viene meno proprio lo stesso lavoro editoriale.
Nessuno si è mai seduto a una tavola rotonda per parlare seriamente di questa cosa?
Emmanuele:
Sì, ci sono stati degli esperimenti che però sono stati frustrati nel momento in cui bisognava portare il gioco a dama. Posso portare la mia esperienza: io ero dentro l’ADEI e sono stato nominato come coordinatore di un tavolo di lavoro proprio in merito alla distribuzione. È stato un tavolo che ha avuto una vita abbastanza breve: un anno e mezzo. Ma insieme ad alcune e alcuni colleghi abbiamo pensato di coinvolgere commercialisti o esperti di diritto che si sono prestati alla cosa in modo volontario. In una fase successiva, avremmo voluto parlare anche con delle persone che lavorano con l’Antitrust e con degli avvocati penalisti di diritto aziendale. Perché? Perché a un certo punto siamo arrivati ad aggiungere che c’erano delle situazioni poco limpide all’interno dei rendiconti che venivano portati agli editori mensilmente, e volevamo far luce su tutto quanto. Ma quando si è trattato di fare un passo in più, abbiamo visto mancare il supporto al nostro lavoro. Un po’ per paura, un po’ perché l’editoria è un settore molto conservatore, chissà. Ma questo è vero: l’editoria è un settore reazionario, non è un settore avanguardista né innovativo. Le innovazioni di contenuto non rispecchiano le innovazioni del mercato che è fermo a un passettino oltre il salumiere che fa i conti sulla carta da pane. E noi in generale non siamo bravi imprenditori, siamo molto immaturi imprenditorialmente parlando. Anzi, posso dire senza paura di essere smentito che un po’ tutto il settore è connotato da un’immaturità imprenditoriale disarmante. Me compreso, ovviamente. Forse è riduttivo dire che vi è solo una causa alla crisi che viviamo, ma sicuramente è uno dei motivi per cui la situazione dal punto di vista della distribuzione, dell’associazionismo, è così arretrata una buona parte della nostra immaturità come attori economici.
Anche perché nessuno ci forma per diventare buoni editori. A volte nemmeno avendo frequentando corsi specifici.
Emmanuele:
Siamo tutti bravi editori. Tutti pubblichiamo bellissimi libri, anche quelli che non mi piacciono sono sicuramente dei bei libri rispetto al loro mercato di riferimento. Ma non siamo bravi imprenditori, non sappiamo elaborare una buona pianificazione. La maggior parte di noi non sa manco come si fa un business plan più lungo di tre mesi. E non sono cose che dico a caso, sono cose che dico dopo la mia esperienza da consigliere dell’ADEI durante la quale sono stato esposto alle esperienze di decine e decine di colleghi. Colleghi che non sanno nemmeno che l’istituzione che produce ISBN è privata.
Francesco:
Che appartiene a Messaggerie.
Emmanuele:
Aspetta, non dirlo se no ti querelano [ride]. Appartiene all’AIE.
Francesco:
Appartiene all’AIE, è vero, però…
Emmanuele:
L’ente che si occupa di trasmettere i dati dei libri che noi forniamo ci fa pagare per fornirgli i dati. Cosa sono questi dati? Sono dati che servono a far sì che quando tu vai su Amazon trovi le schede complete dei nostri libri, con la copertina, la descrizione del libro, e così via. Se trovi quei dati è perché noi li abbiamo forniti a una società chiamata Informazioni Editoriali, che appunto ti chiede dei soldi per potergli dare quei dati (che loro poi venderanno). Informazioni Editoriali è una SRL che è posseduta da Messaggerie, ancora una volta. Quindi c’è quello che viene chiamato monopolio verticale, che è illegale in Italia.
E perché non c’è un’azione di questo tipo da parte dell’Antitrust?
Francesco:
Perché non ci sono associazioni che fanno questo, ovviamente. L’ultimo, che ricordo dove poi ci cascarono le braccia: eravamo io, Emanuele Giammarco di Racconti Edizioni, al BookPride Milano, insieme ad Andrea Palombi e un altro esponente che rappresentava Messaggerie. Andrea Palombi, all’epoca, era vicepresidente di ADEI (ora è presidente di ADEI), e si crearono due schieramenti. Noi stavamo provando a dire che la richiesta di titoli era troppa. Ci eravamo ritrovati a chiedere cose come togliere la franchigia per le rese – in sintesi, noi dobbiamo pagare pure per i libri che ci vengono resi dalle librerie, e la richiesta era di evitare i costi in più anche per il reso. Stavamo inoltre sollevando l’opportunità di togliere l’esclusiva dal contratto di distribuzione, cercando di avere più elasticità nei rapporti di forniture con le librerie. Venimmo ignorati. La fazione era Messaggerie e il vicepresidente di ADEI contro noi due. ADEI era dalla parte di Messaggerie.
Emmanuele:
Allora mi permetto di aggiungere una cosa, ossia che anche l’esclusiva, così come è conformata, non è legale, o per lo meno è illegale se consideriamo che viene usata come piede di porco per inserire clausole vessatorie. In genere, l’esclusiva deve essere offerta in cambio di una compensazione, non essere posta come sine qua non, e punita se non si rispetta. Cosa vuol dire? Immaginiamo che io sono un distributore e tu sei un editore. Se io ti chiedo “Voglio distribuire i tuoi libri, in cambio ti do il 50%”, abbiamo un accordo. Ma poi posso aggiungere. Nel territorio del Lazio, però, voglio l’esclusiva; in cambio ti cedo il 3% per i libri venduti nel territorio laziale (quindi, riceveresti il 53%, invece del 50%). Però questa cosa non viene fatta, anzi, come dicevo, l’esclusiva è una sine qua non a cui vengono allegate delle multe in caso questa esclusiva venga violata.
Francesco:
Come puoi vedere, Simone, ora potremmo andare avanti per ore, perché è pieno di pratiche ambigue. La stessa gestione monopolistica necessiterebbe dell’Antitrust, ma ce lo ricordiamo l’Antitrust in Italia come funziona? Ce li ricordiamo agli anni ’90?
Emmanuele:
Avevamo trovato le persone interessate. Era proprio un’amica di Magda, che era interessata a seguire il caso, però poi non si riuscì a procedere. Ma vi sono anche altri fatti assurdi. Ad esempio, mesi fa ci fu un panel organizzato dai librai e dagli editori che stavano descrivendo, dal loro punto di vista, la questione. Durante quell’incontro si alzò il capo di Messaggerie presentandosi dicendo: “io sono Messaggerie”, e subito dopo si mise a snocciolare dati falsi. Un altro evento accaduto a me: ci fu un incontro tra alcuni colleghi e Messaggerie. A un certo punto, perché dovevano giustificare l’aumento di prezzo di un software che usano loro per gestire dati, si disse una frase: “il costo dei metadati è aumentato”. Ma i metadati li forniamo noi a Informazioni Editoriali, che come dicevamo prima è una SRL di loro proprietà. Mi sono permesso di intervenire per dire: “scusate, ma che vuol dire che i prezzi dei metadati sono aumentati?” I metadati, ricordo, sono la quarta di copertina, il nome dell’autore, il nome del traduttore, e così via. Li mettiamo noi a disposizione, perché dovrei pagarli? In nessun paese che usa il sistema ISBN c’è questa cosa. Lui semplicemente mi chiuse il microfono – era un incontro online – e disse che non era vero, disse che Informazioni Editoriali era un’altra SRL, che Messaggerie è diverso da Gruppo Messaggerie, e insomma, la imbastì in quel modo. Gli altri editori non capirono cosa stesse succedendo.
Francesco:
In questi anni non è cambiato nulla, anzi la situazione è peggiorata. Noi stiamo parlando di una fiera, PLPL, che è organizzata da l’AIE, la medesima agenzia che partecipa a queste cose. È ingestibile. Per questo le piccole realtà stanno cercando di organizzare eventi alternativi tra loro, perché è l’unica maniera che hanno di sopravvivere. Trovo assurdo che si debba addirittura sperare in una regolamentazione del mercato. Esistono dei fondi che vengono erogati all’editoria, ma non si capisce su quale criterio vengano distribuiti. Di sicuro, noi non li abbiamo mai visti. Eppure il nostro codice ATECO è il medesimo di altre imprese che pubblicano giornali e ricevono fondi per le loro pubblicazioni. Durante il lockdown del 2020, per esempio, alla stregua dei quotidiani, fummo considerate realtà che dovevano continuare a lavorare. Tuttavia il trattamento che abbiamo rispetto ad altre realtà editoriali è difforme. Diciamo che anche le formalità burocratiche intorno all’editoria non sono chiare e non sono aggiornate.
Emmanuele:
Dobbiamo ringraziare Renzi per questo. C’era la questione dei rimborsi per l’aumento del prezzo delle carte alla linearia. Quello fu fatto durante il lockdown. E Renzi però fece l’emendamento che fu approvato dalla loro maggioranza, di mantenere aperte le librerie e quindi il settore editoriale secondo le metriche del governo non sarebbe stato penalizzato.
Francesco:
Si basa tutto sulla fornitura: se chiudono le librerie, quella fornitura va in rosso rapidamente. Per salvare la bolla editoriale hanno tenuto aperti i punti vendita, perché quella bolla doveva continuare ad alimentarsi. Hanno continuato a lavorare. Durante il 2020 hanno lavorato benissimo sia le case editrici che le librerie. Il 2020 fu un anno straordinario, lo ricordiamo ancora con gioia. L’unica realtà che andò male fu Feltrinelli, che infatti poi si comprò Libraccio per rimediare al danno, alimentando un contesto di monopolio che andrebbe interrotto. Feltrinelli, che è vicino a Messaggerie e che a sua volta è vicino ad AIE, paradossalmente dovrebbe combattere Mondadori e Amazon, per farti capire il livello in cui siamo. Non avere la possibilità di scegliere più distribuzioni è un grosso limite. Gli altri paesi ne hanno di più, noi ne abbiamo tre, quattro, ma non sono indipendenti, appartengono tutti a gruppi editoriali.
Se dovesse nascere un nuovo distributore, definiamolo “ideale”, uno su cui proiettare le vostre aspettative affinché il sistema distributivo funzioni, come dovrebbe essere, secondo voi? Come dovrebbe comportarsi un buon distributore?
Emmanuele:
Basterebbe non inserire tutte le gabelle che caricano sui margini degli editori, già questo migliorerebbe tantissimo il problema dei margini (ancora una volta, si parla di soldi, ma non possiamo dirci materialisti se non lo facciamo). I due principali distributori, Ali e Messaggerie, guadagnano ormai più dalle gabelle, che sulla vendita dei libri.
Cosa sono le gabelle? Sono piccole tasse, piccole multe che vengono applicate determinate a condizioni che sono sotto il loro controllo. Non posso dire a voce alta che manipolano queste multe, però vorrei portarti un esempio: alcuni distributori applicano, se si superano alcune percentuali di resi, delle penali in percentuale crescenti. Ma se il distributore riceve ordini per mille copie, e all’editore ne ordina 1.700, perché così faccio magazzino, sto manipolando la possibilità che queste condizioni si avverino, ossia che almeno 700 copie restino nel magazzino e diventino prima o poi resi. Il fatto è che noi non abbiamo controllo sui nostri libri. Quindi ci vorrebbe maggiore controllo sui libri, oltre che l’eliminazione delle gabelle. La logistica dovrebbe essere pagata dal distributore, non da me. È come se l’autore mi pagasse l’affitto dell’ufficio, che senso ha?
Emmanuele:
I costi potrebbero essere fissi, tanto per cominciare. Dare un costo fisso a seconda di quanti libri si producono l’anno, invece di calcolare sulla percentuale. Se c’è un lavoro in percentuale il partenariato non deve gravare solo sulle spalle del contribuente. Eliminando tante piccole cose, non è che si elimina il problema della lettura, però se restituiamo la capacità di scelta alle case editrici permettendo loro di lavorare, abbiamo fatto un passo avanti. Si potrebbero superare quei dibattiti come “il popolo non legge più”. Non legge più perché è inondato di libri. A una diminuzione della domanda corrisponde un aumento dell’offerta. Per anni siamo andati avanti così e anno dopo anno aumentano le tonnellate di libri che vanno al macero. In uno dei tanti incontri a PLPL con Messaggerie eravamo io, la tipografia Geca e l’AD di Messaggerie. L’AD di Messaggerie raccontò molto candidamente – non mi ricordo adesso il numero esatto – delle decine di tonnellate di libri che andavano al macero ogni anno. Anche questo è un aspetto del nostro lavoro da non sottovalutare. Questa strategia di accumulo del macero è un aspetto di cui parlava Gian Arturo Ferrari, nota mente editoriale degli anni ’90 che già all’epoca faceva conferenze sulla necessità del macero. Sono strategie che sono state sviluppate industrialmente. Le cose non sono cambiate. Si è fatta aumentare la produzione e basta.
Questo da parte di Messaggerie viene riconosciuto come un problema? Lo sta affrontando o è una cosa che va a suo favore?
Francesco:
Va a suo favore, certo. In realtà è il loro modello di business, e aumenta il numero difatti. Lo riconosce come una necessità. Però tu, piccolo editore, o aderisci a questo sistema o è impossibile creare un “controsistema”.
Emmanuele:
Non esistono solo Messaggerie e Ali, per fortuna. Io utilizzo cinque distributori, a cui non ho ceduto alcuna esclusiva. E di cinque distributori, considerando l’assenza di varie gabelle e multe, riesco a marginare il 50% in più di quanto non riuscirei altrimenti. Chiaramente è più faticoso lavorare, ma funziona.
Francesco:
Un editore si può organizzare in autonomia. Ci sono realtà che lo stanno facendo, che si sono svincolate. Anche se non pienamente. Esistono maniere alternative di organizzarsi, ma su questo abbiamo potere di agire solo in quanto singoli. Nel frattempo, la produzione sterminata rimarrà tale. Finché il meccanismo non viene intaccato, chi ne risente è il lettore. L’idea che circola è “tanto ormai pubblicano solo merda”, che è un luogo comune, ma ha un fondamento. Il fondamento è che si produce così tanto che per cause di forza maggiore la merda viene a galla.
A proposito di questa bibliodiversità, come si usa dire adesso. Ho cercato di estrapolare una dichiarazione di Lorenzo Armando, che ormai risale al 2023, che mi piacerebbe leggervi per avere un vostro commento.
“Non penso che sia il fair trade nel modo in cui funziona oggi a poter garantire la visibilità. Siamo noi che dobbiamo trovare soluzioni e non credo nemmeno che il problema sia diminuire il numero delle pubblicazioni. Noi lavoriamo sulle nicchie, come tutte le piccole e medie imprese nel mondo economico, e al giorno d’oggi esistono degli strumenti che possiamo utilizzare come meccanismi di disintermediazione della filiera, come il web e l’e-commerce, che possono aiutarci a consolidare e a dare visibilità a ciò che produciamo. Tuttavia, bisogna farlo con un di più di innovazione ed efficienza che al momento manca. Penso ad esempio al print-on-demand (al POD) o alla gestione dei metadati. E anche questo è un aspetto sul quale cercheremo di lavorare.”
Emmanuele:
Parlare di web e ecommerce nel 2023 non è proprio all’avanguardia. Ma oltre a ciò: 1) non si sono mai venduti così tanti libri; 2) il punto sono solo i margini. Quando compro gli ISBN sto dando i soldi all’Agenzia ISBN, e poi fornisco i metadati a Informazioni Editoriali che, come già detto, è appartenuta al Gruppo Messaggerie. Buona parte delle librerie sono anche di Messaggerie. Anche molte librerie che da fuori sembrano indipendenti, in realtà sono Ubik sotto mentite spoglie – e guarda caso anche Ubik è di Messaggerie. Insomma, date queste premesse, se un mio libro viene venduto dentro una Ubik, i soldi vanno a Messaggerie in ogni caso. Se vengono venduti da Feltrinelli, una parte di quei soldi va ancora a Messaggerie. Se i miei libri usati vengono venduti da IBS, parte di quei soldi vanno comunque a Messaggerie. Per questo ho investito molto nel nostro sito quest’estate. Vendiamo molto dal sito, sono le uniche vendite da cui c’è un guadagno che abbia senso, però tutto il resto delle copie che vengono vendute portano a margini che vanno dal 30 al 50%, considerando tutta la Nassiriya che ci sta dietro, tra stampe, compenso dell’autore. Quindi, puoi avere Instagram curato quanto ti pare, ma fin quando i margini sono assorbiti in mille piccole forme da un ente che ha un approccio predatorio su tutta la filiera, non ha senso parlare di internet come avanguardia. Dire nel 2023 che il futuro è internet non ha alcun senso.
Francesco:
Credo che sia semplice la questione: noi subiamo un eccesso di offerta. Dobbiamo andare a intaccare questo sistema, perché fa male a tutte le realtà editoriali. Finché non ci sganciamo da questa realtà distributiva, possiamo permetterci di fare tutti gli ecommerce del mondo, ma la realtà editoriale rimarrà la stessa e resterà la confusione in merito ai contenuti. A noi interessa che le persone leggano. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo andare controcorrente. Non possiamo accontentarci di trionfare editorialmente, dobbiamo fare leggere le persone, far riscoprire la nicchia. Il retroterra può e deve essere valorizzato. Intorno ai libri si creano le comunità e, soprattutto ora che internet è agli sgoccioli, dobbiamo puntare su comunità eterogenee che abbiano gusti diversi. Detto questo però non possiamo rifugiarci dietro l’idea che bibliodiversità significhi che ogni libro prodotto vada bene. Perdiamo di vista l’obiettivo: la scelta è importante. Noi tutti vogliamo che l’editoria prosperi, ma ognuno deve partecipare e prosperare nel suo campionato. Dall’altro lato, in qualche modo, trovare il modo di produrre meno.

Vi chiederei di tornare con la mente al momento in cui avete pensato di voler fondare una casa editrice. Qual è il consiglio più prezioso che vi dareste? E quale cruda verità non vi nascondereste?
Francesco:
Sono la stessa cosa: fai attenzione perché le passioni durano poco. Un po’ sibillino, ma è così.
Emmanuele:
Il consiglio è non romanticizzare questo lavoro. Studia non solo i pensatori anarchici, ma anche contabilità.
Verità cruda: questo settore è composto da rubagalline incompetenti.
A questo punto della chiacchierata, chiedo ai miei ospiti di pensare all’editoria e di provare ad accennare della sana autocritica. Quale aspetto dell’editoria vorreste cambiare? Quale invece vorreste che rimanesse fedele nel tempo?
Francesco:
Cosa deve rimanere nel tempo: la comunità. I libri possono essere oggetti-feticci, ma riescono ad addensare grammatiche non verbali che sono mancanti fuori da questo mondo.
Emmanuele:
È un settore molto politicizzato. Ma in un futuro questo potrebbe cambiare, ed è un timore concreto se pensiamo ai cambiamenti macropolitici in atto. Mi dispiacerebbe se andasse persa la forza politica e di militanza del libro.
Il vostro ricordo più memorabile e il più trascurabile della vostra esperienza editoriale.
Francesco:
Dimenticabili sono tutte le convention in cui l’editoria sembrava un posto di lusso per persone di lusso (buona parte delle case editrici sono un passatempo di persone che hanno un patrimonio maturato con altro). Luoghi in cui riconosci che c’è una differenza nelle intenzioni e nell’estrazione sociale. Di bei ricordi ne ho tantissimi. Uno in particolare che mi viene in mente: un romanzo finisce in una scuola di Bari, nel 2020. Duecento studenti dai 15 ai 17 anni hanno letto il libro e ne hanno discusso tutti insieme con l’autore.
Emmanuele:
Memorabile il giorno in cui abbiamo vinto il bando per il catalogo della Biennale di Venezia Architettura. Nella mia testa, da laureato in Storia dell’Architettura, era il massimo che potessi raggiungere. Avevamo progettato un’idea molto complessa, che piaceva a noi. L’idea era quella di creare volumi a impatto zero. Avevamo chiesto consulenze a ingegneri. Fu davvero memorabile.
Trascurabile: il fatto che il mondo di D Editore si regga in piedi su una rete di invio di meme. Meme che girano a tarda notte, ovviamente. Ci mandiamo tutti gli stessi meme. Io a Magda, lei a Claudio, Claudio a un autore. Magda mi dice che non è trascurabile ma è centrale, e forse sono d’accordo con lei.
L’insostenibile paradosso del mercato editoriale – Dialogo con Emmanuele Pilia e Francesco Quatraro è il quarto appuntamento di {dis}impegno letterario, una rubrica a cura di Simone Sciamè.

Emmanuele Jonathan Pilia, laureato in Storia dell’Architettura, co-fondatore di D Editore e di Oblivion, è anarco-mujahidun e simpatizzante di ogni fiamma.

Francesco Quatraro (1982) è editor e redattore. Ha fondato e dirige la casa editrice effequ. Di formazione filosofica, lavora in redazione dal 2008; ha iniziato come lettore dal portoghese e ha svolto circa dieci mestieri differenti che con l’editoria avevano a che fare in modo probabilmente tangenziale. Ogni tanto compaiono suoi scritti su riviste italiane (per esempio «In fuga dalla bocciofila» o «Menelique»). In un’altra parte della vita di cui parla poco è compositore, cantante e producer musicale.
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