Lucernario #2
MAYA DEREN. L’OCCHIO DELLA NOTTE
Più che a un cortometraggio, Meshes of the afternoon di Maya Deren somiglia a una di quelle inaffidabili visioni che precedono il sonno, quando la coscienza vacilla e i sensi lentamente s’illanguidiscono. Realizzato nel 1943, il film comincia con una casa, affacciata su un giardino di alberi neri; nel primo minuto la protagonista, interpretata dalla stessa Deren, dai lunghi occhi affilati e la folta capigliatura da Medusa, si sporge oltre la soglia, e subito resta turbata dal disordine e dai cocci sparsi sul pavimento. Salendo le scale in ombra, inoltrandosi nel piano superiore, anziché preoccuparsi di scovare un intruso, un segno di scasso, la donna si accascia su una poltrona, scintillante nella luce polverosa che filtra dalla finestra, e qui, dopo alcune estatiche carezze, si addormenta.
Da questo momento in poi, altre donne entreranno nella casa, e tutte avranno il suo volto; scorgeranno altri cocci sul pavimento, cercheranno di afferrare misteriose figure velate alle loro spalle e l’inquietudine del film crescerà senza soluzione. Non sapremo mai cosa sia successo con certezza, intuiremo soltanto il passo della morte sempre in agguato – in tutti i suoi film Deren compenserà la mancanza del suono con la tensione, instillando nello spettatore un cupo senso di minaccia.
Meshes of the afternoon non ha una struttura lineare, è un film fatto di continue reincarnazioni, di nascita e cenere, proprio come suggerisce il titolo, ma anche la stessa biografia della regista. Possiamo ricordare, infatti, almeno tre nascite per Maya Deren, la prima della quali avviene nel 1917 a Kiev, in una famiglia ebrea, da padre psichiatra e madre danzatrice. La seconda risale al suo arrivo negli Stati Uniti, nel 1922, a seguito delle rappresaglie filozariste che avevano ormai reso impossibile la vita in patria (è qui che la famiglia Derenkowsky avrebbe lasciato cadere le ultime lettere del cognome). La terza coincide proprio con il suo primo e più famoso cortometraggio, sancendo l’inizio di una vita artistica che, al contrario di quella biologica, non avrebbe conosciuto una fine.

Di certi film seminali si dice che abbiano “cambiato il corso” del cinema, ma è un’affermazione fuorviante, perché sottintende che il corso del cinema sia uno soltanto. Maya Deren avrebbe dimostrato, invece, che la settimana arte è complessa e ramificata, ed esistono infinite possibilità di racconto. Negli stessi anni in cui i registi americani mettevano timidamente in discussione il realismo, sperimentando la formula del noir, e sostituendo alla bellezza canonica dei primi divi quella degli anti-divi imperfetti e scheggiati, scintillanti lapilli della gioventù bruciata, Maya Deren non tentennava: come una novella Alice, lei lo specchio lo attraversava davvero, cercando di solidificare nella pellicola la parte notturna dell’uomo, tutto ciò che la superficie non mostra, i sogni e gli incubi, i rimossi, le tensioni. Più di tutto, Deren si sarebbe sempre battuta per un cinema non sottomesso alla trama, dove fossero le immagini a dettare il ritmo e la struttura, secondo un processo associativo più simile ai sogni e alla poesia che non al romanzo tradizionale. Ecco che con un solo cortometraggio, in poco meno di venti minuti, Deren mandò in fumo i graziosi archi narrativi codificati nei decenni dall’industria americana, mostrandoci un mondo davvero nero e inquieto, senza avversari certi o soglie definitive, un mondo più simile a un uroboro che non al viaggio dell’eroe, dove ci risvegliamo e ci addormentiamo continuamente, e le ombre che inseguiamo ci sfuggiranno per sempre.
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Meshes of the afternoon non fu una sperimentazione estemporanea, anzi, una cospirazione di eventi e incontri che contribuì alla sua realizzazione. Ci furono, innanzitutto, le strade sbagliate imboccate da Deren, i primi studi in scienze politiche che nutrivano la sua passione civile, ma non certo la sua irrequietezza artistica. Ci furono l’amore per la poesia e la fotografia, ma soprattutto l’incontro con la danzatrice e antropologa Katherine Dunham, studiosa delle danze afro-caraibiche, che la avvicinò a mondi molto lontani da quello nordamericano. A questo periodo risalgono, infatti, la scoperta del vudù e l’adozione del nome Maya, anziché dell’anagrafico Eleanora: definizione prismatica, che nella tradizione buddista ha il significato di “illusione”, mentre nella mitologia greca rimanda alla madre di Hermes, messaggero degli dei. Ma ci fu, infine, l’incontro con Alexander Hammid, operatore di ripresa emigrato dalla Cecoslovacchia, di cui Deren si innamorò, e con cui visse dal 1942 al 1947. Un matrimonio di spiriti e intelletti affini, durante il quale perfezionò la propria tecnica, dando così a concretizzare alle proprie intuizioni. Per un’artista che non ha mai creduto nelle coincidenze, deve esserle sembrato quantomeno curioso che lei e suo marito si fossero incontrati a Los Angeles, all’ombra di Hollywood.


Maya Deren, Alexander Hammid, 61 Morton Street, 1944 c.
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Nel 1944 la regista-performer realizzò un secondo capolavoro, At Land, film amatoriale nell’accezione più letterale e felice del termine, ossia, scrive nel saggio Amateur Versus Professional, come «qualcosa fatto soltanto per amore». Nel cinema privato e domestico, punteggiato di compleanni, feste di paese e scene quotidiane, Deren vede l’esempio di un cinema puro, appassionato e non legato al profitto, un cinema che sfugge alla mortificazione dell’industria proprio come certe combinazioni chimiche, in natura, sfuggono all’ottetto e alla configurazione definitiva, disfandosi un attimo prima del legame che le fisserà per sempre. «Sono fermamente convinta» scrive ancora nel saggio Planning by eye «che il prerequisito per un’opera creativa e davvero originale sia una produzione sufficientemente modesta da potersi permettere il fallimento».

At Land è, in questo senso, un’opera fallita, fatta di continui inizi, di accenni di storie che si avvicendano senza mai giungere a conclusione. Come una figura mitica, nelle prime inquadrature Deren viene rovesciata su una spiaggia dalle onde del mare; con lente mosse animalesche si arrampica su un tronco divelto, e grazie al montaggio prodigioso ecco che l’attimo dopo si ritrova ad avanzare in un bosco, e l’attimo dopo ancora si distende lungo un tavolo da pranzo in cui i commensali conversano senza degnarla di uno sguardo. Il viaggio sull’isola prosegue alternando questi due mondi – da un lato una foresta sempre più fitta, dall’altro una casa le cui porte che si affacciano su un precipizio. Non c’è un solo passo della coreografia che sia lasciato al caso, il movimento non è realistico né mai del tutto stilizzato; lo sguardo, soprattutto, è sempre presente, come uno dei pregi di Deren fosse appunto quello di dosare la vita, di capire quando affiancare la realtà e quando tradirla. È così che i suoi film ci coinvolgono senza farci distaccare, perché a tratti ride e ride davvero, e quando ha paura trema davvero, e noi tremiamo con lei. Ma questa ipnosi, in cui cadiamo senza rendercene del tutto conto, è il frutto di una tecnica attentissima: in tutti i film di Deren la macchina da presa si libera dai gangli del cavalletto e insegue i movimenti in scena, come se l’unico modo di riprendere un corpo che danza fosse danzare con lui, creando una speciale e primitiva fusione tra l’umano e la macchina. E la fluidità di ripresa, insieme alla manipolazione dello spazio e del tempo del racconto, rispondevano a un bisogno preciso, ovvero cogliere «the inner experience of the human being». È questa tensione che estrae Maya Deren dalla storia e la avvicina al mito, ai cavalieri che nelle leggende solcano la terra in cerca della del calice divino, o agli scienziati che animati da una scintilla di follia cercano nel buio dei laboratori la combinazione da cui ha avuto origine della vita, la formula che spegnerà il mondo.
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C’è un ultimo film che vale la pena di ricordare, ed è forse quello in cui le convinzioni di Deren si condensano con una precisione invidiabile, quell’esattezza che deriva solo dopo molto studio e molti tentativi falliti. Si intitola The very eye of night e risale al 1955. Fu l’ultimo film di Maya Deren, ma per la verità i piani della regista erano altri: quando morì precocemente, nel 1961, stava lavorando al documentario Divine Horsemen: The Living Gods of Haiti, che fu però portato al termine dal compagno quattro anni dopo. La fascinazione verso il vudù, che Deren praticava privatamente nella sua casa a New York, si era infatti concretizzata in un viaggio e in un’immersione diretta nella cultura di Haiti: la regista aveva partecipato in prima persona, con il corpo e la macchina da presa, ai canti e alle danze rituali grazie a cui gli antichi spiriti prendevano possesso di uno dei membri della comunità. Magia e possessione sono, in fondo, le pietre angolari su cui poggia tutto il suo cinema, e anche se nei suoi film non ci sono spiriti da omaggiare, nessuna divinità apparente, ogni corpo e ogni oggetto inquadrato abbandona le proprie spoglie terrene, e diventa indizio di un mondo altro.


Quando realizzò The very eye of night, Maya Deren non aveva ancora compiuto il viaggio ad Haiti, eppure è senza dubbio questo il suo film più misterico. Dura solo quindici minuti, e ci mostra sagome di corpi umani che danzano contro un cielo stellato. Niente sembra destinato alla stabilità, le figure entrano ed escono dal quadro e l’oscurità si fa liquida e mobile intorno a loro, gli astri volteggiano come neve. È difficile guardarlo senza pensare che sia la prefigurazione più dolce che possiamo avere dell’aldilà – un aldilà senza purgatori ombrosi, inferni bollenti e vette paradisiache, in cui ci disferemo in creature di polvere e luce. Maya Deren non era una turista dell’occulto, lei nella magia ci credeva davvero, e chissà che non sia andata proprio come lei desiderava, chissà che il suo spirito non si sia estinto insieme al corpo e ancora continui a danzare, lucente e imprendibile oltre la soglia dello schermo.

Maya Deren, Alexander (Hammid) Hackenschmied, 1942.
OPERE CITATE
Film
Meshes of the Afternoon (1943), diretto in collaborazione con Alexander Hammid, sonorizzato da Teiji Ito nel 1959.
At Land (1944), con la partecipazione di John Cage, Parker Tyler, Alvin Lustig, Philip Lamantia.
The very eye of night (1952-55; 1959), in collaborazione con il coreografo Antony Tudor e Metropolitan Opera Ballet School.
Divine Horsemen: The Living Gods of Haiti (1947-1954), montato e sonorizzato da Chere Ito e Teiji Ito tra il 1977 e il 1981. Al documentario, Maya Deren affiancò il volume Divine Horsemen: The Voodoo Gods of Haiti (Vanguard Press, 1953), pubblicato in Italia con il titolo I cavalieri divini del vudù (prefazione di Joseph Campbell; il Saggiatore, 2018).
Saggi
DEREN, MAYA, Amateur Versus Professional (1959), Planning by eye (1965; c. 1946-48), in Bruce R. McPherson, Essential Deren: Collected Writings on Film, Kingston, N.Y. 2005.

In the Mirror of Maya Deren, Martina Kudlácek (2001)
Giulia Oglialoro (Saronno, 1992), è laureata in Storia dell’Arte all’Università di Bologna. Suoi contributi sono apparsi su «Lettera22», «Poetarum Silva», «Minima&Moralia» e altre testate. È autrice del documentario L’oceano intorno a Milano. Conversazioni con Milo De Angelis, presentato in anteprima a Filmmaker Festival e selezionato da numerosi festival europei. Un suo racconto è incluso nell’antologia Biassanot – i racconti della notte (Battaglia Edizioni). Con Le stelle nere (Industria e Letteratura, 2024), suo libro d’esordio, ha vinto il Premio Ceppo Under 35 Opera Prima.

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