di Francesca Casella
Mi sveglio nello studio del mio dentista. Mi dice che l’estrazione di sei dei miei denti è andata a buon fine.
«Il gonfiore che sente è normale, gli effetti dell’anestesia passeranno tra qualche ora. Le prescrivo del Fentanyl da usare al bisogno».
Il Fentanyl, per chi non lo sapesse, è un analgesico, oppioide totalmente chimico. Circa cento volte più potente della morfina. Cento millesimi di grammo di Fentanyl equivalgono all’incirca a trenta milligrammi di Eroina e a centoventicinque milligrammi di Petidina, l’eroina di quelli che si facevano mentre io non sapevo ancora controllare il mio sfintere.
La lingua scivola nell’incavo lasciato vuoto da uno dei denti offerti in sacrificio. Non sento un cazzo. Ripeto l’operazione anche per le altre cavità mentre osservo il dentista. Ha la riga di lato, i capelli leccati sulla fronte e sorride. Sorride mentre mi dice:
«Può scegliere tra la soluzione orale del Fentanyl e dei comunissimi cerotti».
Smetto di muovere la lingua non appena sento “soluzione orale” supponendo troppo tardi protuberanze sulle mie guance. Continua a sorridermi. Il sorriso che mi dedica me lo fa immaginare approfittarsi di me mentre sono sotto anestesia, a ritagliarsi del tempo per toccarmi, tentato dai ripetuti sfregamenti sul mio seno. Chissà se si è eccitato mentre praticava le sue incisioni contro le mie gengive. Rosa, viscide, bagnate. O magari è successo mentre asportava sangue e saliva, mentre estraeva tutto alla radice riportandomi alla verginità dentaria.
Mi sveglio nella cucina dei miei genitori. Mia madre parla, e mentre parla mi consegna una pentola piena d’acqua. «Ci è morto uno chef con quel coso, l’ho sentito da Caterina Balivo».
«Chi?»
Qualcuno grugnisce in sottofondo, mi distraggo, mentre mia madre elegge una presentatrice che non conosco a guru della scienza. «Caterina Balivo, è una così cara ragazza. Oggi devono dire com’è andata l’operazione alla prostata a coso…»
«Re Carlo». L’aiuta mio padre che è seduto a capotavola, intento a guardare dei video sul telefono. «C’è un tizio che ha tirato giù un autovelox con un trattore» annuncia.
«Lo sentite anche voi questo grugnito?» Interrompo lo scambio di informazioni di vitale importanza mentre sistemo la pentola sulla fiamma del gas.
Nessuno mi ascolta.
«Le aragoste provano dolore» – mio padre continua come se niente fosse. Deve aver cliccato su uno di quel link a prova di boomer. Me lo immagino: “aragosta finisce in padella, il video della sua reazione vi sorprenderà”.
Le aragoste non ci sentono e non ci vedono ma sono animali molto sensibili. Hanno un sistema nervoso complesso che li trasforma in animali con un tatto molto sviluppato. Quindi, quando gli si staccano le chele o si lasciano a mollo nell’acqua bollente, soffrono.
Il grugnito prosegue ma adesso capisco la causa poco prima che mio padre annunci:
«C’è il cane sotto la sedia che sta mangiando una scarpa col tacco».
Le mie capacità empatiche nei confronti delle aragoste mi spingono a pensare che anche il mio sistema nervoso deve essere sensibile perché appena realizzo cosa sta succedendo, mi parte un dolore allucinante dai denti che non sono più al loro posto. Dolore fantasma. Come quando ti amputano un arto ma tu sei convinto di averlo ancora lì – e fa male. Ho delle dita che spingono dietro i bulbi oculari, qualcuno mi sta fottendo le pareti del cranio. C’è il mio labrador, espressione del maschio tossico, che sta mangiando le scarpe che devo aver comprato per sopperire all’assenza di sei dei miei denti.
I suoi canini massacrano il cuoio, scivolano e lacerano come unghie su una lavagna.
Mio padre recupera lo stiletto nude. La punta è ormai parte del sistema digerente del mio cane.
«Lo sai, mangia tutto», la scusa che usa mio padre per stemperare il suo fallace tentativo di salvezza. Il mio spirito guida aragosta si dà al suicidio.
Mi sveglio al ristorante cinese. Sulla mia mano sinistra c’è un cerotto di Fentanyl. La mano destra giocherella con un inutile coltello. Mi rimanda la mia immagine distorta, in prospettiva sembro un carlino. Inadatta alla vita, con il muso rovinato da brufoli che hanno segnato la disfatta di almeno una decina di dermatologi. Ho avuto la brillante idea di legarmi i capelli. I brufoli sulla mandibola si notano di più ma le orecchie a sventola si notano meno. Molto meno di quando l’elice decide di spuntare per mettersi in mostra a tradimento.
«Quindi, è andata bene dal dentista».
È Alberto a parlare. Quello che dovrebbe essere il mio compagno da undici anni. Quello che ha deciso di farsi venire una crisi di mezza età costringendomi a tornare dai miei, nel mio letto singolo, senza cassetti dove nascondere i vibratori. Quello che sì, non lo so se ti amo ancora, devo pensarci, quello che ha segregato la mia monstera obliqua sul comodino a morire, quello che ha eletto me a suo mostro nascondendo le mie foto sotto al letto.
Dicevo, Alberto. Annuisco. «Ho prenotato un appuntamento dalla tatuatrice. Per farmi coprire il tatuaggio sulla caviglia». Errori di gioventù.
Alberto mi guarda, devo aver ridestato qualcosa, perché mi guarda con occhi diversi. «Fanno anche i piercing?» E che cazzo c’entra, adesso.
«Suppongo di sì».
«I buchi alle orecchie?»
«Credo. Perché?»
«Voglio farmi i buchi alle orecchie».
Nella mia testa i pensieri si appiattiscono. Restano talmente tanto in silenzio che finisco per esalare un «Cosa?» che deve uscirmi in Caps Lock visto che la cameriera cinese che ci porta il miso mi osserva colpevole. «Non dicevo a lei». Recupero le bacchette, le sfilo dalla bustina nera, torno su Alberto. «Perché vuoi farti i buchi alle orecchie?»
«Non lo so, mi piacciono. Quando hai detto che vai dalla tatuatrice?»
«Ho prenotato a gennaio». Provo a spaccare le bacchette ma le stronze non si separano.
«No, troppo in là».
Troppo in là, siamo a dicembre. La testa recupera solo adesso. I pensieri che erano si risvegliano tutti di colpo, Alberto succhia il suo miso e gli auguro di strozzarsi con un’alga. Non faccio in tempo a dirlo perché mi chiede: «Cos’è che vuoi per Natale?»
Così. Come se non ci stessimo disgregando in questo limbo di sushi in pessimi ristoranti cinesi, retrocessi all’adolescenza.
Mi sveglio nel mio ufficio.
«Venerdì devi passare dai Sartori a fare un rilievo». A parlare è il mio capo, anche noto come colui che avrò visto sì e no cinque volte dentro questo appartamento da quando lavoro con lui. Perché questo oltre a essere il nostro ufficio è anche l’appartamento del mio capo. Lavoro per lui da sei anni. Milleseicento euro al mese, milleseicento porcamadonna da dedicare a quelli che sostengono che gli architetti guadagnano un sacco di soldi.
«Venerdì?» chiedo. No, perché oggi è già giovedì. Ma il mio capo deve trovare la domanda fuori luogo, financo cretina. Non lo dice ma lo pensa, perché si ferma, mi guarda con gli occhi fulminati prima di scaraventarmi addosso la risposta. «Vedi, Ludovica, dopo il giovedì c’è il venerdì».
Io vorrei solo dirti: sei un capo fortunato. Perché quando avevo undici anni non ho ricevuto la mia lettera per Hogwarts, le mie doti da Legilimens non sono state implementate, ma soprattutto non ho imparato a usare una bacchetta per spararti un Avada Kedavra fulminante. Qualcosa per cui, con ogni probabilità, persino tua moglie di cui ti lamenti ogni santo giorno nonché il tuo erede dislessico mi sarebbero riconoscenti. Nella cattolicissima Italia, il 59% della popolazione tradisce. Potremo vantare di essere al penultimo posto per la crescita economica ma in fatto di infedeltà siamo i primi a livello europeo. E il mio capo, dall’alto del suo fascino incomprensibile, rientra nella categoria.
«Alle 7.30 devi essere lì». Certo, chi non vede l’ora di andare a imboscarsi a casa di un tizio che ha deciso di dipingere sulla facciata di casa un murales col glicine con la scritta “Famiglia Sartori”. Inizio a essere così partecipe dell’umido che mi prenderò che soltanto inspirando lì dove c’erano tre denti a sinistra percepisco un brivido. Un brivido che si trasforma in una scossa. Una scossa che diventa un segnale nervoso. Un segnale nervoso che diventa silenzio, si irradia e si articola, si divincola e si contrae nella mia testa al punto che la periferica dei miei occhi si rabbuia. Vedo il mio capo che muove la bocca, il suo alito liquoroso inizia a dire cose del tipo «L’impresa dei Lorenzon ha un ingegnere che va in ufficio quindici minuti a settimana e fa tutto quello che va’ fatto». Mi sta dando della cretina? «Seguono gli appalti pubblici, non hanno mai problemi con i calcoli». Mi sta dando della cretina. «Tu, invece, mai che riesca a fare due calcoli di seguito giusti». Dillo. «Io devo consegnare questa casa. E la devo consegnare senza le finestre perché hai sbagliato tutte le misurazioni». I cerotti. Dove sono i miei cazzo di cerotti. «Tu sei una cretina». Non ci vedo più.
Non ci vedo letteralmente più. È buio viscido e si prende gli occhi. Mi sento qualcosa negli occhi. Una puntura, un ago, un granello infinitesimale di polvere che sta lì e per quanto io lacrimi non va via. Nelle orecchie parte un fischio che sale e mi martella i timpani. Senza sapere né come né perché adatto quel fischio e nella mia testa parte Ray of Light di Madonna. È un vortice. Nella mia mano destra c’è il mio stiletto nude e urlo. Lo sento affondare e quando affonda torno a vedere il tempo di un attimo. Si è conficcato nell’occhio destro del mio capo. Io l’ho conficcato nell’occhio destro del mio capo. Il tacco affonda, e più affonda, più la sostanza bianchiccia si ingrossa, minaccia di uscire dall’intercapedine delle palpebre. Lo sfilo via e gli martello di nuovo la faccia. L’occhio gli sta diventando rosso. Il sangue gli si raggruma lì sotto, spinge e scalpita per uscire finché non gli faccio esplodere una guancia. Sgorga uno schizzo prorompente che sa di caldo, ferroso che mi inonda al ritmo del battito del suo cuore. Mi lorda diretto in faccia il suo fluido più prezioso. E più ci sprofondo, più ne voglio. Mi accanisco. E non c’è osso di quel cranio che regga alla ferocia del mio stiletto numero trentasette e mezzo. Se lui soffre non ha il tempo di lasciarlo a vedere, il tacco affonda finché non ci ritrovo brandelli del suo cervello che saltellano e iniziano a raggrumarsi, contro la suola. E io continuo, continuo anche quando il suo corpo si accascia a terra e io gli salgo sopra, come un’odalisca, una valchiria. Sono invincibile. La pelle si squarcia, mi ricorda le case sventrate che disegnavo quando ero bambina e non avevo giocattoli con cui passare il tempo. Gli deformo la faccia al punto tale che l’occhio gli ciondola via. Solo in quel momento riprendo fiato. C’è un filamento che lo lega al cranio. Ci infilo il dito, lo attorciglio come farei con una ciocca di capelli, lo stacco e salta come un elastico. Lo mangio. E mentre lo mangio mi accorgo di avere un brufolo sul dorso della mano sinistra. Lo gratto via, lo spremo. L’eruzione di pus non finisce lì, e più gratto, più mi rendo conto che lì sotto c’è qualcosa. Gratto, allargo la pelle, devo tirarne via un pezzo che si allunga sempre più finché non estraggo un dente – è uno dei miei canini. Panico. La lingua si solleva, batte lì dove la gengiva testimonia la sua assenza. Sento il sapore del sangue, gli ultimi rimasugli dell’occhio che ho ingoiato.
Sono davanti allo specchio, mi esibisco in una smorfia, le labbra lasciano spazio ai denti. Al primo sfregamento degli incisivi percepisco un rumore che non mi piace. I denti iniziano a sbriciolarsi. Il bianco dello smalto rovina in crepe che risalgono sempre più minacciose verso la gengiva. Deglutisco ma quella vibrazione di saliva è sufficiente alla disgregazione. Mastico cemento dentale, smalto, radici. La lingua si solleva per evitare la dipartita di quei pezzettini di ossa che si scaraventano uno alla volta in gola. Non voglio guardarmi, non voglio vedere la mia bocca da neonata. Voglio urlare ma dalle gengive non esce niente. Sono un’aragosta.
E le aragoste quando provano dolore non possono urlare.
Mi sveglio nel mio letto. Stacco la sveglia che canta Ray of Light di Madonna.
Ho un appuntamento dal dentista.

Francesca Casella è nata lo stesso giorno di William Shakespeare, sogna l’America e molto più spesso l’arrivo di un’Apocalisse zombie. Suoi racconti sono apparsi su varie riviste.
Melissa Brusati. Estate 1994, Melissa nasce in casa perché alla madre fanno schifo gli ospedali, cresce al nord tra i mari quadrati e sogna di morire presto. Non è battezzata ma Dio ha la forma delle suore della scuola materna e della nonna testimone di Geova che non le suona al citofono. Melissa mangia tutto, piange tanto, respira la musica e schifa la gente. Melissa sogna di diventare pittrice ma scopre di non avere una famiglia benestante. Inizia a lavorare ma se ne pente. Incomincia quindi a studiare illustrazione e arti grafiche speciali all’Accademia delle Belle Arti di Novara. Si pente anche di questo. Secondo gli astrologi è fortunata in amore.
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