di Diletta Pizzicori
Nella sala fumatori il tanfo persistente di troppe sigarette si addensa in banchi di nebbia, una foschia grigiastra che trasfigura i contorni delle cose.
E la barca tornò sola.
La voce di Gino Latilla giunge ovattata. Il locale è gremito, tutto Martini e Old Fashioned, ma dove se ne sta seduto Carlo, il tintinnio dei bicchieri, la musica e gli echi delle risate appaiono lontani, persino un po’ distorti. È facile smarrire la strada, lì dentro.
Infatti Carlo si perde. Sbatte le palpebre, confuso. Possibile che la figura laggiù sia proprio Benedetta? La porta si chiude alle sue spalle, la nebbia pare che danzi sulle note di una vecchia canzone, agitata dallo spostamento d’aria.
Sola, sola.
E a me che me ne importa.
Dunque è così che accade, riflette Carlo, il momento di rivedere la persona amata arriva come in certe pellicole, con un sottofondo triste e malinconico, anche se non si è stati capaci di amare.
Anzi, forse soprattutto in quel caso.
Se fosse un film, la aspetterebbe con la gamba accavallata, aspirando un sigaro di tanto in tanto. Se fosse un film, non avrebbe un inquilino nei polmoni, magari sarebbe di nuovo giovane e aitante, mentre è da un pezzo che ha passato i cinquanta e si tinge i capelli. Se fosse un film, Carlo sarebbe una persona migliore, lo scrittore affermato che profuma di successo, e Benedetta lo amerebbe ancora.
Benedetta. È fin troppo giovane per lui, lo è sempre stata. Con il volto levigato che si ritrova, capelli neri vaporosi, labbra carnose e un’aria innocente, non poteva che fare l’attrice. Sembra la personificazione di un’ingenuità a tratti sconcertante, che Carlo non ha mai mancato di rimproverarle. Però, pazienza, è una cosa fin troppo bella.
A lui piacciono molto le cose belle, perciò se l’era presa nonostante la notevole differenza d’età e le accese proteste della famiglia di lei. Gli era sembrato naturale portarla a vivere in una casa appollaiata su uno scoglio, perché ne era innamorato, a modo suo. Da allora sono passati quasi quattro anni.
Il mare urlava cupo quella sera
E il legno della incognita straniera
Cercava aiuto in tutto quell’orrore.
La nebbia danza ancora, il turbinio del fumo assume l’aspetto di una tempesta, onde alte trenta metri e venti di burrasca. È come guardare nell’occhio del ciclone, impossibile distogliere gli occhi da Benedetta, che è proprio come piace a Carlo, una bellezza semplice e vera capace di elevarsi fino al cielo, ma che poi finisce sempre per essere trattenuta a terra da cose ignobili. Una stupida pelliccia di visone, ad esempio, o una collana pacchiana.
«Era ciò che volevi?» dice, quando lei si ferma a qualche metro di distanza. Niente giri di parole, solo un gesto vago al suo abbigliamento e uno sguardo micidiale, come ciò che ha provato vedendola arrivare.
Era ciò che volevi quando te ne sei andata?
Sa benissimo che lo giudicherà odioso, che lo detesterà per questo. Non importa. Deve essere Carlo a colpire per primo.
«Ciao anche a te, per la cronaca».
«Ti va di farmi compagnia?»
«Non sono sola».
«Posto ce n’è. Non mordo».
«Certo, come no».
Benedetta ha le labbra tirate e l’espressione triste dei loro litigi. Anche l’ultima volta che l’ha vista, sulla copertina di una rivista, gli era sembrato che avesse il medesimo sguardo. Quando si erano conosciuti era tutta un sorriso.
«Nome e cognome».
Con quello che costava l’affitto del teatro, era il secondo giorno di provini e Carlo non aveva ancora trovato l’attrice perfetta per il film tratto dal suo romanzo. Di sicuro dubitava che potesse essere una ragazzina di provincia, troppo giovane e, soprattutto, troppo uguale ad altre candidate che aveva già scartato.
«Benedetta Fornacini».
Carlo aveva aggrottato la fronte. «Vedo dal curriculum che non ha esperienza».
«Non ancora, signore».
«Inoltre non è neanche maggiorenne. Sotto i ventuno anni serve l’autorizzazione dei genitori e immagino che non ce l’abbia».
«L’avrò».
«Perché mai il regista dovrebbe sceglierla per interpretare la protagonista?»
«Perché voglio diventare un’attrice».
«Ma lei lo sa almeno chi è, il regista?»
L’aveva volutamente provocata, puntandole addosso la sua espressione più cinica e inafferrabile, quella che aveva impiegato una vita a perfezionare. Rendeva inquieti gli altri, li faceva sentire in difetto anche se non ne avevano alcun motivo.
Con un candore disarmante Benedetta aveva risposto: «È lei, per caso?»
E Carlo era scoppiato a ridere. «Senta, è quasi ora di cena. Che ne dice di proseguire la conversazione davanti a un piatto di pasta?»
Adesso Carlo sta per dire qualcosa però non fa in tempo. Dalla foschia si materializza un tizio sui trent’anni, biondino, un po’ sciatto. Ci scommetterebbe persino la camicia, vuole sfondare nel mondo del cinema e non lo farà mai davvero. È fin troppo facile detestare uno così, che, quasi quasi, potrebbe restargli simpatico.
«Ti presento Paolo Ginestri, sarà lo sceneggiatore del prossimo film di Luigi Zampa».
Come volevasi dimostrare, dunque.
«Paolo, lui è Carlo Manfredi, lo scrittore. Ci siamo conosciuti anni fa».
Questi gli tende una mano. «Non sa quanto sono onorato di incontrarla».
«Altrettanto. Prego, accomodatevi. Posso offrirvi un cocktail?»
«Lei cosa beve?»
«Un Boulevardier».
«Lo stesso per me».
La porta si apre, compare un cameriere. Benedetta ordina un Martini, e anche questo Carlo lo sapeva già.
Fanno un breve brindisi che gli dà l’occasione di osservarli. Stanno bene attenti a non sfiorarsi mai, però hanno un modo schietto di guardarsi negli occhi e Paolo le sorride un po’ troppo di frequente. Sono amanti, conclude, come a voler tirare la somma di una semplice addizione. Due più due fa quattro, è logico, assolutamente indolore. Ma non c’è niente di logico o indolore nel sapere che Benedetta sta con un altro.
Mare, mare crudele
Come puoi cantare
Nelle notti scure
Quando piange il cuore.
«Ho letto tutti i suoi libri, sa?»
«Mi fa piacere».
Paolo è felice di poter elencare i preferiti, si lascia andare persino a delle citazioni. Che lo voglia adulare, si chiede, o magari prendersi gioco di lui. Improbabile che non sappia che stava insieme a Benedetta, lei gliene avrà pur parlato oppure lo avrà letto da qualche parte. Ma presto Carlo decide che è soltanto sincero, assolutamente ingenuo.
Gli ricorda qualcuno.
All’inizio della loro relazione, aveva portato Benedetta con sé a Parigi, a conoscere tutti i personaggi famosi che popolavano la vita di Carlo Manfredi. Dopo aver passato un fumoso pomeriggio a Le Café de Flore con Louis Aragon, Serge Reggiani, Albert Camus e Michel Leiris, la serata era proseguita in un locale ancora più fumoso. Carlo aveva conversato per ore con Serge, mentre Benedetta era stata intercettata da Albert. Tornando in hotel, a notte fonda, lui aveva fatto il geloso tormentandola finché non si era addormentata tra le lacrime. L’indomani in camera era arrivato un enorme mazzo di fiori.
«Di chi è?» aveva domandato al facchino, con la solita innocenza.
«Sarà di quell’imbecille di Camus», aveva abbaiato Carlo. «Leggi il dannato biglietto, no?»
Lei lo aveva aperto con occhi sgranati, solo per scoprire che era un regalo di Carlo. Scarabocchiare “Cogliona, sono io” su un pezzettino di carta era stato il suo modo di chiederle scusa, l’unico che conoscesse. Benedetta gli aveva gettato le braccia al collo e, ridendo, lo aveva perdonato.
Ora Benedetta non ride, anzi siede in mezzo a loro a disagio, la schiena rigida, la bocca serrata attorno alla sigaretta che aspira nervosamente. Anche un cieco capirebbe che non vuole trovarsi lì. Paolo pare non notarlo. È parecchio impegnato a dissertare a proposito dell’ultimo libro di Carlo, quello che ha avuto un incredibile successo, e lui non può fare a meno di pensare che, quando ci stava lavorando, Benedetta era ancora nella sua vita.
«Vorrei leggerti ciò che ho scritto oggi» le annunciava la sera, dopo che avevano cenato e il vento ululava fuori dalla finestra. Lei gli si sdraiava accanto, sul letto, lo ascoltava paziente fino a che non aveva finito. Poi, puntualmente, Carlo le domandava: «Che ne pensi?»
«È bellissimo».
Gli rispondeva sempre così ed era la verità. Benedetta era incapace di mentire, diceva le cose col cuore. Come tutte le volte che gli si aggrappava al collo per sussurrare: «Ti amo».
Carlo non le rispondeva quasi mai, perché se c’era una cosa che gli risultava difficile era trattare di amore. Non ne scriveva, tantomeno ne parlava. Preferiva lasciare che a sbrigarsela fosse il corpo, e allora la stringeva tra le braccia, la baciava con ardore, la soddisfaceva, e un tempo era stato sicuro che ciò fosse sufficiente, che a Benedetta bastasse per conoscere i suoi sentimenti.
Quanto si sbagliava. La ragazza era troppo giovane per capire quel suo misterioso bisogno di erigere un muro tra sé e gli altri, di mantenere le distanze, e lui troppo bravo a usare le parole per farla soffrire. O a non usarle.
Carlo l’aveva ferita così tante volte. Litigio dopo litigio, le cose non dette avevano finito per diventare innumerevoli appuntamenti mancati che il corpo non era più riuscito a cancellare. Non aveva fatto altro che allontanarla, finché Benedetta se n’era andata davvero.
Chi sarà. Mah!
Mare crudele.
«Posso chiederle a cosa sta lavorando?» domanda Paolo, sbuffando il fumo di una Edelweiss. «La prego, mi dica che si tratta di un altro romanzo».
«Può darsi».
«Meglio non credergli» borbotta Benedetta.
«Quindi lei è stato scritturato da Luigi Zampa» fa Carlo, per tenere viva la conversazione. Ha paura che i due si alzino e vadano via. Così per rivederla dovrà attendere la prossima rivista, o il prossimo film.
Paolo è felice di mettersi a parlare della sceneggiatura. Carlo si dimostra interessato, e di tanto in tanto lo sguardo gli cade su Benedetta. Lei fa di tutto per fingere che non le importi ma si vede che è solo orgogliosa. Anche questo è buffo: quando l’ha conosciuta non sapeva nemmeno cosa fosse, l’orgoglio. Evidentemente aver vissuto tre anni insieme l’ha cambiata.
La verità è che sono cambiati entrambi in peggio.
«Carlo, ho un ritardo. Credo che…»
Quando Benedetta gli aveva rivelato di essere incinta, con un tono come di scuse, era stata una sorpresa. Eppure era piuttosto semplice: nessuno dei due prendeva precauzioni, Carlo era sostanzialmente sano, tranne quel problema ai polmoni, e Benedetta così giovane. Avrebbero dovuto prevederlo, lui per primo. E invece Carlo si era persino infuriato.
Non gli era mai, mai capitato prima di commettere un così grave errore! Era sempre stato concentrato su se stesso, sulla sua carriera, sui libri, sul mito che aveva creato di sé, di uomo di successo, bello, granitico, inarrivabile, che adesso gli era inconcepibile anche solo l’idea di doversi occupare di pannolini e ninnananne, di crescere un figlio e invecchiare a furia di corrergli dietro.
«Di certo non è mio!» aveva cominciato a sbraitare per mascherare lo smarrimento.
«Come puoi dire una cosa del genere?!»
«Stai cercando di incastrarmi, non è vero?»
«Carlo!»
«Ma guardati, l’attricetta che vuole assicurarsi un futuro solido spillando soldi al ricco scrittore!»
«Razza d’imbecille che non sei altro!»
«Non avrai una lira da me, puoi starne certa! Va’ a chiederla al fruttivendolo, al macellaio, a chi ti pare, non a me!»
«Io… ti odio!»
La lite era finita come al solito, con Benedetta chiusa in bagno a singhiozzare e Carlo a cercare di sbollire la rabbia da qualche parte. Quella volta era andato a piedi fino in paese, passando per la mulattiera a picco sul mare dove non c’era mai anima viva. Aveva fatto ritorno parecchie ore dopo e, nel silenzio dell’imbrunire, la casa gli era apparsa ancora più solitaria.
L’aveva trovata seduta davanti a una finestra spalancata, e vedendola osservare le onde tinte dalle luci del tramonto aveva provato una fitta al cuore a cui non era riuscito a dare un nome. Mentre la spuma si dissolveva contro gli scogli, non aveva saputo fare altro che accendersi una sigaretta, nervoso. Cercava la cosa giusta da dire, lui che aveva sempre pronta una battuta sagace, ostile addirittura.
Benedetta lo aveva anticipato. Puntandogli addosso i suoi occhi scuri, infinitamente tristi, aveva detto: «Mi ero sbagliata, non sono incinta. Non più almeno».
Lui si era inginocchiato, le aveva poggiato la testa sulle gambe. Le parole gli si erano accalcate in bocca ma Carlo era stato capace di tirare fuori solo un sussurro: «Mi dispiace».
Mi dispiace di essere stato crudele, di non sapere amare. Mi dispiace di non riuscire a darti ciò di cui hai bisogno.
Impossibile scriverle, o dirle ad alta voce. Se ne stavano lì, ferme, e presto avrebbero perso ogni significato. Ma lui ci provava, ci provava a stringerla, a baciarla, a lasciare che a parlare fossero le mani, la lingua…
Mare, se di un amore
Soffocasti in gola
L’ultima speranza
L’ultima parola.
«E tu, invece?» le chiede quando finalmente Paolo si zittisce.
Lei lo guarda interdetta, il calice fermo a pochi centimetri dalle labbra, quelle labbra che Carlo vorrebbe tanto poter sfiorare di nuovo.
«Io?»
«Tu, sì».
Persino adesso la verità preme per uscire, lui è tentato di dire l’impensabile. Sì, noi due, insieme. Ti prego, ti amo.
Potrebbe quasi giurare che Benedetta stia pensando qualcosa di molto simile, glielo legge dentro. Del resto è sempre stata un libro aperto, con quel viso angelico, gli spigoli del naso, i capelli neri e lucenti. Così ingenua, così vera e giovane. L’unica donna che aveva davvero legato a sé, con il solo risultato di spingerla più lontano delle altre.
«Lavoro. Me la cavo», aggiunge dopo qualche istante.
Carlo annuisce, affrettandosi a indossare la sua maschera di indifferenza, quella che ha impiegato tutta la vita a costruirsi, che lo tiene al riparo, che lo protegge. Eppure, da qualche parte dentro di sé si sente morire.
Me la cavo: sono le stesse parole che Benedetta ha usato durante il loro ultimo litigio, il peggiore.
«Sei impossibile, Carlo! Non ce la faccio più!» aveva sbottato, esasperata da una discussione che durava da giorni, precisamente da quando gli aveva comunicato la volontà di portare avanti la carriera di attrice.
«Sapevi a cosa andavi incontro quando sei venuta a vivere con me, Benedettina».
«No che non lo sapevo. E non ti azzardare a chiamarmi così!»
Carlo si sentiva in colpa a vederla in lacrime, ma era anche il motivo per cui provava una rabbia cieca. Perché il pianto di Benedetta gli restituiva tutta la brutalità della sua cattiveria immotivata.
«Abbozzala con le sceneggiate, non sei mica una bambina».
«Non immaginavo che potessi essere tanto spietato e cinico. Mi sento soffocare in questa casa».
«Ma sentitela! Sveglia, mia cara, il mondo è spietato e cinico. Così è la vita. Cresci».
Benedetta si era asciugata le guance. «Cresci tu, piuttosto. Non saprò molte cose, come non manchi di farmi notare, però una cosa la so per certo: sei peggio di un bambino. Sei un arrogante narcisista, egoista e bugiardo. Ti nascondi dietro le tue belle pagine, scrivi e scrivi, per mostrarti spavaldo, per farti dire che sei bravo, perché in verità sei un uomo profondamente insicuro, incapace di provare dei sentimenti per qualcuno che non sia te stesso».
Carlo aveva riso, una risata cattiva che gli aveva graffiato la gola, risvegliato l’inquilino. Per sedare la tosse si era acceso una sigaretta. «Non capisci proprio niente, sei solamente una stupida ragazzina. Una povera stupida Benedettina».
«Invece capisco benissimo e ti assicuro che questa sarà l’ultima volta che mi vedi». E aveva subito preso a ficcare i vestiti nel borsone che teneva sotto al letto, evidentemente per un’occasione del genere.
Carlo si era puntellato i fianchi con aria di sfida. «Dove diavolo pensi di andare?»
«Via di qui, tanto per cominciare».
«Vuoi tornartene dai tuoi genitori? Guarda che non ti vogliono, tu li hai lasciati per stare con me».
«Non me ne importa un accidente, né di loro, né di te! Me la cavo da sola».
«Chi diavolo sarai senza di me?»
«Sarò chi mi pare e piace».
«Se te ne vai adesso, è finita per davvero» aveva tuonato Carlo, credendo di poter porre fine alla questione a suo piacimento. Benedetta non poteva davvero lasciarlo, non così. Era lui che colpiva per primo, ed era sempre lui che infliggeva l’ultimo colpo.
«Cristo, non chiedo altro! Addio».
Carlo aveva provato a urlare qualche ingiuria, ma Benedetta non lo ascoltava già più, si era allontanata a passo svelto lungo la mulattiera. Lo aveva lasciato così, senza aggiungere altro, e lui si era ritrovato da solo in una casa lambita dalle onde. Carlo, che col suo successo era stato felice di comprarsi la solitudine, aveva finito per scoprire che faceva un male cane.
Mare, mare crudele
E la barca tornò sola.
«Benedetta, fa la modesta» interviene Paolo, «ma è un’attrice ormai più che affermata. Sta lavorando con Enzo Trapani e Ugo Tesei».
«Ne sono contento» dice Carlo, riaccendendosi il sigaro.
«Grazie».
Non resta molto altro di cui parlare. Benedetta spegne la sigaretta e si alza, Paolo la aiuta a indossare la pelliccia smuovendo appena la nebbia densa della stanza.
«La ringrazio per il Boulevardier» fa lui con una vigorosa stretta di mano.
«Per così poco».
«Arrivederci, signor Manfredi, aspetto di leggere il suo prossimo romanzo».
«Arrivederci, e in bocca al lupo per il film».
Benedetta si limita a lanciargli un’occhiata colma di appuntamenti mancati e cose non dette. Carlo si vede riflesso nel suo sguardo: un uomo sul viale del tramonto, che malgrado il fascino e il successo, non riesce a farsi volere bere davvero da nessuno, nemmeno da se stesso. È un altro cazzotto nello stomaco, ma più violento.
Se prima era convinto che lei provasse ancora qualcosa per lui, adesso capisce che qualsiasi sia la natura del sentimento che li lega, è comunque insufficiente. Niente potrà cancellare le lacrime, i litigi, le cose cattive che le ha detto, tutti quei pomeriggi passati a guardare il mare infrangersi sotto alla finestra.
In fondo, è difficile ammettere che Benedetta aveva ragione; potrà essere diventato adulto, aver avuto successo nella vita, eppure continua a comportarsi come un bambino. Lui è esattamente un arrogante narcisista, egoista, bugiardo. Un uomo insicuro, incapace di amare.
E tuttavia Carlo ha la bocca piena di parole, stavolta deve riuscire a cavarne qualcosa. Cos’è opportuno dire in momenti simili: mi dispiace, perdonami, ti amo? Il grande scrittore non ne ha idea.
Alla fine dice soltanto: «Nei prossimi giorni partirò. Credo che non ci rivedremo per un po’».
La vede annuire, l’espressione quasi sollevata. «Così è la vita, Carlino, cresci».
Poi la nebbia si infittisce, Benedetta ci sparisce dentro. La porta si apre, ma la musica non c’è più. La canzone è già finita.

Diletta Pizzicori nasce fiorentina, ma cresce pratese. Lettrice appassionata e archeologa, si interessa in particolare di storia del ‘900 e microstoria toscana. Scrive libri di narrativa, anche sotto pseudonimo, e si occupa di ghostwriting. Nel tempo libero si dedica ad articoli critici e racconti. Suoi contributi sono apparsi su «Limina», «Articoli liberi», «Quaerere», «Spaghetti Writers». Con Sperling & Kupfer ha pubblicato I nostri anni leggeri (2021, premio “Silvana Macucci”, X edizione del Premio Letterario “Raffaele Artese” Città di San Salvo), Un giorno come ogni altro (ebook, 2022) e Gli anni dei ricordi (2023).
Alessandra Comaroli è originaria della provincia di Brescia, classe 1973, architetto di professione. L’arte e la poesia la appassionano da sempre. Il collage analogico, suo nuovo spazio creativo, è diventato la sua “striscia di prato al sole”.

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