In memoria di Giuseppe Fava – I Siciliani, l’intervista, i funerali


I Siciliani, perché

di Giuseppe Fava, I Siciliani n. 1, gennaio 1983

I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione. Lo spaventoso lampo di violenza, che una dopo l’altra, ha reciso la vita di uomini (Mattarella, Costa, Pio La Torre, Dalla Chiesa) al vertice della società, ha drammaticamente rappresentato e spiegato la dimensione della mafia e della sua immane potenza. Ma questo lampo ha svelato una verità più alta e tragica: la mafia è dovunque, in tutta la società italiana, a Palermo e Catania, come a Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro, per cui l’ordine di uccidere Dalla Chiesa può essere partito da un piccolo bunker mafioso di Catania, o da una delle imperscrutabili stanze politiche della capitale.

E dietro la mafia, quel lampo sanguinoso ha fatto intravedere altri problemi immensi che per decenni sono stati considerati soltanto tragedie meridionali, cioè, secolari, inamovibili, distaccate dal corpo vivo della Nazione e di cui semmai il Paese pagava il prezzo di una convivenza, e che invece appartengono drammaticamente a tutti gli italiani, costretti a sopportarne il danno, spesso il dolore, talvolta la disperazione.

Il mortale inquinamento del territorio di Priolo, per cui migliaia di esseri umani sono stati condannati a vivere, otto, dieci anni di meno di quanto non potrebbero se vivessero altrove; la base dei missili atomici a Comiso, contro la quale, a cinquemila, sei mila chilometri di distanza, sono perfettamente puntate altre testate nucleari: entro i primi tre o quattro minuti dallo scoppio di un conflitto, mezza Sicilia e due milioni di esseri umani sparirebbero nella folgore atomica; la ferocia dilagante della camorra che, subalterna e alleata della mafia, sta putrefacendo per sempre la grande anima napoletana; l’emigrazione meridionale al Nord, che dapprima è stata soprattutto speculazione del grande capitale sulla povertà, ignoranza, disponibilità di centinaia di migliaia di infelici, ed ora nei giorni della grande recessione s’è trasformata in una grande piaga sanguinosa che assedia le grandi città settentrionali: questi problemi che la Nazione conosceva e che però si rifiutò di riconoscere come suoi, sono apparsi nel lampo tragico di questi ultimi mesi. Tutto quello che accade a Milano, Roma, Venezia, Torino, nel bene e nel male, appartiene anche ai meridionali, ai siciliani. Quello che accade nel Meridione e in Sicilia, il bene e il male, la paura, il dolore, la povertà, la violenza, la bellezza, la cultura, la speranza, i sogni, appartiene a tutta la Nazione.


L’ultima intervista

Intervista di Enzo Biagi, 28 dicembre 1983, “Film Story – Mafia e Camorra” / Archivio AccasFilm (*)

Fava, nei tuoi racconti sulla mafia a che cosa ti sei ispirato?
Biagi, mi ispiro alle mie esperienze giornalistiche. Si sta facendo un’enorme confusione sul problema della mafia. Ti faccio un esempio: i fratelli Greco, accusati dell’omicidio del giudice Chinnici, sono degli scassapagghiari, delinquenti da tre soldi. I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo… Cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa è roba da piccola criminalità che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l’Italia.

È vero che la realtà spesso supera la fantasia?
Sì anche perché dalle mie esperienze personali mi sono trovato quasi sempre di fronte a fatti, fenomeni, personaggi che io non avrei osato a volte nemmeno immaginare. Se tu vuoi io posso citare…

Io voglio, sì sì.
Tu forse conosci la storia di Placido Rizzotto.

Sì.
Placido Rizzotto era un sindacalista pazzo, pazzo alla maniera nobile del termine, il quale si illudeva negli anni ’40 – ’50 di poter redimere i poveri di Corleone e come un pazzo andava all’occupazione delle terre con delle bandiere tricolore, con delle bandiere rosse guidando folle di contadini affamati per l’occupazione del latifondo. Evidentemente era un uomo che dava molto fastidio al potere, alla proprietà, al padrone perché in effetti espropriava le terre sia pure abbandonandole, costretto ad abbandonarle perché non c’era acqua, non c’erano strumenti di lavoro, non c’erano case. Però era un uomo che gettava il seme della rivolta in un luogo, in una terra, in un territorio dell’isola che era stato sempre tradizionalmente dominato dalla mafia. E accanto a lui – ecco la cosa stupefacente – camminava, correva (perché i rivoluzionari corrono secondo tradizione) dietro alle bandiere rosse, alle bandiere tricolore seguiti da queste torme di contadini una ragazza che il mito descrive scarmigliata, bella, alta, bruna come le siciliane, come una Anita Garibaldi. Ed era la sua fidanzata, si chiamava Leoluchina Sorisi. Lavorava con lui, si batteva con lui, lottava con lui, occupava le terre insieme ai contadini finchè un giorno Placido Rizzotto scomparve. Placido Rizzotto è uno degli eroi dimenticati. Io qui vorrei fare una piccola parentesi e ti chiedo scusa ancora. Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da trenta secoli contro la mafia, lottano alla loro maniera naturalmente. Il fatto è che tutti gli uomini che sono caduti negli ultimi tre o quattro anni sono tutti siciliani. Gli eroi della lotta contro la mafia sono tutti siciliani con l’esclusione di Dalla Chiesa soltanto, il quale tutto sommato era anche lui un siciliano perché era stato a comandare i carabinieri di Palermo per tanto tempo. Ecco Placido Rizzotto era uno di questi eroi siciliani che spesso vengono dimenticati dall’opinione pubblica italiana. Placido Rizzotto scomparve, morì come credo nessuno sia morto, nel modo più orrendo possibile. Venne precipitato in fondo ad una spelonca del monte Busambra, un precipizio, una voragine di 300-400 metri e ritrovato dopo due anni. Venne precipitato giù vivo ed incatenato, cioè morì di fame e divorato dalle bestie della campagna. Quando i carabinieri e gli speleologi tirarono su questi miserabili resti umani, che vennero credo identificati attraverso una catenina che ancora quei resti avevano al collo, era presente Leoluchina Sorisi che riconobbe il cadavere e disse (riferiscono le cronache di allora) sicilianamente una cosa molto bella che io da siciliano non condivido ma che poeticamente amo: “Di chi lo uccise io mangerò il cuore”. Passò del tempo. Si seppe che l’assassino o comunque il mandante dell’assassino (o si ritenne di sapere che il mandante dell’assassino) era Luciano Liggio il quale era il Napoleone della mafia, il potere insorgente della mafia ed era inafferrabile, era una primula rossa. Beh, Luciano Liggio venne catturato in casa di Leoluchina Sorisi, nel letto di Leoluchina Sorisi, accudito e curato da questa donna. Non che ci fosse un rapporto umano. Però era nella sua casa. Io ho cercato questa donna, l’ho cercata a Corleone, l’ho cercata dovunque, da tutte le parti, non l’ho trovata più. Ecco qui la realtà va oltre qualsiasi immaginazione. Perché una donna che è innamorata di un uomo, che assiste alla sua fine e ama anche la sua maniera di morire, poi può far tenere dentro la propria casa e curarlo, accudirlo e nasconderlo l’uomo che si presume lo abbia ucciso?

Tu hai fatto una conoscenza diretta del mondo della mafia come giornalista?
Sì, ho conosciuto diversi personaggi dell’una e dell’altra parte attraverso quelle che erano le cronache, le inchieste, le indagini che andavamo conducendo e che puntualmente abbiamo riferito sui nostri giornali.

Chi ricordi di più di questi tipi? Dei vecchi mafiosi per esempio? Sono cambiati?
Un uomo sì. C’è un abisso – anche questa è una grande confusione che si fa – tra la mafia qual era vent’anni fa, quindici anni fa, e quella di oggi. Allora il mafioso per eccellenza era Genco Russo. Io sono stato a casa di Genco Russo e, mi si perdoni il termine, ho avuto – con molta ironia lo dico – l’onore di essere stato l’unico ad intervistare Genco Russo, ad avere da lui un memoriale da lui firmato che iniziava con “Io sono Genco Russo, il re della mafia”. Genco Russo era un uomo che governava il territorio di Mussomeli dove, da vent’anni, non c’era non dico un omicidio ma uno schiaffo. Non c’era un furto, dove tutto procedeva nell’ordine, nella legalità più assoluta. Era la vecchia mafia agricola, la quale governava un territorio ed aveva una forza straordinaria che il mondo di allora non poteva ignorare, governava 15, 20 mila, 30 mila, 40 mila voti di preferenza di una parte della provincia. Nessun uomo politico poteva ignorare questa potenza determinante perché bastava che Genco Russo spostasse non da un partito all’altro, ma anche all’interno dello stesso partito quella massa di voti per determinare la fortuna o l’infelicità di un uomo politico. Ecco perché poteva andare alla Regione siciliana e spalancare con un calcio la porta degli assessori: perché lui era il padrone. Poi dopo la società corse avanti, si modificò tutto ed i mafiosi non furono più quelli come Genco Russo. I mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori, anche al massimo livello. Si fanno i nomi – non lo so, io non li conosco personalmente – dei fratelli Greco. Si dice che siano i mafiosi vincenti a Palermo, i padroni della mafia, i governatori della mafia, i vicerè della mafia. Non è vero: sono anche loro degli esecutori. Sono nella organizzazione, stanno al posto loro e fanno quello che gli altri… non lo so, io adesso parlo di persone che sono incensurate, quindi presumo secondo l’accusa.

L’America, i nostri compatrioti all’estero che parte giocano in tutta la faccenda?
La loro parte è senza dubbio importante, cioè loro sono gli apportatori di masse di denaro incredibili. Io ritengo che la loro parte soprattutto sia in quello che oramai è l’argomento fondamentale della strategia mafiosa, cioè il mercato della droga. Io ho fatto delle indagini piuttosto sommarie debbo dire che può fare chiunque. Mi sono reso conto di quella che attualmente è la struttura finanziaria della mafia. Questi sono degli studi che chiunque può leggere. Esistono attualmente al mondo circa cento milioni di drogati. La cifra è molto più alta, ma ufficialmente sono quelli. Un milione dei quali muoiono ogni anno per overdose. Dieci milioni restano definitivamente inabili a qualsiasi attività umana. Gli altri novanta milioni che restano vengono continuamente aumentati di numero eccetera. Si presume che consumino, questi cento milione di persone – che vivono soltanto nel mondo occidentale –, dalle 15 alle 20 mila lire di droga al giorno. Secondo calcoli piuttosto banali, piuttosto facili (basterebbe una macchinetta) si tratterrebbe di qualcosa come 100 mila miliardi l’anno, i quali vengono manovrati quasi esclusivamente dalla mafia. Ora io mi sono posto questa domanda che credo si sia posta qualsiasi persona costretta per motivi professionali o per passione politica oppure per pura umanità ad interessarsi del problema. Un’organizzazione che riesce a manovrare centomila miliardi l’anno, più, se non erro, del bilancio di un anno dello Stato italiano, in condizione di armare degli eserciti, in condizione di possedere delle flotte, di avere una aviazione propria. In effetti sta accadendo che la mafia si sia ormai pressocchè impadronita, almeno nel medio oriente, del commercio delle armi, del mercato delle armi. Ecco gli americani contano in questo. Però neanche loro avrebbero cittadinanza in Italia come mafiosi se non ci fosse il potere politico e finanziario che consente loro di esistere. Diciamo che di questi centomila miliardi, un terzo, un quinto resta in Italia e bisogna pure impiegarlo in qualche modo, bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo. E allora ecco le banche, le banche nuove, questo pullulare, questo proliferare di banche nuove dovunque che servono per riciclare. Il Generale Dalla Chiesa lo aveva capito, questa era stata la sua grande intuizione, quella che lo portò alla morte. Era dentro la banche che bisognava frugare perchè lì c’erano decine di migliaia di miliardi insanguinati che venivano immessi dentro le banche e ne fuoriuscivano per andare verso opere pubbliche. Ritengo che molte chiese siano state costruite con appalti avuti da denari mafiosi insanguinati.

Il padrino è quello raccontato da Mario Puzo o è un altro tipo?
Sì in parte penso di sì. È un uomo saggio e crudele, il quale ha saggezza su tutto e una crudeltà senza limiti, disposto ad ammazzare o a fare ammazzare anche il figlio se dovesse essere il caso. Per il mafioso è una causa. Per Genco Russo la mafia era una causa. Per il mafioso moderno nella mafia moderna non ci sono padrini, ci sono grandi vecchi, i quali si servono della mafia per accrescere le loro ricchezze. Questo è un dato che spesso viene trascurato. L’uomo politico non cerca attraverso la mafia soltanto il potere, cerca anche la sua ricchezza personale, perché dalla ricchezza personale deriva potere e deriva la possibilità di avere sempre quei 150 mila, 200 mila voti di preferenza. Perché purtroppo la struttura della nostra civiltà politica è questa. Chi non ha soldi 150 mila voti di preferenza non riuscirà ad averli mai.

Una volta si diceva che la forza dei mafiosi era la capacità di tacere. E adesso?
Io sono d’accordo con Nando Dalla Chiesa: la mafia ha acquistato una tale impunità da essere diventata perfino tracotante. Le parentele si fanno ufficialmente. Sì certo, si cerca di tirar fuori le mani, di tenerle in alto quando c’è qualcuno che sta per essere ammazzato, l’alibi personale, l’alibi morale. Ma non credo ci sia questa paura, questa necessità di far silenzio. Io ho visto molti funerali di Stato. Ora dico una cosa di cui solo io sono convinto, quindi può non essere vera: ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità.

Come sono le donne dei mafiosi?
Quasi inesistenti. Io non ne ho conosciuta alcuna. Ho conosciuto le donne delle vittime dei mafiosi e loro sono delle donne straordinarie.

Cosa vuol dire essere “protetti” secondo il linguaggio dei mafiosi?
Essere “protetti” significa poter vivere dentro questa società. Ho letto un’intervista esemplare nei giorni scorsi a quel signore di Torino che ha corrotto tutto l’ambiente politico torinese. Diceva una cosa fondamentale. È una legge mafiosa che è stata esportata, è venuta su dalla Sicilia, fa parte ormai della cultura nazionale: non si fa niente in Italia se non c’è l’assenso del politico e se il politico non è pagato. Ecco noi viviamo in questo tipo di società e in questo tipo di società la protezione è indispensabile se qualcuno non vuol condurre la vita da lupo solitario. Che può essere anche una scelta, può essere anche affascinante, essere soli nella vita e non avere né aderenze né protezione da alcuna parte, orgogliosamente soli fino all’ultimo. Questa può essere una scelta, ma sessanta milioni di italiani non potranno farlo.

Non hanno questa vocazione alla solitudine. Secondo voi cosa bisognerebbe fare per eliminare questo fenomeno?
Tu fai una piccola domanda che avrebbe bisogno di una enciclopedia. Posso dirti soltanto che a mio parere tutto parte da una assenza dello Stato e dal fallimento della società politica italiana. Bisogna ricominciare da lì. Forse è necessario creare una seconda Repubblica in Italia. È tempo di creare una seconda Repubblica che abbia delle leggi e una struttura di democrazia che eliminino il pericolo che il politico possa diventare succube di se stesso o della sua avidità o della ferocia degli altri o della paura o comunque in ogni caso che possa essere soltanto un professionista della politica. Tutto nasce da lì, dal fallimento della politica e degli uomini politici, della nostra struttura politica e forse della nostra democrazia così come noi l’abbiamo in buona fede appassionatamente costruita e che ci si sta sgretolando fra le mani. Dovremmo ricominciare da lì.

(*) L’intervista è disponibile su YouTube e su WikiMafia. I diritti editoriali appartengono a AccasFilm Milano.


Funerali di Stato. Mio padre sorrise

di Claudio Fava, I Siciliani, gennaio 1984

Io non so come mio padre avrebbe descritto il proprio funerale, ma credo che si sarebbe divertito.
C’era il sindaco, fasciato nel tricolore come un pugile, c’era un Presidente, abito blu scuro appena stirato, le mani cristianamente congiunte e appoggiate sul ventre, c’erano tanti occhiali scuri, come da copione, e le cravatte serie, e le scarpe di vernice nera.
C’era un mesto silenzio, in chiesa, ed ognuno inseguiva i propri pensieri tenendo lo sguardo adagiato sulla bara di mogano:

«Chissà perché…»
«Se l’è cercata lui!»
«Scarpe strette, maledizione…»
«E adesso, a chi tocca?»
«Nella misura in cui… nella misura in cui…»
Nella misura in cui, disse più tardi il sindaco, in municipio, accanto alla bara.

Qualcuno cantava il Nabucco, e mia madre piangeva, e c’era chi fischiava piano. Io pensavo a mio padre, dentro quella bara che odorava di resina, con il Cristo di bronzo crocifisso sul coperchio e i sigilli di ceralacca rossa dell’ufficiale sanitario; l’ultima volta, mio padre, l’avevo visto nella sala grande dell’istituto di medicina legale, su un lettino di ferro: la sua grande testa, la fronte larga, con le rughe dure e profonde, la barba nera e grigia, quella grande bocca, grande e sottile. Ed il corpo minuto, nudo, immobile sotto il lenzuolo bianco.
Ci avevano raccomandato di non baciarlo, e di non toccarlo, e in un angolo c’era un signore che si infilava un camice verde. Due ore prima del funerale lo avevano rivestito. Il giubbotto di lana, quello bianco elegante, la camicia di seta pure bianca, le scarpe nere. Poi avevano chiuso la bara.

Nella misura in cui, disse il sindaco, ed il Nabucco arrivò all’ultima strofa.

Una volta mio padre aveva scritto un pezzo sui funerali di Stato, questo buffo rito siciliano con i mandanti del delitto spesso confusi, abito blu da cerimonia ed occhiali scuri, nelle prime file della cattedrale. Era un pezzo allegro, nonostante tutto: mio padre aveva sorriso di tanta mestizia, delle omelie traboccanti di superlativi e di ammonimenti minacciosi, della folla che alla fine applaudiva sempre, commossa e composta, e dei bambini levati in alto, dei garofani, dello sguardo compunto e professionale dei becchini.
E avrebbe riso forte, mio padre, se qualcuno avesse predetto per lui la stessa cerimonia, gli stessi personaggi paludati e il coro e la folla plaudente e il discorso delle autorità.
I colleghi mi hanno detto: scrivi un pezzo, ma senza commemorazioni, a tuo padre non sarebbero piaciute. Non gli sarebbero piaciuti neanche i funerali di Stato e una piazza con sopra scritto il suo nome.
Semplicemente non gli sarebbe piaciuto morire: troppo banale, troppo retorico, troppo inutile.
Infinitamente più affascinante vivere. Infinitamente più difficile in questo paese.
Chi ha voluto che mio padre fosse ucciso, non ha avuto bisogno di riunire tribunali mafiosi, di processare fantasmi, di emettere sentenze di morte; sarà stata sufficiente una strizzata d’occhi, un cenno del capo: è un uomo pericoloso, avranno detto, un uomo libero, e le sue parole feriscono.
E non credo – qualcuno lo ha scritto – che quel killer, con le cinque revolverate sparate alla nuca di mio padre, abbia ucciso anche se stesso, la propria speranza di redenzione, la propria ribellione contro l’emarginazione e contro il destino di uomo pagato per uccidere altri uomini. Balle.
Quelle speranze le ha uccise la violenza e la stupidità di centomila voti o di cento miliardi; e le abbiamo uccise anche noi che, dopo i funerali di Stato, torniamo silenziosamente a vivere, mentre qualcuno già raccoglie le corone di fiori per rivenderle al prossimo feretro.
Il fatto è, mi hanno garbatamente spiegato, che la vita continua.
E allora ho ricominciato, abbiamo ricominciato a vivere, per ritrovare il coraggio di lottare fino in fondo quella stupidità e quella violenza. Ma capisco che oggi il mio è un coraggio diverso, perché è fatto anche di amarezza e di solitudine.
Ho un solo rimpianto, essere vissuto accanto a mio padre troppo in fretta. Ma ho molti ricordi, dolcissimi e tristissimi (chiedo scusa, è già commemorazione…): il suo gusto per gli aggettivi, parole affabili, misteriose, provocanti che la sua immaginazione cercava di ricondurre a realtà spesso più grigie, più banali;
e la sua infinita timidezza, il suo esuberante desiderio di esistere e l’angoscia di non riuscirvi sino in fondo.
E poi quella prima semplice verità che m’insegnò su questo mestiere: dietro ogni fatto, mi disse una volta, dietro ogni notizia, banale o terribile, c’e sempre il destino, banale o terribile di un uomo; e dietro ogni nome c’è un volto, c’è una storia: di passione, di tragedia, di quotidiana miseria, di abitudine.
Storie di esseri umani: e non vanno mai derise, mai giudicate. Solo rispettate.

A me sembrò un po’ banale, quella prima lezione di mestiere.

Ma il mestiere, quella volta, non c’entrava.

Funerali di Stato di Giuseppe Fava, Catania, 1984 © Tano D’Amico

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