MARGINALIA #6
di Giulia De Vincenzo
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The Cure, Alone
Mi convinco sempre di più che quella di leggere sia una delle poche forme residue di libertà concesse all’essere umano.
Recentemente, approfittando della ristampa da Sellerio editore, ho letto Panorama di Tommaso Pincio. Il protagonista, Ottavio Tondi, è un lettore seriale che gode del lusso della marginalità, in quanto si limita a leggere senza altri scopi, e per questa sua passione trova lavoro come lettore di manoscritti presso una nota casa editrice alla quale si allude con il soprannome di “la Bianca”. Ma appunto, nei tempi che corrono, quello della marginalità è un lusso e, in qualche modo, bisogna pagare un prezzo per sfuggire al Mondo del Visibile.
Il prezzo è probabilmente rappresentato dalla costante tendenza a dubitare. In primis, l’amore per le parole induce a dubitare delle cose e delle persone alle quali quelle parole dovrebbero corrispondere e che non avranno mai un’analoga bellezza né saranno mai all’altezza del pensiero e delle sue forme più intime.
Nello specifico del romanzo di Pincio, Ottavio Tondi dubita dell’esistenza di Ligeia, una donna conosciuta sul social network Panorama, con la quale intrattiene una sorta di corrispondenza per quattro anni e di cui si innamora. A un certo punto, però, inizia a credere che dietro la sua esistenza si celi il vendicativo scherzo di un poeta il cui manoscritto era stato da lui rigettato anni addietro.
Non è così folle credere che quella donna che porta il nome di un racconto di Edgar Allan Poe sia una metafora dell’amore incorporeo e tenace per la Letteratura: veicolato unicamente attraverso le parole scritte, in assenza di suoni e in raccoglimento, qualcosa da cui è impossibile separarsi.
Ma torniamo al lusso della marginalità. Un altro suo difetto è la limitata durata nel tempo, infatti il Mondo del Visibile reclama a sé chiunque provi a eluderlo e così Tondi si ritrova a diventare un “lettore pubblico”, una voce critica suo malgrado autorevole che paradossalmente ripropone l’attività solitaria della lettura sui palcoscenici d’Italia facendosi osservare mentre sul suo divano – appositamente trasportato – si dedica alla lettura di un libro.
Questa visibilità lo renderà un bersaglio e lo porterà a dubitare della vocazione che era stata la sua unica ragione di vita, la sua unica forma di piacere, inestricabile persino dal sesso. La crisi della propria vocazione di lettore ha come sbocco quasi immediato la scrittura, praticata in una forma privata e nutrita di ricordi di lettura e di immagini rubate sul social, quelle di Ligeia.
Leggendo il romanzo di Pincio non ho potuto fare a meno di pensare a Kafka, a cui tra l’altro il romanzo stesso allude come a colui che «si duole per lo scarso tempo concesso a quella che considera la sua vocazione». Ma ho pensato a Kafka in maniera traslata, attraverso l’opera di un altro autore: Seymour. Introduzione di J. D. Salinger. Il racconto, filtrato dalla voce di inchiostro di Buddy Glass, è introdotto da due citazioni, una di Kafka e una di Kierkegaard, apparentemente irrelate. Le riporto entrambe:
Gli attori, quando me li vedo davanti in carne ed ossa, riescono sempre a convincermi, con mio grande orrore, che quasi tutto ciò che ho scritto su di loro fino ad oggi è falso. Ed è falso perché li descrivo con immutabile amore (anche adesso, mentre scrivo, tutto diventa falso) ma con mutevole abilità e questa mia incostante abilità non riesce mai a dare un’idea esatta di come siano veramente gli attori nella realtà, si perde scioccamente in questo mio amore che non potrà mai essere soddisfatto dalla mia abilità e che perciò pensa di proteggere gli attori se riesce ad impedire all’abilità di esprimersi pienamente.
È come se (se vogliamo descrivere la cosa con un’immagine) a uno scrittore capitasse di fare un lapsus calami, e questo suo errore cosí tipicamente impiegatizio acquistasse consapevolezza di esistere. Magari non d’un errore si trattava ma, in un senso ben piú elevato, d’una parte essenziale dell’intero discorso. Sarebbe un po’ come se questo errore così pedestre si rivoltasse, per puro odio, contro lo scrittore, gli proibisse di correggerlo e dicesse “No, non permetterò che tu mi cancelli, rimarrò per testimoniare che come scrittore vali ben pocо”.
Sembra quasi di scorgere dietro l’incapacità kafkiana di descrivere gli attori nella realtà la dolente inibizione a esprimere pienamente la propria abilità letteraria, dettata da un deleterio istinto di protezione.
Di questa interpretazione la citazione di Kierkegaard parrebbe un’ideale prosecuzione perché allude alla personificazione della inadeguatezza che irride allo stesso scrittore.
E questa premessa serve a Buddy Glass per giustificare in qualche maniera il suicidio del fratello Seymour. Infatti, poco più avanti, si legge: «affermo dunque che l’artista-veggente, quell’angelico buffone che sa e può produrre la bellezza, è in generale trafitto a morte dai propri scrupoli, le forme e gli accecanti colori della sua coscienza umana».
Una linea ideale congiunge il destino di Seymour Glass e quello di Ottavio Tondi: ha il colore di quella malinconia che è solo «un eccesso di consapevolezza di quel che in effetti siamo: creature ridicole, limitate, mortali».
Quella linea curva quanto basta per abbracciare il ricordo di Kafka, del suo rapporto problematico con il padre, del salto finale coperto dai rumori del traffico (come nel racconto La condanna), dell’andirivieni altrui come ultima traccia di sé.
Ma se al dubbio dessimo il nome di possibilità, non sbaglieremmo a comprendere in quella curva anche il pensiero esistenzialista di Kierkegaard, che poggia proprio sull’ambivalenza del concetto di possibilità: da un lato libertà di decidere, dall’altro responsabilità di scegliere. Questa ambivalenza genera angoscia e spinge l’uomo all’incontro/scontro con la fede, che diventa al contempo rifugio e nemesi.
Una religiosità dal respiro universale se intesa come sensibilità estrema, disperata attesa di qualcosa, di una salvezza insperata eppure ottusamente cercata, si accompagna ad un costante senso di colpa. Trascendendo i particolarismi dell’ewiger jude, del cristianesimo paradossale o della devozione alla Signora grassa.
Anche nella Religione delle Lettere abbracciata da Ottavio Tondi, l’attesa dell’indefinito lo carica di potere e condanna l’uomo a un processo senza fine di consumazione, di distruzione della realtà. Lo rende un prigioniero in costante sorveglianza di sé stesso, come nel Panopticon di Bentham, il cui principio, giocato sulla perfetta circolarità e sul preciso equilibrio tra luci e ombre, si ripropone in Panorama, dove il protagonista si muove come un dannato in cerca di redenzione, secondo la logica luciferina e inaggirabile del Mondo del Visibile.
Recentemente – proprio su un social – mi è capitato di discutere di Seymour. Introduzione con un altro lettore, che ha definito il racconto “una delle preghiere più strazianti scritta da anima umana”. Una preghiera scritta. Il che contraddice l’apparente demonizzazione della scrittura come degenerazione della libertà del lettore, che mi pareva la premessa stessa di Panorama.
Sullo stesso social, pochi giorni dopo, ho pubblicato un post sul romanzo di Pincio, ottenendone un breve scambio di battute con l’autore. Pincio mi ha scritto che per lui non c’è troppa differenza tra lettura e scrittura: entrambe nascono da un personale modo di stare al mondo e di dare forma ai pensieri.
Da lettrice, mi sono chiesta se questa identità sia il criterio per riconoscere uno scrittore di professione. E la risposta che mi sono data, e che mi sembra riportare tutti i nodi al pettine, non poteva che essere una citazione:
Ma quando hai fatto dello scrivere la tua professione? È solo e sempre stata la tua religione. È cosí. Sono un po’ eccitato ora. Poiché questa è la tua religione, lo sai che cosa ti sarà chiesto quando morirai? Ma prima lascia che ti dica che cosa non ti sarà chiesto. Non ti sarà chiesto se stavi scrivendo qualcosa di magnifico o di commovente al momento della morte. Non ti sarà chiesto se era un racconto lungo o breve, triste o lieto, se avevi già trovato un editore o non ancora. E non ti sarà chiesto se ti sentivi in forma, scrivendolo, o meno. Non ti sarà chiesto neppure se avresti proprio desiderato scrivere quel racconto o romanzo sapendo che i tuoi giorni erano al termine – credo che soltanto al povero Sören K. sarà fatta una domanda del genere. Sono sicuro che ti saranno poste solo due domande. Seguivi le tue stelle quando scrivevi? Ci stavi mettendo tutto il cuore? Se solo sapessi come sarebbe facile per te rispondere di sí a tutte e due le domande. Se solo ti ricordassi ogni volta che ti metti al lavoro che sei stato un lettore molto prima di essere uno scrittore. Tieni sempre presente quello che ti dico e poi mettiti al lavoro e chiediti cosa vorrebbe leggere Buddy Glass se potesse scegliere secondo il suo cuore. Fatto questo, il primo passo è terribile ma anche cosí semplice che non riesco quasi a crederci mentre ti scrivo. Ti siederai senza vergogna e sarai proprio tu che scrivi quel che scrivi. […]
Tuo S.
E sarai proprio tu che scrivi quel che scrivi è il sesto appuntamento di MARGINALIA, disponibile anche su L’APPESO NUMERO 6.


Giulia De Vincenzo è laureata in Filologia Moderna, insegna materie umanistiche in una scuola secondaria di primo grado e scrive note sui margini dei libri per sgravarsi di un pensiero (come direbbe Edgar Allan Poe). Non ha ancora capito se la “d” del suo cognome sia maiuscola. Nel dubbio, ha deciso di rendere minuscola la “g” del suo nome. @giminuscola
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