di Marta Gulinelli
Di tutta la memoria vale solo
il dono eccelso di evocare i sogni.
Antonio Machado
Le vedo qui, davanti a me. Nella sala da pranzo, ognuna sulla sua sedia, silenziose e assorte, mentre nelle altre stanze della casa un brusio indistinguibile ci separa dal resto del mondo, come ovatta in una scatola da scarpe. Fuori, sulla strada, le macchine corrono e gli alberi si agitano, tutto senza rumore: le finestre sono lo schermo muto di un televisore.
Silenziose e assorte, vedo tre donne. In numero perfetto, numero di miti e leggende, numero junghiano. Le Moire, Macbeth, le fate madrine di Aurora: tre che è come uno, uno che è come tre. Ai bambini, fiabe e leggende suonano sempre familiari, perché sono fatti delle stesse immagini della vita di tutti i giorni: basta fare un piccolo aggiustamento, spostare un particolare qui, sintetizzare un’intuizione là. Come nei sogni.
Da bambina, le zie erano tre – tre che è come uno, uno che è come tre – e sedevano in cucina, silenziose e assorte. Come le streghe di Macbeth si incontravano in convitti prestabiliti: una volta al rintocco di mezzogiorno e una volta dopo lo scampanare che conclude la messa delle cinque. Come le misteriose signore delle fiabe abitavano in tre case adiacenti, affacciate sullo stesso cortile, e si riunivano in quella più alta, quella che si appoggia alla spalla della strada. Come le Moire da lì tenevano d’occhio lo scorrere del tempo, osservavano il viavai del traffico e aspettavano il ritorno degli uomini. Sedevano attorno al tavolo, bevevano il caffè, e intanto rammendavano calze, facevano a maglia, stiravano. Nei mesi mariani dicevano il rosario, a carnevale preparavano i crostoli, in ottobre i sugoli.
Qui, nella mia memoria, non hanno contorno. Posso mettere a fuoco le tazzine bianche a fiori e le sfumature del legno del tavolo, sentire chiaramente le finestre tremare nelle intelaiature al passaggio di un’auto e gli insetti ronzare tra le piante grasse sui davanzali, ma loro no: il ricordo non le imbriglia. Loro, come queste cose, non hanno un’età. O forse ne hanno troppe, una sopra l’altra, così tante che non riesco a dare loro un unico contorno. Nella mia memoria, più che invecchiare, come gli oggetti che usano ogni giorno, che nascondono nelle tasche o che scovano in fondo ai cassetti, si consumano.
Mia zia Ciccia tiene il mento sul palmo, coprendosi la bocca, e osserva la strada. È stata adolescente durante la guerra, e me la immagino così, quando quasi ottant’anni fa aspettava notizie dal fidanzato, il fratello allora diciasettenne di mio nonno, che era soldato. Ancora oggi non so come abbia fatto a non morire di crepacuore quando ha scoperto che era scappato in bicicletta e si era dato alla macchia: di queste cose si è sempre parlato poco, in famiglia. Una zia acquisita, lei, eppure non si è tirata indietro quando il fato le ha affidato il compito di curare l’albero genealogico della nostra corposa famiglia: conosceva i rami uno per uno, ricorda gli anniversari e i compleanni, e ogni volta che chiamava uno dei nipoti, prima pronunciava i nomi di tutti gli altri cugini, quasi a raccoglierci tutti assieme. Lo teneva in ordine, quell’albero, lo teneva lucido e nutrito: zia Ciccia, nomen omen, la zia del pasticcio di Natale, dei tondoni e delle mandorle caramellate. Ha sofferto tanto, questa donna pasciuta e irruenta, con il suo strano modo di storpiare le parole e le sue smorfie teatrali, il sorriso rubato alle dive e i suoi sedici fratelli. Un figlio morto all’improvviso, e poi lo zio… Una volta, la sua, era una casa piena di vita, era il punto in cui confluiva in modo naturale tutta la famiglia. Il figlio, tornato a casa per le vacanze, si esercitava all’oboe in soggiorno, il marito dipingeva in garage ascoltando la Carmen, i nipoti facevano avanti e indietro sulle scale, trastullandosi con scatole di lego spaiati e padellini traboccanti di fango ed erbacce. Ora la vedo mentre guarda fuori dalla finestra, in attesa di qualcuno che non arriverà, con una mano chiusa a pugno parata davanti alla bocca, l’altra raccolta sul grembiale. È morta alla fine di maggio 2023.
Mia zia Bianca è più composta. Tiene il volto chino, gli occhiali appoggiati sulla punta del naso le nascondono gli occhi. Il mento indica le mani, tra le quali tiene un ago e un pezzo di stoffa. Lei è la più vecchia delle sorelle di mio nonno: durante la guerra era abbastanza grande per poter guidare e si dice – sempre quelle chiacchiere che da bambina quasi sembravano volarmi sulla testa – che abbia fatto da staffetta. Tornata la pace, ha girato mezza Italia, al seguito di un marito impiegato delle ferrovie, e a ogni trasloco aveva un figlio in più da portarsi dietro. Quando penso a lei, per prima cosa sento la sua voce: minuta e tremula, lo spiffero di un piccolo corpo ormai quasi centenario. Anche lei, come le altre zie, tra le corde vocali sembra portarsi qualcosa che interferisce con il nostro dialetto, ma lei non sfodera l’inflessione per condire qualche facezia o darsi un’aria leziosa. No, in lei il dialetto di un’altra vita persiste come un dovere genetico, forse perché si trova più vicina al punto in cui le radici si fanno profonde. Non ci ho mai riflettuto prima, ma forse, se l’albero della nostra famiglia è venuto su così florido, è per colpa delle lacrime, come nella novella di Lisabetta da Messina. Il marito della zia Bianca è morto all’improvviso, un giorno lontano, nel bagno della stazione dei treni di Venezia. Un infarto fulminante. Erano in gita, e altro non so, perché è successo molto prima di me. Io sono arrivata quando questo zio si era già trasformato in una firma apposta in calce a una nebulosa di acquerelli, sparsi nei soggiorni dei parenti, e la zia aveva già imparato a convivere con il dolore. Mi è sempre stata un po’ arcana, indecifrabile, questa zia. Ora, mentre la osservo, i suoi lineamenti quasi si perdono tra le rughe marcate, eppure il suo viso è aperto. Lei continua a cucire quello che potrebbe essere il vestito da sposa di mia madre. È morta nel giugno del 2020.
E poi c’è la zia Anna. Sembra pensierosa, ma so che è solo questione di un attimo. Lo so che sta per mettersi a raccontare una barzelletta, lo so che si metterà a ridere da sola: non sa trattenersi. Tutti i fratelli di mio nonno – si dice – avevano la nomea di inguaribili festaioli. Concertini, moti di spirito e buffonate erano all’ordine del giorno, ma i due figli minori – zia Anna e il nonno – sono venuti fuori proprio sguaiati, forse perché si sono trovati in eredità un residuo di spiritosaggine e convivialità che si sarebbe dovuto diluire in una famiglia più numerosa. E invece no, se lo sono ritrovato addosso concentrato. Lei è la zia che racconta storielle divertenti mentre fa la chemio, lei è la zia che in gita occupa il bagno del ristorante per cantare a squarciagola l’inno dell’Austria. Essere la piccola di casa le ha permesso di crescere con calma, credo. Si è sposata tardi e ha viaggiato molto – fino a Roma, dove ha condiviso un brindisi con Fellini. Il nostro albero genealogico deve esserle sembrato un po’ come una grande casa delle bambole. Come una bambina, raccoglieva le foto di famiglia, i diplomi dei suoi genitori, le lettere con i parenti emigrati in America e in Francia, sognando un giorno di avere anche lei qualcosa da aggiungere alla collezione. Ma il tempo è passato troppo veloce rispetto ai suoi ritmi e, dopo la morte del marito, si è ritrovata anziana e sola, con la sua collezione di persone di carta. Fa paura invecchiare, e ancora di più, spaventa farlo da soli. Così la zia Anna ha invertito la rotta, ha deciso di tornare bambina dove era stata bambina, a Feltre. Ma il tempo non si ferma, e così è finita a crescere all’indietro, circondata da sconosciuti. Lentamente, si è dimenticata tutto, delle sue persone di carta, di noi, di me. Ora la vedo ridere, mentre muove le mani nell’aria, le mani che un tempo mi cambiavano, mi preparavano il pranzo, mi tenevano stretta. Le sue mani piccole e lisce, con la fede al dito. È morta nell’ottobre del 2022.
I miei fantasmi. Parlano, mescolano il caffè, mi osservano come se fossi un’apparizione e mi riempiono di domande. Perché non vieni mai a trovarci? Come sta il fidanzato? Come va con l’università? Hai finito i compiti delle vacanze? Domande che, come le loro età, stanno tutte sovrapposte, pronunciate tutte assieme, come se anche io, davanti a loro, fossi la donna di trent’anni che sono oggi e la bambina di sette che un tempo mangiava alla loro tavola, dormiva nei loro letti e giocava nelle loro case.
Le guardo tutte – per intero, e tutte assieme, loro tre, e anche le diverse versioni di loro che ho conosciuto negli anni –, intente nei piccoli gesti di tutti i giorni, e insieme immobilizzate in pose che si sono scolpite nella mia memoria per i motivi più incomprensibili. Le mie tre parche, le mie tre streghe, le mie tre fate: la somma di queste figure mi lascia intravedere solo dolore. L’aria profuma di basilico.
Vorrei dirglielo, vorrei chiedere perché, ma queste cose non si fanno, ai loro tempi non esistevano le confessioni, le parole erano riservate alle cose concrete. Ma io lo so che loro, con i loro tempi e le loro parole, non sono più qui. A loro, però, a quelle che sono rimaste in questa stanza, dove vivono davanti ai miei occhi, a loro, questa cosa posso dirla.
Avete sofferto così tanto.
Mia zia Ciccia arriccia il naso, stringe gli occhi e il viso sembra quasi allungarsi; alza una mano sbrigativamente, come a scacciare una mosca. La zia Bianca continua a cucire, anche se rimane all’erta. La zia Anna, cincischiando con gli occhiali e il sofisticato apparecchio acustico che nascondono, produce una specie di fischio ondulato e alza le spalle.
Ormai non importa.
Tutti soffriamo tanto.
Figlie, madri, sorelle, tutte abbiamo la nostra croce. Nessuna scelta fatta in altro modo ce le avrebbe risparmiate.
A me non sembra giusto, però, ma forse è perché voglio che sia così. Voglio che loro mi dicano così, voglio che loro minimizzino, mi tranquillizzino, mi rassicurino. Non esiste spugna che possa cancellare quello che hanno sofferto, e non esiste modo perché io eviti il dolore che toccherà a me. Ma ho bisogno che me lo dicano, ho bisogno che me lo dicano loro.
Fuori il sole scende e un profumo straziante sale dal giardino. In casa il brusio monocorde si sgrezza e diventano passi sugli scalini di pietra. Una macchina in strada svolta e prende il nostro vialetto. Guardo l’orologio e, anche se non mi dice niente, so che è ora di andare.
Ti prego, mi dicono in coro, come se la voce di tutte fosse solo una, solo una cosa, prima di andare.
La memoria si riscatta nel sogno, il resto è dolore.
Prima di andare, dai da bere alle piante.

Marta Gulinelli, nata a Rovigo nel 1993, consegue la laurea triennale in Lettere e quella magistrale in Italianistica a Bologna, dedicando entrambe le tesi ai rapporti tra psicologia archetipica e critica letteraria. Dopo un Master in Editoria, inizia a collaborare con la casa editrice Il Ponte del Sale, per la quale si è occupata del sito web e del lavoro di correzione di bozze. Attualmente lavora per la biblioteca dell’Accademia dei Concordi. Innamorata follemente di F.S. Fitzgerald e Sylvia Plath, passa il tempo libero a collezionare libri che a volte trova il tempo di leggere.
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Arianna Farina è nata a Bolzano e vive a Bologna, dove si è diplomata all’Accademia di Belle Arti. È illustratrice e libraia.
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