Lucernario #3
IL MIO CINEMA È UNA PRATICA MAGICA
Conversazione con Gaëlle Rouard
Per mestiere, Gaëlle Rouard dà forma alle ombre. Potrebbe sembrare un’esagerazione, una definizione meramente sentimentale, ma è quanto di più calzante si possa dire di una regista e alchimista che trascorre gran parte delle sue giornate in camera oscura, mescolando e impastando i sali d’argento delle pellicole cinematografiche come fossero le diverse tonalità di una tavolozza.
Proiettati nei festival di tutta Europa, i film di Rouard sono – citando Ursula K. Le Guin – realisti di una realtà più grande: fedeli documenti di un’allucinazione, o forse quanto di più verosimile accadrebbe se d’un tratto tutte le fiabe che ci sono state raccontate da bambini riemergessero senza ordine, così come ce le ricordiamo, con i loro vuoti e le loro inesattezze. Boschi, piogge stellari, animali al pascolo dai colori scintillanti, cieli argentati e frutti che hanno sempre qualcosa di proibito – tutto nei film di Rouard è la rivelazione di un mondo ulteriore, rivitalizzando l’antica credenza per cui la macchina da presa non serve a documentare la realtà, piuttosto si impossessa dell’anima di ogni cosa.

L’artista oggi vive a Saint Martin de Clelles, un villaggio remoto e boscoso della Francia orientale che conta poco più di cento anime. I suoi film sono girati, montati e musicati da lei soltanto, ma prima di questa ispirata solitudine ha vissuto molti anni a Grenoble. Qui, racconta, «mi sono avvicinata al collettivo Metamkine e al locale 102, che si occupava di cinema e di musica sperimentale. I cineasti di Metamkine, inoltre, avevano fondato lo spazio MTK, un laboratorio cinematografico artigianale. Sono stati loro a passarmi il virus».
La scelta lessicale non è casuale. L’interesse per la pellicola, quando è qualcosa di più profondo della fascinazione amatoriale per i colori retrò e le tinte sbagliate, ricorda davvero una benefica infezione: dopo averla contratta, si diventa creature che anelano il buio, officianti di un rito in cui il cinema è anzitutto esperienza, qualcosa che va toccato e modellato prima che prenda forma sullo schermo. «Alchimia è un termine che mi torna spesso in mente quando rifletto sul mio lavoro. Suppongo che sia un riferimento alle trasmutazioni chimiche, e anche al fatto che non mi limito a restituire la realtà, ma la trasformo».
L’atto di filmare allora non è il fine, ma solo un punto di partenza. «Spesso seguo una traccia che proviene da un desiderio. Realizzo immagini senza pormi domande, e quando ne accumulo in quantità consistente inizio a strutturare le mie scelte. Qui comincia la seconda parte del lavoro, in cui subentra anche il montaggio, ma non smetto di produrre immagini. Non c’è una divisione netta tra il momento della ripresa, quello della lavorazione in camera oscura e il montaggio: tutte le fasi accadono contemporaneamente».


Talvolta, capita che le riprese non appartengano alla regista: nel caso di Lafoxe, del 2007, le immagini provenivano da vecchi film hollywoodiani, prodigiosamente rielaborati in laboratorio e riproposti sul grande schermo attraverso più proiettori, come un fugace sogno collettivo. 4 Minutes d’hélicoptère, invece, realizzato nel 2006, ci mostra esattamente ciò che promette il titolo, ma gli interventi sulla pellicola in fase di sviluppo sono così profondi da sciogliere, simili a incantesimi, ogni apparenza, e così la semplice elica di un elicottero pian piano muta davanti ai nostri occhi fino a diventare una farfalla, un organismo non meglio identificato, un mutevole frammento di vita osservato al microscopio. È un cinema organico quello di Rouard, o forse sarebbe meglio parlare di un cinema concreto, proprio come le sue musiche – a volte più spezzate e metalliche, a volte più rarefatte e atmosferiche. «Posso solo dire che il cinema è un mezzo di audiovisione: qualcosa da sentire e vedere. Il suono è innanzitutto il motore della percezione dell’immagine e, come il montaggio, è in grado di influenzare il ritmo. Io sono attratta dalla musique concrète, perciò mi approccio al suono da artista visiva, considerandolo come un materiale con valori propri (dotato di texture e grana) piuttosto che un elemento illustrativo».
Per Rouard, la manipolazione della materia filmica non ha mai fine. Darkness darkness, burning bright, sua opera più recente e ambiziosa, più che a un lungometraggio somiglia a una performance, in cui la regista interviene durante la proiezione del film, rallentando il flusso della pellicola. Ci abbandoniamo così a un mondo che ci è familiare solo in parte, tra vallate e montagne boreali, e lupi e uccelli e pascoli dai colori argentati – immagini che a tratti sfumano l’una nell’altra, a tratti s’immobilizzano e tremolano come apparizioni di una lanterna magica. Sconfessando l’infausta profezia di Pirandello, che vedeva nella figura del proiezionista la vittima per eccellenza della macchina, nient’altro che una mano che gira la manovella, per Rouard l’atto di proiezione è insieme un gioco e un sortilegio, e la macchina non è una divinità d’acciaio che si ciba dell’anima dell’uomo, ma una sua fedele alleata; non sancisce la fine della creatività, ma la sua prosecuzione.



Darkness darkness, burning bright (2022)
«La mia ispirazione è essenzialmente tecnica. A stimolarmi è innanzitutto il desiderio di sperimentare e di esplorare nuove strade. Più che di riferimenti, nel mio lavoro preferisco parlare di influenze, perché mi sembra che il termine si adatti meglio al modo occulto, al mistero per cui certe cose agiscano su di noi. Per quanto riguarda le immagini, posso citare Déjeuner du matin di Patrick Bokanowski, La femme qui se poudre e Sayat Nova di Sergei Parajanov, ma dovrei anche citare la pittura, specialmente dal XV al XVIII secolo».
Nessuna storia evidente nelle opere di Rouard, trame più profonde e invisibili sorreggono le sue immagini. Partecipando ai suoi film, ci torna in mente il sospetto che avevamo negli anni dell’infanzia, quando credevamo che il mondo non avesse una forma affidabile, e una volta lasciata una stanza, richiusa una porta, le cose d’un tratto si animassero alle nostre spalle. Spiamo dal buco della serratura che la regista ha allestito per noi, e nello spazio di un cortometraggio ci sembra di poterla cogliere in flagrante, quella vita segreta che sempre ci sfugge: «La mia visione di ciò che dovrebbe essere il cinema, come arte e come pratica, non ha a che fare con la realtà, ma con la magia».
In copertina:
Gaëlle Rouard, performance open air alla Fondazione Morra, Independent Film Show (Napoli, 2013).

Gaëlle Rouard (1971) è una regista, alchimista e performer francese. Diplomata all’Ecole Supérieure d’Art visuel di Ginevra, dall’inizio degli anni ’90 realizza pellicole fatte a mano, specializzandosi nella pratica del film processing. È membro di Le 102, spazio artistico con sede a Grenoble dedicato alla diffusione e alla creazione di musica e film sperimentali; fino al 2006 ha diretto il laboratorio cinematografico Atelier MTK. Conduce laboratori in diversi contesti, dalle scuole d’arte alla didattica individuale. I suoi lavori sono stati proiettati in festival e musei di tutto il mondo, tra cui al Centre Pompidou di Parigi, all’International Film Festival Rotterdam, al SIFF Syros Film Festival, all’Institut of Modern Art di Brisbane, e molti altri.
Giulia Oglialoro (Saronno, 1992), è laureata in Storia dell’Arte all’Università di Bologna. Suoi contributi sono apparsi su «Lettera22», «Poetarum Silva», «Minima&Moralia» e altre testate. È autrice del documentario L’oceano intorno a Milano. Conversazioni con Milo De Angelis, presentato in anteprima a Filmmaker Festival e selezionato da numerosi festival europei. Un suo racconto è incluso nell’antologia Biassanot – i racconti della notte (Battaglia Edizioni). Con Le stelle nere (Industria e Letteratura, 2024), suo libro d’esordio, ha vinto il Premio Ceppo Under 35 Opera Prima.

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