Imparare dagli olivastri

#MARGINALIA

di Giulia De Vincenzo

«Ebbene: io non cerco il perdono e non spero nell’altrui simpatia. Ciò ch’io voglio, è soltanto la mia propria sincerità». Così scriveva Elsa Morante in Menzogna e sortilegio, svelandoci il segreto della militanza femminista in letteratura: l’autenticità, ottenuta scavando nel passato e dissotterrando le proprie radici. Ma spostare il fuoco da sé imparando a definirsi nel chiaroscuro non è connaturale all’attuale società dell’immagine, basata sul postulato “appaio dunque esisto”. E la lotta al patriarcato assume spesso la forma di una sguaiata demolizione di stereotipi guidata dal solito, imperante esibizionismo.

È raro incontrare giovani scrittrici che superino la “prova Morante”. Con L’olivastro (effequ 2023), Marta Zura-Puntaroni conduce uno studio profondo sulle relazioni, familiari e sentimentali di una ragazza degli anni zero alla ricerca della propria identità. Mutando scenario (dalla provincia alla città e poi, di nuovo, alla provincia), inframezzando la narrazione con inserti di linguaggio tecnico (relativi alla coltivazione dell’olivo) e passaggi perturbanti che contrastano con il topos mitico e ameno della campagna (l’abbattimento dei maiali nelle primissime pagine mi ha fatto ripensare agli scenari orrifici di Refn in Copenhagen Cowboy), l’autrice rivela l’impegno e il coraggio necessari per rappresentare lo slogan della collana Elettra, ovvero “la rivincita delle figlie”, senza scadere nella banalità, ma aprendo numerosi scorci di riflessione, malgrado il respiro breve del racconto.
Soprattutto, ci consegna un personaggio femminile che va ben oltre l’autenticità, sfiorando il panismo dannunziano. Caterina – nome che deriva dal greco katharos, puro, sincero – ha i capelli ricci “incolti”, un temperamento sanguigno e sparge la propria urina sulle piante per fertilizzarle, in una sorta di rituale apotropaico. Paradigmatica Elettra, vive un rapporto elettivo col padre agricoltore, dal quale ha ereditato l’amore per la terra e per la sostanza (una cosa che aveva sempre trovato assurda era come la gente dicesse di amare le piante senza amare la terra […] A lei i fiori dicevano poco o niente, sapeva che erano manifestazioni effimere e vane, eventi stupidi e momentanei). È per amor suo che asseconda il volere della madre infelice andando a Milano per studiare legge (a sua madre piacevano i fiori) e il temporaneo abbandono delle campagne marchigiane sarà sofferto come un fallimentare innesto su un terreno tossico.

Per analogo simbolismo, il padre di Caterina si chiama Pacifico e l’oliveto è il suo elemento naturale. Pragmatico e taciturno, sfiorato dallo stigma patriarcale dell’incomunicabilità, vi sopperisce con la delicatezza di un disegno d’amore fatto di semplicità, condivisione e sacrificio: alberi come gli ulivi non si piantano pensando solo a sé […] Se si piantano degli ulivi, lo si fa pensando al futuro, ai figli, ai nipoti, lo si fa con una certa consapevolezza della propria morte, della morte degli esseri umani. È l’unico a vedere in Caterina quella verità che continua penosamente a sfuggirle (il padre le diceva sempre che lei era come l’olivastro, selvatica e rustica, con frutti piccoli e foglie stondate), l’unico a riconoscerle la forza irriducibile e selvaggia dell’integrità: lei, come gli olivastri, era fatta per resistere a tagli e scortecciamenti, agli innesti di rami addomesticati, era fatta per la rinuncia lungimirante ai suoi piccoli frutti dal sapore deciso e piccante per il bene del raccolto.
Vaticinando il futuro di Caterina, Pacifico “prepara il terreno” per l’atto finale: l’agnizione di sé non può che coincidere con un’apoteosi dell’amore filiale, la rinascita non può che avvenire attraverso la morte, come la natura insegna. Quanto al patriarcato, per sconfiggerlo – sembra volerci dire l’autrice – bisogna acquisire consapevolezza di sé e sacrificarla per la causa, senza inutili manie di protagonismo. Come farebbe un olivastro.


Marta Zura-Puntaroni, L’olivastro, effequ (2023).
Primo volume della collana “Elettra”.

Marta Zura-Puntaroni è nata nelle Marche e ha vissuto a Siena, dove ha studiato e si è laureata in lettere moderne con una tesi sulla figura della Llorona. Ha lavorato nella comunicazione e gestisce la pagina instagram @unasnob. Ha pubblicato i romanzi Grande Era Onirica (minimum fax 2017) e Noi non abbiamo colpa (minimum fax 2020). Attualmente vive a Padova.


Giulia De Vincenzo è laureata in Filologia Moderna, insegna materie umanistiche in una scuola secondaria di primo grado e scrive note sui margini dei libri per sgravarsi di un pensiero (come direbbe Edgar Allan Poe). Non ha ancora capito se la “d” del suo cognome sia maiuscola. Nel dubbio, ha deciso di rendere minuscola la “g” del suo nome. @giminuscola



Vuoi sostenere L’Appeso?

Lascia un commento

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑