Le tre bocche della luna

di Flavia Catena

Mio zio Umberto era cieco e ogni notte saliva sulla luna. All’età di dieci anni aveva perso la vista e nel buio il tempo, per lui, si era fermato.
Bambino prodigio, era venuto al mondo, a detta di mia nonna, con il pugno stretto a reggere la matita e gli occhi spalancati dalla luce dell’ispirazione. Dai tre anni in poi non ci sarebbe stato altro gioco che quello di disegnare.
Disegnava ovunque, il piccolo Umberto: sui fogli strappati ai quaderni, sui biglietti del treno, sui tovaglioli rubati dal cassetto dello sparecchiatavola, sulla parete dietro il settimino della sua stanza. Sembrava posseduto da una forza sovrumana, diceva chiunque si fosse trovato a osservarlo già allora.

La notte dell’incidente, prima che un proiettile di fucile sparato per festeggiare la fine dell’anno lo raggiungesse dal balcone aperto del salotto, colpendolo alla testa, era la luna che mio zio stava puntando con il binocolo. Una luna rotonda, piena e rossiccia, come quella che in estate, affacciato dalla terrazza della nonna, guardava dondolarsi sul mare nero. La osservava da mesi, in ogni sua fase, intenzionato a disegnarne nel modo più verosimile possibile la faccia, una faccia che, per come la descriveva a mia nonna, aveva due occhi, un naso e tre bocche: con una di quelle bocche la luna rideva, con l’altra metteva il broncio, e con la terza sbadigliava.
Quella notte tutte e tre le sue bocche erano deformate da uno strano ghigno. Il colpo raggiunse mio zio proprio nel momento in cui la sua mano, armata di gessetti, aveva iniziato ad abbozzarne il contorno.
Gli ci volle un anno per riprendere a disegnare. Ogni giorno chiedeva: «e la luna, com’è oggi?» ma i genitori, preoccupati all’idea che alimentando la sua fantasia avrebbero contribuito a isolarlo, a farne ancora di più un emarginato (la cecità lo aveva spinto a ritirarsi da scuola), rispondevano con un semplice: «piena» oppure «a falce». Umberto era dunque costretto a riempire quella vaghezza con tutti i dettagli conservati nella sua memoria. Fu allora, spingendo la sua immaginazione al limite, su confini mai toccati, che trovò la strada per raggiungere la luna.
Era sufficiente che si alzasse dal letto ancora addormentato, che aprisse la finestra, e si lanciasse fuori. Un paio di metri in caduta libera, e poi eccolo salire verso il cielo e superare uno ad uno tutti gli strati dell’atmosfera. Una volta raggiunto l’universo e approdato sulla luna, i suoi occhi tornavano a vedere.

Da bambina ascoltavo affascinata i racconti delle sue passeggiate celesti. Riuscivo a distinguere anche io, attraverso i suoi occhi velati, le voragini che si aprono dentro le tre bocche della luna. Ciascuna è un mondo a sé, diceva lo zio, un paradiso senza santi ma solo beatitudine o un inferno senza diavoli ma dannazione continua.
Le esploravamo insieme, io seguendo le sue descrizioni, lui disegnando figure astratte sulla carta.
«Dentro la bocca che sbadiglia c’è una luce tanto forte che la pelle inizia a bruciare, e bruciando si fa spessa, e diventa qualcos’altro. Ci si trasforma, scendendo in quella bocca. È così che al posto delle braccia, certe notti, mi ritrovo dei rami, e al posto del petto un tronco. E poi, altre notti, sono una pietra preziosa, un diamante, un rubino, o un sasso comune, ma la felicità che provo, qualunque cosa diventi, è sempre la stessa, indescrivibile!»
La bocca-broncio suscitava nello zio emozioni totalmente differenti. Sembrava che il buio, laggiù, fosse così fitto da fare paura.
«È come petrolio sulla pelle: tu strofini, strofini, ma non se ne va. Sai allora che ci dovrai convivere per un po’, tu con quel tuo piede nero, tu con quella tua mano nera…»
Ci scendeva di rado, infatti, esplorandone un angolo alla volta. Andava avanti tastando le sue pareti molli e appiccicose, incuriosito e sconcertato al tempo stesso.
«Non ha odore, ma se dovessi trovargliene uno, direi che mi ricorda la liquirizia» mi disse un giorno, quando gli chiesi che cosa significassero quei cerchi neri dipinti sul foglio bianco. «Pensavo alla liquirizia, che si avvolge tutta in spire, un po’ come un serpente».
Una volta, quando aveva quindici anni, ci era rimasto intrappolato. Era scomparso da casa, scomparso come scompare uno spettro, senza lasciare traccia, e nessuno sapeva che cosa gli fosse accaduto. In quell’occasione alla nonna erano spuntati i primi capelli bianchi, lei che all’età di quaranta non ne aveva ancora uno, e il nonno si era messo a piangere in pubblico, lui che di lacrime ne versava una sola per guancia, quando non visto. Poi, alla mezzanotte del giorno seguente, lo avevano ritrovato nella sua stanza, seduto sul letto, con il pigiama ancora indosso. E quando alla domanda «dove sei stato?», lo zio aveva risposto «sulla luna», per un momento, giusto per un momento, entrambi, padre e madre, gli avevano creduto.
Da allora, zio Umberto aveva deciso di trascorrere la maggior parte delle sue notti nella bocca ridente della luna. Ci si tuffava dentro come da uno scoglio, tutto tremante di contentezza. Questa bocca era infatti piena d’acqua, un’acqua cristallina e buona da bere.
«Ci sono queste… creature là dentro, questi animali… Vorrei dire che somigliano ai pesci, ma non direi la cosa giusta, perché non hanno le pinne, come i pesci, e non hanno le branchie. E la loro bocca è una cosa strana, invisibile quando è chiusa e poi enorme quando è aperta, tanto da cambiare forma a tutto il loro corpo. Sembra che si rivoltino e la loro parte interna diventi esterna. Li guardo sempre con attenzione e mi chiedo dove abbiano il cuore, lo stomaco, l’intestino, ma non riesco a capirlo. Assomigliano ai fiori quando sbocciano, e come i fiori sono colorati».
Disegni di quei pesci fantastici non ne aveva mai fatti; sembrava non tentarci neanche, tant’erano complessi e surreali i loro corpi. La prima volta che gliene sentii parlare li sognai e sentii frizzarmi dentro tutta la felicità che lui mi aveva descritto; sentii il tepore dell’acqua e vidi la luce che sfiorava i boccioli di quel giardino subacqueo.

Dopo la morte del nonno e della nonna accadde quasi contemporaneamente; l’uno se ne andò nel sonno e l’altra lo seguì poche ore dopo le sue visite alla luna si fecero meno frequenti, questo perché tra mia madre e mia zia Francesca, il povero zio era sballottato da una casa all’altra, e costretto a dormire in letti che trovava scomodi e in ambienti che non gli erano familiari. In situazioni come quelle, la sua cecità si fece più profonda, totalizzante, e finì per impedirgli ogni azione.
Ricordo lo zio seduto sul divano, le spalle strette, e un pupazzo di stoffa tra le mani. Mia sorella lo chiamava “il bambino smarrito”, come uno di quelli che trovano rifugio sull’isola che non c’è. Solo che la sua isola era la luna, e lui, quando stava da noi, non aveva modo di raggiungerla.
Una mattina lo sorprendemmo davanti alla porta, la mano sulla maniglia, pronto a uscire. Mia madre cercò di convincerlo a restare, ma lo zio si lamentò: «ho sonno», e riflettendo sulle notti in cui lo aveva visto sveglio, troppe, non poté far altro che accontentarlo.
Aveva gli occhi gonfi e cerchiati di nero, il povero zio Umberto. Il suo corpo, già magro, si era assottigliato ancora di più a causa di una disappetenza ormai cronica. Guardarlo muoversi per le stanze, le braccia allungate a toccarne le pareti, i movimenti leggeri e silenziosi, mi faceva pensare a un omino di carta, di quelli che si ritagliano da una pagina tutta bianca. Perché zio Umberto, oltre al peso che lo manteneva fermo a terra, aveva anche perso quel po’ di colorito che ne faceva un uomo in carne ed ossa. Il pensiero di stargli facendo un torto anziché di aiutarlo nel tenerlo con noi, fece addirittura sussurrare a mia madre: «Forse dovremmo trovargli una badante e lasciarlo in casa sua, e la domenica la passeremmo qui tutti insieme».
Non credo che zio Umberto la sentì, eppure vidi che annuiva.
Lo riaccompagnammo a casa io e mia madre; papà si affrettò al lavoro.
La prima cosa che lo zio fece, dopo essersi assicurato che ci fossimo tutti tolti le scarpe e avessimo appeso i cappotti all’attaccapanni, fu di aprire la finestra della sua stanza. La luce del giorno illuminava le facciate dei palazzi sulla piazza sottostante e faceva brillare l’oro di cui erano ricoperte le lancette dell’orologio in cima alla torre medievale.
«Ho sonno» ripeté, e gli bastò stendersi sul letto per addormentarsi.
Mi addormentai anch’io, poco dopo. Non ero stanca, eppure cedetti alla forza misteriosa che mi chiuse le palpebre e mi adagiò la testa sul cuscino della poltrona di fianco a lui.
Quel pomeriggio toccò a me volare sopra la piazza e i tetti della città, e raggiungere la luna prima ancora che spuntasse. Vidi subito le orme lasciate dallo zio; erano grandi, il doppio delle mie, e profonde. In assenza di vento, non un granello della sabbia bianca che copriva la superficie del satellite si era mosso, da qui il loro essere intatte.
Le seguii, finendo prima sul confine della bocca che sbadiglia, poi su quello della bocca che ride e infine su quello della bocca imbronciata. Nella luce della prima avvenne la mia metamorfosi: non avevo più mani, gambe, piedi; ogni parte di me svolazzava in frammenti, come una manciata di coriandoli. Poi nell’acqua di cui era piena la bocca che ride mi ricomposi. Il mio volto riflesso negli occhi delle creature che vi incontrai me ne diede la conferma. Fu strano specchiarmici, perché mi accorsi che dentro al primo riflesso ce n’era un secondo, e così, incastrati l’uno nell’altro, se ne potevano contare decine. E ciascuno mi apparteneva.
Fuori da quella, corsi verso la bocca-broncio e mi persi. Cieca, coperta dal petrolio che mi aveva descritto lo zio, non percepii più lo spazio che mi circondava né l’orientamento del mio corpo. Dov’era la mia testa? Puntava ancora verso l’uscita o verso il fondale? E dov’erano i miei piedi? Impossibile muovere un solo muscolo, sbattere le palpebre e persino respirare. Il pensiero stesso era ridotto a un sibilo lontano, lo stesso emesso dal fiato dello zio Umberto.
Fu ascoltarlo con attenzione che mi condusse a lui. Il buio si dissipò per un attimo, i miei occhi si aprirono, e lo vidi che scavava con una paletta, di quelle usate dai bambini in spiaggia, una buca profondissima. Da lì, usciva uno schizzo di luce.
«Guarda, guarda che bello» mi disse, e indicò qualcosa al suo interno.
Non feci in tempo a capire che cosa si nascondesse dietro a quel brillio, perché un’improvvisa folata di vento mi svegliò.
Lo zio, invece, rimase indietro, a meravigliarsi della sua nuova incredibile scoperta.


© Orsola Damiani, 2023.

Flavia Catena è una fotografa professionista nata in Sicilia, ma residente a Londra. Ha conseguito una laurea in Editoria e Scrittura presso l’Università Sapienza di Roma e un Master in fotografia giornalistica. Oltre a raccontare attraverso le immagini che scatta, scrive. Ha lavorato come traduttrice e collaborato con alcune riviste online di critica letteraria e di viaggio. Alcuni suoi racconti sono comparsi sulle riviste Lunario, Spaghetti Writers, La Seppia, Rivista Piegami, Morel Voci dall’Isola e Salmace. Il suo racconto Viaggio di ritorno ha vinto il premio “Talentitalia” 2022.


Orsola Damiani, diplomata all’Accademia di Illustrazione di Roma, segue un Master in Incisione e poi… vola a Parigi per uno stage. Tornata in Italia, tra una china e un pennello approfondisce il fantomatico mondo dei computer. Crea il suo logo – un piccolo pesce rosso che nuota tra illustrazioni a mano e grafica editoriale – affiancando al lavoro di Illustratrice quello di Graphic Designer per la comunicazione e promozione di festival, mostre d’arte, stagioni e spettacoli teatrali, rassegne musicali ed eventi. Pubblica libri per ragazzi, crea illustrazioni per magazine online, riviste di moda, etichette di vini e birre.


Lascia un commento

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑