Il fuoco sacro della finzione

MARGINALIA #4

di Giulia De Vincenzo

Se conoscere veramente qualcuno è impossibile, si può almeno tentare di capirlo, magari raccontandolo come il personaggio di un romanzo. Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024) è il risultato dell’indagine condotta da Antonio Franchini sulla vita di sua madre Angela, un’indagine che attinge alle forme del memoir e affabula quanto la genealogia di un mostro mitologico, ma del romanzo rivendica in primis l’aspirazione a una libertà oggi necessaria a chi scrive e, di rimando, a chi legge: abitare spazi scomodi, costruire finestre anziché specchi. Frutto inaspettato di una tardiva pìetas, nel tentativo di risalire alle oscure origini del malessere materno, tormentoso come la forzatura di un corpo imposto a un essere demoniaco, liminale alla blasfemia e alla misantropia, il romanzo si rivela scevro da qualunque egoistico intento catartico, tributando piuttosto il sentito omaggio dello scrittore a una donna che “ha messo, nel voler essere personaggio, la stessa determinazione che altri mettono nel voler essere autori”, che niente avrebbe inorgoglito più del vedere la sua storia scritta da suo figlio, “e se lo avesse fatto dicendone male, questo non la toccava per nulla. Ho capito che questa era la sua forma d’amore. Una forma sbagliata, ma temo che tutti gli amori siano in qualche modo sbagliati”, confessa Franchini nelle pagine conclusive.

In questa diagnosi imbastita con gli strumenti della letteratura, assurgono a possibili fattori eziologici i traumi infantili della guerra e della miseria, la perdita precoce del padre e la sua sublimazione in modelli maschili dubbi, deboli o indecifrabili, l’anagogia delle insidie onnipresenti e degli insulti latenti inculcatale dalla madre, la scoperta del ventre come vestibolo di una sessualità dal carattere sostanzialmente procreativo e alimentare. E intessono la storia – fuori dal coro, in tempi in cui troppo facilmente si grida al patriarcato e si inneggia alla solidarietà femminile – di un matriarcato centrifugo, fatto da donne che disprezzano “l’amore prima di qualunque altro sentimento, la gentilezza più di qualunque altra virtù, le altre donne assai più di qualsiasi maschio”. Donne come Angela, l’anti-madre incapace di dimostrare amore e di farsi amare, che surroga il suo universo affettivo con le trasmissioni televisive e la cucina e incarna, nei disvalori che rischia di trasmettere ai figli, quelli di un intero Paese che solo nelle varie declinazioni dell’abiezione sembra disposto ad annullare l’eterno divario tra Nord e Sud: “Ne detesto il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura simbolo degli orrori d’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre”.

Come ogni prodotto letterario, anche il romanzo di Franchini finisce col sacrificare l’esattezza impietosa di un’eziologia scientifica al richiamo di una materia nebulosa che mischia il sentire col sapere. Dal disgusto fisico espresso nel potente incipit col riferimento al cattivo odore materno, alla sensazione di vergogna per la madre vissuta come stabilizzazione dell’odio (“un sentimento forte e fin troppo puro, per cui difficilmente perdura intatto”), fino all’ammissione finale, nella cernita delle foto per la lapide (“Ma che ne ho saputo io di lei per tutti gli anni della mia adolescenza e giovinezza e della sua maturità […] Chi è la donna adulta, né ragazza né vecchia, che sorride nella foto degli anni Settanta e Ottanta vestita di prendisole a fiori, di pantaloni scampanati, di abiti che non ricordo? È mai stata passabilmente felice?“), l’autore vede scemare il proprio risentimento e crescere il potenziale romanzesco di Angela, maturando il proposito di rendere onore al suo desiderio di recitare una parte anticonformista e scorretta e assecondando l’atavico bisogno di ottenere l’approvazione di chi ci opprime. E come ogni romanzo, anche quello di Franchini deve arrendersi alla finzione, facendola ontologica: “Ha finto come normalmente fingono gli esseri umani, non inventando di sana pianta una se stessa completamente diversa, ma esagerando i tratti di quella che era per assomigliare di più a quella che voleva essere. Tutti lo facciamo, chi per periodi brevi, chi più a lungo, chi per sempre, finendo col dimenticarci come eravamo prima della finzione. Lo facciamo per sopravvivere, per illuderci, per stare meglio, perché non siamo fatti per la verità”.

In copertina: Charles H. Traub, da Dolce via. Italy in the 1980s (Damiani 2014).


Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio (2024).

Antonio Franchini è nato a Napoli nel 1958. Ha esordito nel 1992 con Camerati. Quattro novelle sul diventare grandi. Per Marsilio ha pubblicato: Quando vi ucciderete, maestro? (1996, 2019), Acqua, sudore, ghiaccio (1998, 2021), L’abusivo (2001, 2020), Cronaca della fine (2003, 2019), Signore delle lacrime (2010, 2020), Memorie di un venditore di libri (2011) e Leggere possedere vendere bruciare (2022). Nel 2020, per NNE, è uscita la raccolta di racconti Il vecchio lottatore. Vive a Milano e lavora nell’editoria.


Giulia De Vincenzo è laureata in Filologia Moderna, insegna materie umanistiche in una scuola secondaria di primo grado e scrive note sui margini dei libri per sgravarsi di un pensiero (come direbbe Edgar Allan Poe). Non ha ancora capito se la “d” del suo cognome sia maiuscola. Nel dubbio, ha deciso di rendere minuscola la “g” del suo nome. @giminuscola



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