Il cioccolatino

di Sarah Maria Daniela Ortenzio

Monica chiude gli occhi. Vorrebbe essere giร  a casa. Vorrebbe essere a casa, e immemore.
Ha le gambe stanche. Le gira la testa. La strada che le rimane le sembra infinita. La strada: la metro che sa di piscio e sudore, la piazza assolata, il portone crivellato e i bambini che urlano.
Vorrebbe che qualcuno la prendesse in braccio, e facesse tutta la fatica. Non sopporta il torpore. Non sopporta la ripetizione del tornare.
Chiude gli occhi. Il treno che sferraglia sulle rotaie occupa tutto il resto. Perfino la voce meccanica: Venerdรฌ รจ stato indetto uno sciopero generale dei mezzi. Dalle 8 alle 14 e dalle 18 a fine servizio.
รˆ giร  passata Brenta? Monica riapre gli occhi, controlla lo schermo luminoso. Sรฌ, รจ appena passata. La prossima รจ la sua. Corvetto รจ la sua fermata.
Le porte si spalancano pigre. Si aprono sul corpo abbronzato di una modella in bikini. Pubblicizza una bevanda gasata. รˆ bellissima, e malinconica. Anche mentre beve sotto il sole di una spiaggia caraibica.
Sono le quattro del pomeriggio, ma sotto, in metro, non importa che ore siano. Monica ne sente l’alito appiccicoso posarsi sui capelli e i vestiti. รˆ come essere bloccati in un cesso pubblico che non viene lavato da giorni. Serra la bocca. Non vuole che finisca giรน, per la gola.
Pregusta quando tutto sarร  ormai finito. Poi ricorda quello che รจ successo pochi minuti prima. Si sente inquieta, vorrebbe fare un gesto inconsulto โ€“ leccare i lunghi capelli grigi della donna sulle scale mobili, correre via.
Ride tra sรฉ, mentre si piega appena per sfiorarsi le ginocchia. Monica sa che le sue gambe non reggerebbero nemmeno uno slancio di venti metri. Controlla di nuovo con il pollice la rotula sporgente. Il contatto รจ piacevole. Si rialza.
Andrร  tutto bene, si dice. La soluzione c’รจ, รจ semplice. Trovare un lavoro. Le farร  bene. Quanto potrร  mai essere difficile trovare un lavoro a Milano?

La focaccia. Soffice, e grondante di olio. Con le olive verdi, o con i pomodorini piccoli e interi che scoppiano in bocca. Il pane appena sfornato, con la crosta annerita. Il grasso dell’hamburger che cola sul piatto mentre mastica. Le patatine fritte, croccanti. La mozzarella filante e bruciacchiata.
Ingoiare un boccone, pane e hamburger, pane e olio, patate al rosmarino e cotolette fritte. Ingoiarne un altro. Poi un altro. Un altro ancora.
Pane, focacce, patate, olio speziato e salsicce.
Affondarci i denti e riempirsi. Esiste solo questo. I denti che affondano. Il grasso che cola. Il sapore che scende giรน, riempie lo stomaco. Lo riempie finchรฉ non ci sta piรน niente. Anche allora, non รจ abbastanza.

A volte Monica sente che potrebbe mangiare il mondo intero, senza mai fermarsi. Anche quando la pancia le scoppia. Anche quando le fa male tutto.

Si era vestita di bianco, quel mattino. Nello specchio sbeccato cercava di scorgere le punte arcuate delle spalle. Voleva vederle attraverso la stoffa. Quelle, e le lunghe costole sotto lo sterno.
Non le importa molto delle rughe. Agli angoli degli occhi e della bocca. Ha la sua etร . Cinquant’anni passati, ormai.
Ha i capelli corti e tinti di rosso. Sono capelli spezzati. Si sforzano, fiacchi, di toccarle le punte delle orecchie. Lei li tira via, se li appende alla testa con forcine minuscole.

Era arrivata una raccomandata. Seguita da colloquio telefonico. Seguita da un ricorso. Poi, una serie di visite specialistiche. Un altro appuntamento. Un’altra raccomandata. Un altro ricorso.
La pensione era stata revocata. Ce l’aveva da quindici anni. Dopo il quarto ricovero, quando le ossa delle gambe si erano polverizzate, e non aveva camminato per sei mesi. Avevano ritenuto che fosse troppo. Era troppo, per Monica, essere come gli altri. Cercare un lavoro. Mantenere un lavoro. Essere una risorsa produttiva per la comunitร .
Era stata nonna. Era stata la sua battaglia. L’ultima. Poi, era morta.
Una morte rapida. Non aveva sofferto.
E Monica era rimasta sola.

Il sole sommerge il cemento. Lo riscalda, senza ancora renderlo rovente. L’aria รจ fresca, e odora di glicini. Glicini e gas di scarico. Sa anche di salchipapas. Quelle che sta preparando la ragazza, sul furgoncino azzurro. Ride, sistema le tortillas di mais. Scuote i capelli scuri.
La piazza รจ sempre caotica. Le auto vanno e vengono. Monica si incanta davanti agli artisti di strada. Hanno casacche sgargianti, gialle e verdi, e suonano il flauto. Mentre aspetta il semaforo, arriccia le dita dei piedi nelle sue scarpe da ginnastica mezze rotte.
Vertigine.
Sente sempre la vertigine. La sente anche quando รจ stesa sul suo letto.
Il letto. Fino a questa mattina, ancora un luogo sicuro.
Ora non lo รจ piรน. Niente รจ piรน un luogo sicuro.
Il semaforo diventa verde, Monica attraversa la strada. Socchiude gli occhi perchรฉ il sole la acceca. Passa davanti alla pubblicitร  di un profumo. Il corpo scomposto di una donna giace nudo in un prato. Timidi germogli ricoprono le parti tabรน delle sue pudenda. รˆ un corpo maestoso, glabro e longilineo. Bellissimo. รˆ di un’attrice, l’ha giร  vista da qualche parte, ma non ricorda il nome. Poi arriva al furgoncino delle salchipapas.
Un bambino, che non avrร  piรน di dieci anni, si abbuffa di patatine fritte. Le inzuppa in una vaschetta monouso di maionese. รˆ lรฌ, seduto ai tavolini di fortuna davanti al furgoncino. Monica gli cammina stancamente accanto. Per un istante, l’invidia la stritola. Per un istante, รจ cosรฌ forte che vorrebbe fare qualcosa di inconsulto.
Tirargli un calcio.
Strappargli la vaschetta di patatine.
Ingurgitarle tutte. Senza quasi masticarle.
Di nuovo, la vertigine.
Il cemento davanti ai suoi piedi sembra evanescente. Anche le foglie degli alberi che punteggiano il cielo sono evanescenti. Oscillano, poi diventano bianche.
Monica si rassicura. Mancano poche ore alla cena.

Il pasto della sera: creckers al rosmarino e tre fette di tacchino.
รˆ buono il tacchino. Sono buoni anche i creckers al rosmarino. รˆ perfetto.

Si compiace dei morsi della fame.
Si compiace quando viene osservata con quella ipocrita mistura di stupore e commiserazione.
Si compiace quando si accarezza le punte irregolari delle costole. Le clavicole sporgenti. La pelle della gola tirata, come quella di un tamburo.
Si compiace, e sa che loro, tutti quelli che le chiedono con voce affettata se si sente bene, se ha bisogno di qualcosa, mentono.
Sa che la invidiano. Se potessero, prosciugherebbero il conto in banca per un corpo come il suo.
Se potessero, venderebbero l’anima, per un corpo come il suo.

Potrebbe anche tornare indietro.
Potrebbe tornare indietro, e prendere delle patatine fritte. Una porzione piccola.
Potrebbe tornare indietro, e prendere un piatto di salchipapas. Solo uno. Soltanto un po’ di carne. Ha ancora 10 euro nel portafogli. Potrebbe farlo, e prendere qualcosa. Bastano per qualcosa, sรฌ.
รˆ abbastanza sicura di averli. Cosa potrebbe comprare ancora con 10 euro? Il pollo broaster. L’arroz chaufa. Le salchipapas.
Potrebbe voltarsi, tornare indietro. Fissare la ragazza delle salchipapas negli occhi e ordinare qualcosa, con tono fermo.
Solo una porzione di patate fritte, per favore. Una porzione piccola.

Comincia sempre cosรฌ, no? Una di qua, una di lร . Poi diventano due, cinque, venti. Poi non respira piรน. E diventa per un giorno, due giorni, tre. Una settimana, un mese.
Ti infili i jeans, e li chiudi a fatica. Ti infili i jeans, e ogni volta che ti siedi sembra che qualcuno ti stia torcendo le budella. Manca il respiro. Un peso sul petto. I vestiti ti strangolano. La realtร  รจ troppo piccola per il tuo corpo.
Non respira. Non respiri.
Davvero vuoi che succeda?
Davvero?

A casa ci sono il tacchino e il creckers al rosmarino che la aspettano. Sono magri, e nutrienti. Proteine e carboidrati. Olio, meglio di no.
L’olio รจ puro grasso. E il grasso non va mai bene.

Non ha piรน diritto alla pensione. Non era tanta roba, nemmeno 800 euro. Monica รจ abituata a vivere con poco. Le basta un letto. Un lavandino per lavarsi. Un cartone di latte scremato in frigo. Un soffitto con poca muffa.
Non ha mai chiesto molto, Monica. รˆ abituata cosรฌ.
รˆ sempre stata abituata cosรฌ.

Aveva fatto una scuola professionale, per segretarie. Lo aveva fatto perchรฉ a studiare non era mai stata brava. Si annoiava, e faticava a leggere. Le lettere dei libri stroppiavano sempre in qualunque direzione. Si trasformavano in mucchi di bastoncini mikado senza senso. Era distratta, perennemente. Faceva confusione con le date. Non riusciva a ricordare le tabelline.
In una segreteria avrebbe dovuto tenere in ordine i documenti. Rispondere al telefono. Segnare gli appuntamenti sull’agenda. Gestibile.
Si era giร  diplomata con il minimo sindacale quando aveva capito che avrebbe preferito pulire cessi pubblici. Fare la netturbina. Piuttosto che passare otto ore chiusa in un ufficio.
Tutti i giorni. Fino alla fine dei giorni.
Le sarebbe piaciuto lavorare in una cucina. Oppure all’aperto. Le sarebbe piaciuto davvero fare la netturbina. Andare in giro per la cittร . Rastrellare le foglie secche. Riempire sacchi neri con l’immondizia lasciata in piazza. Riempire sacchi neri di vomito rappreso, bottiglie spaccate, merde di cane, scarafaggi morti, lattine di coca cola schiacciate, cartacce dei fast food, mozziconi di sigarette, pezzi di legno, chiodi, plastiche, frutta marcia.
Riempire i sacchi neri e sentire l’aria fredda sulle guance. L’aria fredda e poi il sole dell’estate. Guardare i vecchi alle panchine, i ragazzini che marinano la scuola. Al martedรฌ, ripulire i resti del mercato. Non importa, la puzza. Di tutte quelle cose che non si vogliono piรน vedere, si sarebbe occupata lei.
A Monica piace occuparsi delle cose che non si vogliono piรน vedere. A volte, ma solo per un istante, pensa che lei stessa sia una cosa che non si voglia piรน vedere. Pattume che puzza, e si getta in un angolo. Sul balcone, a marcire. Nei bidoni maleodoranti nelle cantine. Nelle discariche. Poi, cenere.

Si era vestita di bianco. Aveva lavato i capelli. Si era perfino truccata gli occhi con la matita azzurra.
Bisogna sempre essere dignitosi. Dignitosi, e puliti, quando si va a fare qualche cosa. Lo diceva nonna, se lo ricorda oggi Monica.
Dignitosa e pulita, per presentarsi agli uffici dell’INPS, e fare ricorso. L’ultima possibilitร .
Rivede, anche adesso che cammina, il volto spento dell’impiegata. Quella che le ha rifiutato irrevocabilmente la sua richiesta. Quella che, per Monica, ha sancito la sua condanna.
Lo ha fatto con noia. Lo ha fatto con leggerezza. Ha messo un timbro sul suo fascicolo. Ma era il timbro sbagliato. Lo ha messo come se stesse versando una bustina di zucchero in una tazzina da caffรจ. Una cosa da niente. Normale, insignificante.
Era una donna grassa, e svogliata. Aveva un paio di occhiali rettangolari che le ingrandivano gli occhi. Gli occhi erano azzurri e freddi. Iniettati di sangue.
Monica ci aveva provato. Aveva usato tutto il suo repertorio. L’aveva blandita, all’inizio. Poi si era arrabbiata. Aveva alzato la voce. Aveva piagnucolato. L’aveva supplicata. Aveva posato la fronte sulla scrivania appiccicosa. Aveva pianto, e si era disperata.
Sapeva, fin dall’inizio, che sarebbe stato inutile. Tuttavia, bisognava che fosse fatto.
Cosรฌ l’aveva blandita, insultata, supplicata. Cosรฌ le aveva dato la colpa di tutto il dolore. Si era immolata sull’altare delle vittime, e aveva additato la carnefice.
Non ha i requisiti, signora, ripeteva l’impiegata. Lo diceva seccamente. Lo diceva come se fosse una cantilena, scartabellando pile di documenti. Non la guardava negli occhi.
Monica le aveva chiesto se avesse anche solo l’idea. Una blanda idea, di come fosse.
Avere le braccia cosรฌ deboli da non riuscire a sollevare le buste della spesa.
Avere le ossa di vetro, e rompersele di continuo.
Essere ricoverata d’urgenza perchรฉ, ogni tanto, un qualche organo nel suo corpo si impigriva. Stramazzava. Allora aveva bisogno che qualcuno, di nuovo, la nutrisse a forza e la idratasse. Poco. Quel tanto che bastava perchรฉ riprendesse a funzionare. Monica, in effetti, non avrebbe concesso piรน di quello.
La donna l’aveva guardata, finalmente. L’impiegata dell’INPS. I suoi occhi sanguinolenti squittivano fastidio e insofferenza.
Sono spiacente, signora, ma non ha i requisiti.
Quali sono i requisiti?, aveva chiesto Monica.
L’impiegata non aveva risposto. Aveva la ricrescita scura, sotto i capelli biondi e slavati. Erano sporchi. Monica aveva osservato il ferretto del reggiseno premuto contro l’aderente maglietta rosa; il brillante che portava tra le pieghe del collo sudate.
Monica aveva confusamente capito di essere, per l’impiegata, una dei tanti. Una degli innumerevoli fastidi che ogni giorno occupavano la poltrona di fronte, davanti a lei. La occupavano per ammorbarla con le loro richieste assurde. La torturavano con le lamentele, i pianti isterici, le suppliche e le minacce di morte. Tutti eguali. Una massa di volti senza occhi, nel tentativo inutile di afferrarle le mani.

Niente pensione, niente soldi. Niente soldi, niente cibo, bollette, affitto. Niente soldi, niente casa. Niente casa. Senza soldi, niente casa.
Senza casa, come si fa?

Sfiora le scaglie ondulate della gola. La camicetta le va larga. I pantaloni le cadono. Anche le mutande. Si sente cosรฌ piccola, magra. Meravigliosa.
Monica respira a fondo. Assapora le spire della fame e la vertigine.

Adesso cammina in un’ampia strada. รˆ ombreggiata dai rami spioventi dei tigli. Sente il vento fresco mormorare tra le foglie. Poi non lo sente piรน.
Un uomo le sbarra la strada. รˆ un vecchio signore, con un largo cerotto sul naso. รˆ piantato lรฌ, proprio davanti al portone. Dove vive Monica: mura scrostate e il portone crivellato di proiettili.
Il vecchio si appoggia su un bastone lucido e nero. Sbraita. Si lamenta con una ragazza, vestita da hippie. La ragazza ha tre cani al guinzaglio. Hanno le fauci spalancate, e ansimano. Poi annusano la merda sulla strada e tra le radici dei tigli.

Si chiude il portone, hai capito? Io li vedo sempre in giro quelli lรฌ, e qua non ci dovrebbero stare!, dice il vecchio con il cerotto.
Quelli lรฌ. I ragazzi che nelle aiuole in cortile fumano spinelli. Quelli che accendono fornelletti a gas nelle cantine. Gli uomini che, nel cuore della notte, urlano in lingue incomprensibili. Le donne che rincasano all’alba, traballanti sui tacchi vertiginosi e con la pelle viola per il freddo.
Quelli lรฌ, non ci devono stare, dice il vecchio. Ma ci sono talmente tanti di quelli lรฌ, che Monica non sa piรน a chi si riferisce.

A Monica, in realtร , non interessa nulla di quelli lรฌ. Vorrebbe la strada sgombra. Facciano pure quello che vogliono, quelli lรฌ. Entrino pure nel cortile, scassinino le cantine, riscaldino cucchiai. Crivellino pure le finestre. Si accomodino e si ammazzino tra di loro.
A lei, non importa. Lei non c’entra nulla.

Era stato un mese fa? Forse due. Faceva ancora freddo.
La famiglia dello Shandong del terzo piano. Ma Monica non sapeva da dove venissero. Per lei erano cinesi, e basta.
Lui aveva in gestione il bar nella metro. Aveva il bar, e faceva turni massacranti. Lei, con i capelli cosรฌ corti e pallida. Se non avesse avuto quel seno prosperoso, Monica l’avrebbe scambiata per un uomo. Ai Nuรฒ, cosรฌ si chiama, anche se Monica non sa come si scriva.
Cinque figli, tre maschi e due femmine. Il piรน grande ha giร  un imbarazzante paio di baffetti. La piccola, ancora non cammina. Monica l’ha sempre vista solo piangere. Anche se il suo pianto non fa rumore.
Non si รจ mai chiesta come facciano, di preciso, a stare, cinque figli, due genitori e la nonna malata in due stanzette col bagnetto e senza bidet.
Non sono cose che ci si chiede qui. Ci si chiedono tante cose, ma questa mai.

Monica li vede al sabato mattina, quando tornano dal mercato di piazza Ferrara. Tornano con sacchi di riso da quindici chili. Sembrano sacchi di cibo per cani. Li portano Ai Nuรฒ e il suo figlio piรน grande, quello con i baffetti. Li portano sulla schiena, o tra le braccia, come se fossero bambini. Dal terzo piano spalmano fumi di spezie strane e sconosciute. Ma Monica non riconosce l’aroma pungente dello zenzero. Non ricorda nemmeno l’odore dell’uovo fritto, delle zucchine saltate.
Stendono sul balconcino di pietra larghe tende colorate. Sono colori intensi, e pungono gli occhi. Quando Monica guarda dal cortile, lo sa subito. Il loro balcone, quello con le tende colorate. Rosse e viola e blu.
I figli di mezzo sono piccoli. Per Monica sono tutti uguali. Sembrano bambini tristi e stanchi. Camminano con la schiena curva e i piedi storti. Sembra che debbano ripiegarsi, da un momento all’altro. Come delle sedie di plastica, da infilare tra il muro e il frigo. C’รจ sempre bisogno di altro spazio.

Era stato un mese fa? Forse due. Faceva ancora freddo.
Il papร  dello Shandong esce di casa alle quattro del mattino. Esce di casa alle quattro del mattino perchรฉ deve aprire il bar nella metro. Porta con sรฉ la bimba, la piรน piccola. Quella che ancora non cammina. Ha anche la borsa dei pannolini e il passeggino. Sta con lui perchรฉ ha le coliche. Forse perchรฉ ha le coliche e Ai Nuรฒ non la sopporta piรน.
Apre il portone, e in braccio ha la figlia. La figlia piange. Scrolla il passeggino per aprirlo. Lo scrolla perchรฉ ha il braccio ingombro, chissร .
Chissร  cosa รจ successo davvero. Monica sa solo che deve esserci stato un casino bestiale. Il papร  รจ caduto, e non si รจ piรน alzato. A mezzogiorno, ha trovato il portone crivellato di colpi. Le donne della scala E che gettavano secchi di acqua e candeggina per terra. E i grumi di sangue scolorivano, giรน nella caditoia.

La bambina strillava. Hanno detto cosรฌ. Hanno sentito soltanto questo. La bambina stavolta strillava a squarciagola.

La famiglia dello Shandong del terzo piano. Quella berbera del secondo. La coppia falcianese al piano terra e i lavoratori egiziani di fronte. Il vecchio con la stampella e il cerotto sul naso. La ragazza hippie e i suoi tre cani.
Niente soldi, niente affitto. Niente affitto, niente casa. Niente casa, niente portoni crivellati, candeggina nei cortili, tricicli negli androni, merde di cane, cantine violate, puzza di bruciato, zucchine arrostite, mozziconi di hashish, siringhe vuote.

La ragazza con i cani dice qualcosa. Dice qualcosa sul fatto che lei non sa nulla. Lei non c’entra nulla. La ragazza dice qualcosa, ma lui non l’ascolta. Il vecchio col cerotto. Deve finire quello che ha iniziato. C’รจ bisogno che lui lo finisca.
I tre cani si accorgono di Monica. Partono a razzo verso di lei. La puntano come farebbero con un leprotto. Sono cani grossi. Hanno le orecchie ripiegate e gli occhi buoni. Monica pensa che i cani abbiano sempre gli occhi buoni. Lo pensa anche quando li vede, in piazza, che si aggrediscono. Lo pensa anche quando li vede morsicarsi a sangue.
Monica preferisce i gatti. Sono piccoli, e morbidi. Li puoi tenere in braccio. Sono piรน puliti dei cani.

L’amica di nonna aveva un gatto. Un gatto con gli occhi gialli e il pelo fulvo. Stava srotolato sul davanzale. Prendeva il sole o il fresco della sera.
Al sabato pomeriggio, nonna la portava con sรฉ. A casa della sua amica, a prendere il tรจ. Quella con il gatto fulvo e gli occhi gialli.
Monica stava con il gatto tutto il pomeriggio. Lo guardava, adorante. Lo guardava come si fa con gli idoli. Affondava le piccole mani nel suo pelo folto e lucido. Le immergeva in quella marea di seta. E poi, timidamente, la baciava.

Nonna lo diceva sempre a mamma. Glielo diceva il sabato, alla sera. Quando lei, mamma, le chiedeva i soldi per andare a ballare.
Hai una figlia, diceva nonna. Hai una figlia e vai a ballare. Hai una figlia e non lavori. Hai una figlia e non dai valore ai soldi.
Senza soldi non fai niente.
Niente soldi, niente serate fuori, a ballare. Niente soldi, niente trucchi e vestiti. Niente soldi, niente dischi di vinile. Niente soldi, niente ristoranti. Niente soldi, niente โ€“
Ho solo diciannove anni, diceva mamma. Lo strillava a squarciagola. Come una gallina. Sembrava una stupida, brutta gallina.

***

Nel cortile, in primavera, c’รจ sempre odore di carne bollita. C’รจ fin dalla mattina. Di quel profumo Monica si impregna fino in fondo. Le piace pensare che sia brasato. Lo ha mai mangiato, il brasato? Forse sรฌ, ma senza sapere. Le piace la parola. Brasato. รˆ un nome sibillino. รˆ un nome misterioso, che le fa venire l’acquolina in bocca.
I bambini non sono ancora usciti a giocare. Le biciclette e i tricicli giacciono ancora abbandonati. Giacciono, vicino al muretto. Quello con i murales.
Monica entra nel pianerottolo, sale le scale impolverate. Qualcuno deve aver vomitato. Devono essere stati gli egiziani. O forse viene da giรน, dalle cantine.
L’odore รจ forte. Copre il rimasuglio del ragรน, che striscia da sotto la porta dei falcianesi. Monica sente un conato montarle nello stomaco, come un’onda da lontano. Corre su. รˆ veloce, nonostante i morsi e la vertigine. Nonostante nel suo stomaco, fisicamente, non ci sia nulla da vomitare.
Oltre la porta di legno marcito, il suo mondo. Quello che minacciano di strapparle via dalle mani. Dove, solo fino a stamattina, si sentiva al sicuro. Protetta. Sola.
Casa per Monica รจ un divano sfondato. Un orologio rotto con un cupcake verde rimediato a uno sgombero; pile di giornali e vestiti stropicciati su sedie e pensili.
Monica tira il chiavistello, poi guarda il grande tavolo vicino alla cucina. Pacchetti di incenso e chiavi che non ricorda piรน quali porte aprano. Posaceneri che contengono biglie colorate e graffette. La foto di una modella su una rivista la fissa malinconica coi suoi occhi di ghiaccio. Ha gli zigomi sporgenti, e indossa un lungo cappotto di lana bruciata. Le sta cosรฌ bene, quel cappotto.
Ci sono tende gialle alle finestre, ma non aiutano. Ogni volta che chiude la porta sulla sua casa, qualcosa le striscia addosso. Qualcosa di viscido, sulla pelle della gola. La soffoca. Piano e inesorabile.
Le mani di Monica corrono al ventre. Lo accarezzano senza che lei se ne accorga. Le dita cercano sulla stoffa della camicetta. Cercano tormentose le costole, puntute e sporgenti. Cercano, e le trovano. Una volta trovate, lรฌ indugiano. La memoria tattile confronta: la sottigliezza della pelle; il grado di protrusione delle ossa. Confronta con la percezione del mattino; della sera prima; dieci, venti giorni prima.
Le dita palpano, frugano sotto la stoffa. Devono scovare ogni oncia di grasso che possa essersi nascosta da qualche parte nella carne. Tastano piรน a fondo. Ponderano. Ricordano.
Nulla. Solo pelle tesa. Ossa sbocconcellate. Ruvide.
Monica puรฒ respirare. Si toglie le scarpe, lancia la borsa sul divano. Casa per lei non sa nรฉ di brasato, nรฉ di ragรน. Solo polvere.

รˆ istintivamente consapevole della cosa. Lo sa, dentro di sรฉ. Lo sente nella pancia. Il corpo che abita non le appartiene. รˆ una Donna Grassa. รˆ una Donna Grassa che si nasconde in questo corpo. Recalcitrante. Un corpo che deve essere domato.
Sarร  sempre una Donna Grassa che si nasconde in questo corpo che, dopotutto, non merita.
Vivere significa sedare la carica sovversiva del suo corpo.
Vivere significa lottare per conservare il privilegio.
Ha lottato a lungo per conquistare questo privilegio. Non permetterร  a nessuno di portarglielo via.
Nemmeno alla fame.

Monica non รจ stata una bambina voluta. Lo sa. In fondo, crede, lo ha sempre saputo.
รˆ nata per gioco, e per obiezione di coscienza. Mamma non l’ha mai amata.
Ma mamma non ha mai amato nessuno, nemmeno sรฉ stessa. Cosรฌ diceva nonna. E diceva, non essere come mamma. Sii diversa. Prenditi cura di te stessa. Prenditi cura delle cose che possiedi.
Chissร . Forse Monica avrebbe potuto. Se non avesse odiato mamma con cosรฌ tanta passione, forse se lo sarebbe chiesto. Da dov’รจ uscita mamma?
Nonno, Monica non lo ricorda. รˆ morto prima che lei potesse avere memoria. รˆ morto di crepacuore, cosรฌ ha detto nonna. Mamma era una figlia ingrata. In cambio ha dato solo sofferenza. Vergogna. E una bambina, non voluta. Venuta al mondo per obiezione di coscienza.

Mamma era bella. Aveva gli occhi grandi e labbra piene. Uno sguardo mesto e braccia spigolose. Aveva le lentiggini sul naso e le guance. Aveva le lentiggini perfino sulla schiena. Era cosรฌ pallida.
Chissร . Da dov’รจ uscita mamma?
Nonno era macchinista alle ferrovie. Nelle foto sbiadite, Monica osservava il suo volto spaccato dal sole. Come quello di un contadino. Piccolo, mingherlino. Sproporzionato. Nonna, invece, aveva il corpo di massaia. Larga, tornita. Faccia squadrata. Con le guance rosse e i denti gialli. La bocca che si spaccava di continuo. Rideva tanto, nonna. Rideva, e le palpebre raggrinzivano.
Solo gli occhi erano uguali. Nonna aveva gli occhi della mamma. Gli stessi di Monica.

A volte nonna si arrabbiava. E urlava forte. Cosรฌ forte che a Monica sembrava potesse tirare giรน il palazzo.
Non voleva che mamma uscisse. Non le dava i soldi. Le buttava i vestiti. Gettava i trucchi nella pattumiera.
Non voleva che mamma uscisse, ma non bastava. Mamma era sovversiva. Si ribellava.
Allora nonna la chiamava cagna. E diceva, ti sei fatta mettere incinta come una cagna. Non ti vergogni? Non ti vergogni di andare in giro come una cagna?
Monica ricordava vagamente la sua confusione. Quella strana, inquietante incongruenza. Quando poi, prima di andare a letto, nonna le faceva il bagno, nella piccola vaschetta. E mentre frizionava i capelli o le sciacquava la testa, mormorava.
La stella piรน bella, sei tu.
La mia bambina piรน bella, sei tu.
Il mio topolino, sei tu. La mia piccola, dolce Monica.

La lasagna fumante, con la besciamella che fila quando la metti nel piatto. Le patate al forno. Croccanti, e madide di olio. Il salmone arrostito che si attacca alla brace. La parmigiana con le foglie di basilico. Il panino con il salame e il caciocavallo. La mozzarella di bufala che caccia fuori il latte. Gli anelli di cipolla fritti. I calamari impanati con il limone.
I denti che affondano. Sfilacciano i tessuti. Le labbra che succhiano avidamente il succo.
La passata di pomodoro che cola sul mento e poi sulla felpa. La lingua che scava nella pelle dei peperoni arrostiti per suggere la polpa rimasta. I bocconi, caldi, giรน per l’esofago. Riempiono. La lasciano piena, ma non appagata.
Silenziano ogni cosa.
Potrebbe fare l’amore con un piatto di pasta, succhiando spaghetti uno a uno. Leccando dalle padelle ogni goccia di sangue rappreso. La bocca sugge, mordicchia, lecca, senza pietร .
Vorrebbe compenetrarsi con il sapore che inghiotte. Ogni deglutizione รจ una perdita. Il piatto che lentamente si svuota, un’agonia insopportabile.
Un piacere che non sazia. Un desiderio senza requie. Lasciarsi andare รจ la fine.
La bellezza รจ mortificazione del corpo. Purezza del digiuno. Nella morsa della fame, Monica respira. Accarezza l’incavo tra le cosce. Gli involucri vuoti dei seni.
Si compiace di sรฉ, della sua bellezza. Osserva le braccia rachitiche, assapora la spossatezza.
Sรฌ. In questo corpo in cui si nasconde, puรฒ amarsi.

Che genere di lavoro poteva trovare? Con un diploma da segretaria e trent’anni di niente? Nessuno l’avrebbe presa. Rimangono i lavori da manovale.
Potrebbe fare le pulizie. Potrebbe farle, se non stramazzasse a terra dopo tre rampe di scale. Se non rischiasse uno svenimento ogni volta che aumenta il passo per prendere l’autobus.
La veritร  รจ che non c’รจ niente per lei. Non c’รจ posto per lei, nemmeno in una cittร  come Milano.
Monica piega la testa in avanti, strizza un lembo di pelle rigonfio. Eccolo, il grasso. รˆ lรฌ, proprio sotto il mento. รˆ lรฌ, e la corrode tutta.
Lo pizzica, lo tira, lo stende. Cerca di camuffarlo. Ma ormai le dita hanno trovato, e non possono piรน dimenticare.
Tutto cade.

รˆ stato il latte di stamattina. Sicuramente, รจ stato quello. Erano 164 ml, al posto di 150. Mica si butta il latte, con quello che costa.
Solo una fetta di tacchino stasera, e si sistema tutto. Sรฌ, cosรฌ. Poi il grasso andrร  via. Il corpo si riassesta. Il corpo รจ sempre in divenire, glielo ha detto una volta una nutrizionista.
Il corpo non si ferma mai. Macina, assorbe, ingoia, espelle. Oscilla, rigetta piscio, assorbe acqua, sminuzza carne, espelle merda, ossigeno, sudore. Il corpo rumina, fagocita sรฉ stesso.
Il dramma: Monica non puรฒ avere un corpo immutabile.

Monica si sveste, cerca qualche vestito da casa. Il cesto della biancheria sporca รจ pieno. Gli altri panni li ha sparsi ovunque. Perfino nella credenza, in cucina. Li nasconde lรฌ, quando ci sono le ispezioni degli assistenti sociali. Li nasconde ovunque perchรฉ non ha piรน posto.
Prende la borsa che si porta sempre dietro quando la ricoverano in ospedale. Forse lรฌ c’รจ qualche maglietta pulita.
Fruga nella borsa. Ha la fronte imperlata di sudore. La testa gira, la vista si annebbia. Le sembra di scivolare da una percezione all’altra, senza soluzione di continuitร , come in sogno. รˆ cosรฌ veloce che il corpo non sta dietro. Il pensiero non ci sta dietro.
Poi lo trova.

Le sere d’estate, per Monica, sono sempre state gravide di promesse non mantenute. Lo sente nella pancia. Lo sente, ma non sa come dirlo.
In effetti, da piccoli, non รจ cosรฌ? Non รจ forse ogni cosa una promessa?

Aveva cinque, sei anni. Nonna guidava ancora. Andavano insieme alla piscina comunale. Monica ricorda l’odore del cloro, l’erba sotto i piedi. I mattoni bollenti. Rimanevano languide, sotto un ombrellone striminzito. Sapevano di latte solare.
Nonna portava sempre una delle sue grandi riviste colorate. Una rivista dove c’erano pochi caratteri incomprensibili. Tante immagini. Donne. Solamente donne. Alte, slanciate, bellissime, vestite alla moda. I capelli acconciati e lucidi. I denti bianchi e diritti.
Monica, quando non faceva il bagno, fissava la copertina. Una donna in primo piano. Le labbra rosse, il sorriso misterioso, la pelle liscia. Il corpo, una linea perfetta.
Monica desiderava quei corpi. Allo specchio si guardava il petto nudo e piatto. I fianchi di bambina, un tutt’uno col torace. Le cosce paffute, vellutate.
Confrontava l’ampiezza del piccolo ventre. La curva delle ascelle. Le caviglie sporgenti.
Da piccole, non รจ forse questo nostro corpo, una promessa?

Non le riesce di ricordare un momento della sua vita in cui non avrebbe voluto farlo. Prendere un paio di forbici, tagliare via tutto.
Prendere un paio di forbici e tagliarsi via la pancia.
Monica ricorda la giovinezza. Una rappresentazione ripetuta. Vede sรฉ stessa, allo specchio. Prima bambina. Poi, adolescente. Giovane donna.
Si vede mentre lo fa. Si pizzica con le mani. Pizzica le carni della pancia, e le torce. Le torce, le stritola, le schiaccia, le appiattisce, le graffia, le tira, le annoda dietro, le annoda davanti, le pinza tra le mani aperte, immagina di inforcare un paio di forbici e tagliarle via.
Trattiene il respiro, punta il petto in fuori. Si commisera. Ecco come sarebbe stata. Ecco come potrebbe essere senza tutta quella materia addosso.
Monica non sa. Non sa perchรฉ, non se lo chiede nemmeno. Perchรฉ ha sempre sentito questo bisogno straziante. Occupare meno spazio.
Essere bellissima.

Nelle sere d’estate, la promessa per Monica era il gelato.
Dopo la piscina. Quando la testa le doleva. Le gambe erano pesanti. Nonna la rivestiva. Le cambiava il costumino. Le asciugava i capelli. Poi metteva via la rivista, i teli, il latte solare. Metteva tutto nella sua borsa.
Andiamo a prendere il gelato, diceva.
Il gelato. Un rito sacro, da consumare nel silenzio. Nonna leccava il suo cono. Lo prendeva con la stracciatella e la nocciola. Monica, invece, scavava con la paletta di plastica colorata. Una coppetta, panna e cioccolato. Piรน spesso, solo cioccolato.
Ricorda le macchie di gelato sulle mani appiccicaticce. Lo zucchero liquido intorno alla bocca. Ricorda il suo corpo sul corpo di nonna. Le sue braccia larghe e profumate. Le ginocchia che le facevano fare il cavalluccio. Le palpebre raggrinzite, i denti gialli. E la voce, che sapeva di sole.
Era felice. Era fuori di sรฉ. Per questo, era felice.
รˆ da trentatrรฉ anni che non mangia un gelato. Quindici, da che non mangia dolci. Nemmeno la frutta.

Monica รจ brava. รˆ dovuta diventarlo per sopravvivere a sรฉ stessa. Guarda, ma niente di piรน. Non si permette nemmeno di annusare i profumi dei dolci. Li ha estirpati, rimossi, come traumi infantili. Non esistono. E se non esistono, non puรฒ desiderarli.
La focaccia, le salsicce che grondano grasso, la mollica del pane, l’olio nella pentola dove sobbolle il pomodoro. Questo รจ il perimetro della sua vita interiore.

Poi lo trova.
รˆ in un involucro di alluminio colorato. La carta รจ verde, accuratamente ripiegata. รˆ un po’ schiacciato. Deve essersi sciolto nella borsa. รˆ piccolo. Tre grammi al massimo.
Monica guarda l’ovetto di cioccolato. Esiste, รจ nella sua mano. Non puรฒ ignorarne il volume. รˆ appiccicaticcio. Si sta giร  squagliando, al calore del suo palmo.
Monica non sa cosa fare. Cosa si fa? Come ci si deve comportare davanti all’abisso che non ricorda nemmeno?
Monica non lo sa. Forse รจ per questo che lo scarta e lo mangia.

Non troverร  un lavoro. Lo sa. Lo sa, anche se non vuole saperlo. Se vuole sopravvivere a questo momento, non deve saperlo.
Questo momento: il peso sul petto, la vertigine, le piastrelle sporche che si spalancano, il cioccolato squagliato che scoppia nella bocca, scoppia nella gola, scoppia nella pancia.
Lo sa, ma non lo vuole sapere. Non lo puรฒ sapere.

รˆ cioccolato fondente. Amaro, speziato. Dolcissimo. Scoppia. Poi invade, espugna. Giรน, ancora piรน giรน.
La riempie. La contamina. Da dentro, comincia a corroderla.

Mangiava un cioccolatino. Era seduta sul letto, guardava la mamma. Mamma era davanti al cassettone con lo specchio. Si arricciava i capelli. Si truccava gli occhi.
Monica la guarda, dal letto. Ha le mani sporche di cioccolato. Fissa le natiche tonde di sua madre. Le gambe tornite. Le scapole sporgenti.
Mamma si volta. Ride. Monica รจ sicura che stia ridendo di lei. Monica lo sa. Lo sa, perchรฉ non ricorda altro. Mamma le ha mai fatto una carezza?
No. Mamma non puรฒ essere altro se non una cagna. Una cagna che fa del male agli altri e a sรฉ stessa. Una gallina stupida. Monica lo sa, eppure si vergogna. รˆ come se mamma l’abbia scoperta in bagno, con le mutande calate. Come se l’avesse sorpresa sporca di merda.
Monica si sente appiccicaticcia. Tutto il suo corpo รจ viscido. Ricoperto di zucchero. Il suo corpo, lubrico, eccedente.
Mamma va via. Esce di casa. Monica guarda la linea delle sue gambe.

Non crede di aver mai provato una gioia simile. Ne vuole ancora. รˆ un bisogno fisico. L’assenza brucia. Le hanno aspirato tutta l’aria dai polmoni. I polmoni collassano.
Deve sentirlo ancora. Sulla punta della lingua. Il sapore che inonda la gola. Il sapore che la riempie. Finalmente, completa. รˆ come respirare, dopo un’apnea. รˆ come respirare, dopo un’eternitร .

Non puรฒ farlo. Non permetterร  a nessuno di strapparle via il privilegio. Questo corpo cosรฌ bello, preso in prestito. Non permetterร  a nessuno di portarglielo via.
Nemmeno alla fame.

Monica puรฒ sopportare tutto.
Puรฒ sopportare di essere sola. Il portone crivellato di proiettili. Le mura soffocanti e lo sporco. La pensione centellinata. Le urla dei bambini di giorno e dei falcianesi di notte, che litigano.
Puรฒ sopportare le siringhe per terra, le ispezioni degli assistenti sociali, le case occupate, le ronde della polizia, il fumo dalle cantine, i cucchiai fusi.
Sopporterร  la revoca della pensione, cercare un lavoro, non trovare un lavoro, iscriversi al centro per il lavoro, pregare qualunque impiegato di ente pubblico, minacciare, supplicare, alzare la voce, piangere, strisciare, svilirsi, leccare i pavimenti.
Sopporterร  la caritร , se la otterrร . Sopporterร  anche lo sfratto. Puรฒ farlo. Lo ha sempre fatto. Lo farร .
Ma questo no. Questo non puรฒ sopportarlo. Ha lottato per questo corpo. Questa lotta non si esaurisce mai. Anche quando si tratta di respirare.

Eppure.
Si vede. Si osserva mentre si alza in piedi. Si rimette le scarpe. Il cappotto. Scende dalle scale, oltre la puzza di vomito. Oltre il portone crivellato. Si osserva. Tra gli scaffali ripieni del supermercato. Sotto quelle rassicuranti luci al neon. Afferra una tavoletta di cioccolato. Si vede. Alla cassa. Paga con i suoi ultimi 10 euro nel portafogli. Scappa fuori. Prende la tavoletta, e la scarta.
E respira.

Li sente, i lipidi. Le percorrono il corpo. Sono veloci. Sono scarafaggi sottopelle. Il corpo li sminuzza, li macina, li organizza. Li mette da parte.
Dove li metterร  il corpo? Sotto il mento? Tra le scapole? Sulle costole?
Ha la nausea.

Monica si accascia sul pavimento. Sulla borsa dell’ospedale, ancora aperta. Sente la cerniera. Le preme sulle costole. Il pavimento รจ freddo, si incolla alla guancia. Non ha piรน forze.
Monica pensa non faccia differenza. Potrebbe alzarsi, rivestirsi, andare al supermercato. Potrebbe alzarsi, provare a fare ginnastica. Oppure, potrebbe rimanere lรฌ.
Che differenza c’รจ? Rimane sola.

C’รจ stato un tempo in cui era libera?
Sรฌ, un tempo c’รจ stato. Era un tempo contato. Non ha mai avuto scampo. Ma questa รจ un’altra cosa che sa di non voler sapere.

Quando nonna se n’era andata, erano rimaste sole. Lei e mamma. Due cariche negative. Il polo positivo, perso per sempre. Erano rimaste sole, a guardarsi con sospetto.
Mamma era avvizzita come un fiore. Dalla sera alla mattina. Era stato dopo che nonna se n’era andata. Faceva l’operaia in una fabbrica. Pastiglie per automobili. Faceva pastiglie, e tornava a casa alla sera con le mani rotte.
Monica sapeva. Quando lei veniva ricoverata, sapeva che mamma era sollevata.
Poi tornava. Debole, come quando era partita. Ma non in fin di vita. Tornava nella casa che ora รจ piena di polvere. La casa dove Monica ha sempre vissuto. Quella che, adesso, non sa piรน come pagare.
Tornava. Mamma aveva fatto la spesa. Aveva messo le peonie nei vasi. La tavola era apparecchiata. Aveva cucinato tutto il giorno. Aveva cucinato per Monica. Perchรฉ, finalmente, era tornata.
Pollo arrosto. Patate fritte. Peperoni grigliati. Pasta e rape. Pure il dolce. Panna cotta. Tiramisรน. Budino al cioccolato.
Diceva, mangia. Cosรฌ guarisci. Sei troppo magra.
Monica a volte immaginava di prenderle la testa e sbatterla contro il muro. Prendere la testa di mamma, sbatterla forte. Cosรฌ forte da avere tutte le cervella tra le mani. Voleva sentire il fracasso della scatola cranica, frantumarsi.
Mamma era bellissima, anche avvizzita come un fiore.

Era diventata troppo vecchia per lavorare. La mente era marcita, al posto del corpo. Dimenticava i fornelli accesi. Non sapeva in quale delle due scarpe infilare il piede destro, e il sinistro. Non sapeva come usare il cesso. A volte, era convinta di avere dieci anni.
Quando pensava di avere dieci anni, Monica la odiava ancora di piรน. La sentiva urlare. Chiamava mamma, che poi, era nonna. Chiamava mamma, mamma, aiutami, mamma. Aiuto, mamma, aiuto. Monica si tappava le orecchie. Le gridava di smettere. Le lanciava addosso i vestiti. Stai zitta, stai zitta, cagna, stai zitta, cazzo, stai zitta.
Era durata fin troppo. Poi, l’assistente sociale. Avevano fatto tutto gli assistenti sociali. L’avevano ricoverata in RSA. E Monica era rimasta sola.

Fuori, sul pianerottolo, qualcuno sale le scale. Sono bambini. Sono i bambini del terzo piano. La famiglia dello Shandong. Monica sa che sono loro. Non ci sono altri bambini in questa scala.
I bambini sussurrano, ridono piano. Sanno che non devono dare fastidio. Monica sente una voce. Qualcuno di loro canticchia una filastrocca. Ridono ancora. Forse รจ la prima volta che li sente ridere. Canticchiare una filastrocca.
I bambini salgono, su per le scale. I passi, lentamente, si allontanano. Un chiavistello viene aperto. La porta cigola. Ecco la voce acida della nonna. Dice qualcosa, in una lingua che Monica non conosce. Forse dice, entrate. Forse dice, avete fatto di nuovo tardi. C’รจ la merenda, in tavola.
Monica sente sgorgare dentro di sรฉ un conforto incomprensibile.


ยฉ Sara Corsi, Non sento, non vedo, non mangio, 2024.

Sarah Maria Daniela Ortenzio, nata nel 1993, a Milano. Laureata in Lettere Moderne, collabora con studi editoriali e case editrici per revisione/correzione testi narrativa e saggistica. Ha curato libri per Harper Collins, Mondadori, Rizzoli, Carocci e Sperling&Kupfer. Frequenta il laboratorio di scrittura Lalineascritta, condotto da Antonella Cilento.


Sara Corsi, aka cursaria, รจ una illustratrice e grafica freelance di Firenze. Dal liceo classico รจ passata alle arti visive, laureandosi presso la LABA nel percorso triennale di Graphic Design & Multimedia, dove attualmente insegna in qualitร  di assistente; qui la sua tesi sperimentale in “Scrittura Asemica” le รจ valsa la menzione di eccellenza. Nel 2022 si รจ laureata presso l’ABABO di Bologna in Illustrazione per lโ€™Editoria. Collabora con la rivista ยซCancerworldยป e le organizzazioni SOS Children’s Villages e War Child Holland, per la quale cura, tra le varie iniziative, il progetto internazionale “ReachNow”. Ha collaborato con studi e privati e partecipato a concorsi e mostre, la piรน recente in Inghilterra tramite la collaborazione con ยซBrut Magazineยป in occasione dell’uscita del nuovo libro Unspeakable. Utilizza il digitale e lโ€™analogico ibridando le due tecniche; il ricorso al lettering fatto a mano รจ indice del suo rapporto tanto con il disegno quanto con la scrittura, quindi della cura dellโ€™unitร  primaria di entrambi i campi: il segno.



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