Spesso, sotto un portico,
Sbuffetta in me quell’inverna
Voglia bianca
Che neve a tatto
Di portico in portico
Sbuffa crista,
Lì naviga la mente mia.
Tra le ciocche e cappotto
Sulle dita sulla fronte
Fioccola e gode me,
Corpo.
Picchetta un’ansia nera,
Inverna anch’essa
Le teste: pascola, muto, un galoppo;
Io voglio vagar in un videogioco
Dove morte m’è amica
Il fioccare nulla innera
E senza carne io,
Vita
Soffia, seguendo il passìo
Del calpesto vibro, un vento,
Il tacco smuove foglia e poi
Calda l’ombra del mattino.
Marcia anima sul cemento!
Brana l’udita sinfonia,
Puntella dolce l’orecchio
E soffia un vento a tempo.
Un nervo inarca la tasca,
Batte e canta, pulsa e trema
L’Idea.
Marcia anima sul cemento…
L’alba, nel finir d’assillo,
È vinta sera
***
Non vi credo, Io, se dell’alba vedete la luce e non la luce in schermo. Ahia per i sommersi che credono alla favola ed io per primo son sommo relitto in favola, nuova e vecchia, relitto d’un mare secco e sempre vaporoso. Nebbiano tra le piaghe terre e s’arrotolano i vapori su e ancor più sulla mia testa, son benda larga e molle che s’arriccia e culla la vista. Son tanti i vapori che par quasi che il mare secco non d’acqua sia pieno, ma di vapori e nebbia. Sul fondo io son relitto che par, per te lettore che m’osservi in costa, navigar nel tanto mare.
Son relitto di ferro e carne, e tu, che in terra stai, dimmi se vedi quel faro che tanto s’augura!
Non torre alta e larga, ma piccolo faro che par quasi candela, sempre accesa, nelle tasche delle mille e dei mille. Sì quel che tieni stretto al giorno e t’accompagna la sera è il faro mio nel tanto mare.
Sì quel che rimproveri come mezzo e moraleggi è la tua mano e l’occhio per ogni cosa. E altro non possiamo dire se non che è nostro e solo nostro.
Un telefono per poter navigar fermo nel tanto mare, sì che le reti son viaggi e sì che tutti son naviganti. Tu che in terra stai col libro in mano sei fermo e ancor più ancorato di me. Ora ho un telefono per candela, vapori sulla mia testa e una benda larga e molle che s’arriccia e culla la vista.
Quest’ultimo son io e quell’ultimo son io.

Leonardo Taverni, nato a Narni (TR) nel 1998, vive e studia a Bologna dal 2017. Laureato in Lettere Moderne con una tesi in Letteratura Italiana Contemporanea su Elio Vittorini (La «Prosa speciale» di Conversazione in Sicilia, un confronto con la poesia: analisi stilistica dell’opera, con il professore Stefano Colangelo), è attualmente laureando magistrale in Italianistica. Al presente collabora con il semestrale di poesia «Metaphorica» diretto da Saverio Bafaro. Alcuni suoi inediti sono comparsi nelle riviste «La Locomotiva – Quaderno di poesia» e «L’Altrove – Appunti di poesia».
Gaia Santini, nata a Peccioli (PI) nel 2001. Si è formata dapprima al Liceo Artistico di Volterra, poi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove attualmente è iscritta al corso di laurea di scultura. Nei suoi lavori predilige una forte gestualità in simbiosi con il suo carattere energico. In conflitto con il presente, getta i propri turbamenti sui suoi personaggi, creando così un ponte tra la propria sensibilità e il mondo esterno. Attraverso le polveri, il gesso e la materia trova una libertà inedita a cui spesso affianca testi poetici.

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