Born to be blue

di Pierfrancesco Trocchi

Solo chi non capisce il jazz può ridere a un concerto jazz. È un affronto. Anche quando il ritmo impazza e i musicisti ridono, tuttavia lo sanno anche i bambini che i musicisti non ridono davvero, il chitarrista sta pensando fiocamente alla sua prima comunione, gli manca sempre un po’ casa anche se l’ha rifuggita; il pianista sta sgranando tra le insenature dei tasti la storia del proprio matrimonio, e finisce sempre per suonare una nota in più; il batterista ha emancipato il proprio disagio in un disturbo ossessivo, a un certo punto percuote anche le piastrelle, meglio così, ingoiare orde di palpitazioni piuttosto che tornare alla cocaina; il sassofonista è forse un po’ felice, però una notte su sette si sveglia di soprassalto e sa che la sua infanzia gli mangerà sempre un piccolo brano del suo sorriso. Ora, dico io, come fai a ridere?

Sulla via di casa mi abbevero di questa bella sera che sembra un regalo svogliato di Persefone, inumidisce gli occhi e ti fa venire voglia di pensare ai nonni, anche le scialbe schegge di freddo che penetrano tra le caviglie e le scarpe sono in realtà un invito a cedere al sonno, c’è una sirena dentro di te, lasciati andare, quante belle cose ci sono a questo mondo e chissà perché, alla fine si finisce per credere sempre di più agli altri e tutto sembra nient’altro che un accrocco di questioni da sbrigare. Born to be blue, forse è davvero così, cammino quasi sciando sul pavé lunare di via Matteotti, Cento non mi appartiene fino in fondo, Cento è un gatto che sembra un signore, a Cento non c’è nessuno dentro di me, Cento è una vetrina in un film di Pupi Avati. Mentre mi nascondo per gioco nel cono livido di un’arcata di piazza Guercino penso a quei film dell’orrore anni ’60, vogliono farti solo un po’ di paura e poi abbracciarti subito dopo, penso che vorrei essere raggomitolato come raggomitola il proprio stesso respiro quando ci si copre con le lenzuola fin sopra il capo, fluire ombra sciolta e fare brodo di questi nervi, ci sono mille mondi, dai voliamo, forse capirò tutto solo quando sarò nuovamente nella placenta dell’universo.
È stata davvero una serata cinematografica, snodo le supposizioni sul sax di Nancy mentre insorgo contro i miei timori tracciando il suo viso nella mia mente, come plissettandolo con la punta dei pensieri, ho davvero paura a non custodirla solo come ricordo, da un paio di giorni non rispondo alle sue telefonate e lei è il mio inverno da scaldare, l’estate è uno scempio con le sue luci pornografiche, asciugano il mondo e rendono tutto palese; novembre ti prende, ti affusola e ti affossa, c’è da fare i conti con i sogni a novembre, è pragmatico e lirico, insegna sussurrando vie oblique per passare nascostamente sotto le strade le piazze e affiorare in una sala da ballo senza astanti e l’odore del legno vecchio e buono: Sara è novembre.
Dicevo, da un paio di giorni ignoro le sue chiamate, eppure stasera l’ho vista, era lì con me, una fila più avanti e scostata di un solo posto. Era un’ora fa, era un’era fa.

«Ehi… Allora sei vivo». Una voce addormentata in un maglioncino di ciniglia carezzò le mie riflessioni binarie.
«Oh, anche tu qui!» risposi con sgualcito imbarazzo.
«Per forza, i biglietti li abbiamo presi insieme. Tutto bene, Ale?»
La pronuncia del mio diminutivo fu fastidiosa. Desideravo soltanto immaginare di essere chiamato così da lei.
«Oh, beh, sì, come vedi sono qui…» pensai o dissi.
«Ale» – il fastidio fu uno scotoma sul respiro dell’immaginazione – «perché non mi rispondi da due giorni?»
«Probabilmente… Devo non essermi accorto delle chiamate, ecco».
«Ale» – numero tre, mi sento trascinato fuori dal mio coma onirico, il fastidio è un cielo franato – «ti ho fatto qualcosa?»
Si dà il caso che Sara mi avesse atteso per mezz’ora, come da accordi, di fronte al piccolo club; che avesse tentato di scaldarsi stringendosi con un braccio sotto il cappotto e l’altro fuori; che, digrignate un paio di lacrime di nervosismo e impotenza, avesse infine deciso di assistere comunque in solitudine al concerto, come nella speranza di ottenerne un fugace refolo del mio calore: non c’era rabbia in lei. Così era entrata, si era svestita del paltò con un lievissimo sorriso sarcastico verso sé stessa e aveva scelto un posto in accordo con la sua voglia di ascoltare musica e di tenersi in docile disparte con l’idea di me.
Compresi tutto questo da come aveva pronunciato «Ale», soffiato con quell’arte domestica dell’amore sempre e comunque, e dire che ci conoscevamo da due settimane, ma lei lo sapeva io lo sapevo, che cosa lo avremo scoperto solo poi.
«Ale?» quarta volta e il sole mi fu negli occhi.
«Sara, abbi pazienza…» e il clarinetto zufolò a introdurre Trust. «Io non credevo di poterti trovare qui».
«Non ricordi che avremmo dovuto venirci assieme?». Sara sospese lo sguardo, di una compassione di melassa pronta a spaccare i timpani, come se la mia parola ventura avesse l’investitura di cambiarle la vita.
«Sì, sì, certo, ma ora ascoltiamo».
Il contrabbassista mi guardò, come vivessimo dello stesso sonno, e la canzone scivolò come un intrigo, mi lasciai morire di pienezza nel profumo dei capelli di Sara, il suo viso è il sole malva che si bagna i palmi delle mani nella foschia delle albe d’inverno, mi ubriaco di sax e penso che non posso inventare quest’idea di lei nella realtà, la verità è appunto quest’idea, e io la nutrirò affinché mi blandisca in teneri balzi in corsa sul capo di mille fiori di ciliegio caramellati su un pentagramma, nel letto nei treni nella paura nei crampi che precedono le cose importanti da fare e poi non farle, Sara deve rimanere in quest’anticamera fasto di miserie dove il tempo non può attecchire.
«Ale…» dovetti sentire proferire almeno un’altra decina di volte, e ricordo solo che la sfiorai con uno sguardo mentre uscivo dal club, avrei voluto poggiare il mio viso sulle sue guance e inondarmene, eppure mi trovai su via Matteotti appunto, a camminare a sciare, era Natale e il Giorno dei Morti insieme, era l’ostinata gioia del dolore.

Il mattino mi sveglio tra gli scrosci di ogni parola proferita dall’anima nell’abluzione notturna, forse per un attimo esco dal corpo e mi vedo, è come se fossi annegato, ho ancora le scarpe indosso o forse no, penso a che cosa c’è da ridere a un concerto jazz, è nato un amore è morto un amore, Sara è con me per sempre Sara non ci sarà mai, mi siedo sul letto e no, non ho le scarpe, ma ho ancora gli occhi chiusi quindi in realtà non saprei, ho i brividi e finalmente do un nome a questa bella notte, a questa bella morte, è l’abitudine a restare con sé stessi e farsi specchio e cunicolo, basterebbe aprire la porta delle scale, sette, otto, nove passi e sicuramente Sara mi scardinerebbe tutto questo terrore dalla gola; basterebbe davvero avere il coraggio di fare della realtà la propria casa.

Riapro gli occhi. Non ho le scarpe. Sara mi guarda con un lievissimo sorriso sarcastico, questa volta è rivolto a me.
«Ale… Ancora quel sogno?»


© Orsola Damiani, 2024.

Pierfrancesco Trocchi (1991) è emiliano di natali e di spirito. Gli studi lo hanno formato secondo una morale letteraria e storiografica, pertanto ora coltiva la passione per i libri in due modi: lavorando come redattore per una casa editrice specializzata in libri scolastici e scrivendo racconti, che hanno trovato spazio su alcune riviste (tra cui «Bomarscé», «Narrandom», «Risme»). Nel 2025 ha esordito con il romanzo Filò (Metilene).


Orsola Damiani, diplomata all’Accademia di Illustrazione di Roma, segue un Master in Incisione e poi… vola a Parigi per uno stage. Tornata in Italia, tra una china e un pennello approfondisce il fantomatico mondo dei computer. Crea il suo logo – un piccolo pesce rosso che nuota tra illustrazioni a mano e grafica editoriale – affiancando al lavoro di Illustratrice quello di Graphic Designer per la comunicazione e promozione di festival, mostre d’arte, stagioni e spettacoli teatrali, rassegne musicali ed eventi. Pubblica libri per ragazzi, crea illustrazioni per magazine online, riviste di moda, etichette di vini e birre.



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