La bara bianca

di Francesca Coppola

Sghignazzava, non c’era freno a quel risolino scomposto. Era seduto sulla panca di legno vecchia. Indossava il vestito gualcito del matrimonio e si contorceva dalle risate.
L’organo faceva il proprio dovere, diffondendo musica grave e triste. Le persone attorno erano costernate, non indossavano vestiti scuri. Sirto si chiedeva il motivo di tanto colore. C’era la ragazza bionda col tubino verde petrolio, l’altra col top rosso e la gonna beige, probabilmente pronta per recarsi a un party in spiaggia.
La bara bianca era chiusa e non sarebbe stata aperta per sua specifica richiesta. Qui non c’era nessuno: Milena, per quello che lo riguardava, era ancora a scuola.
Quel giorno lo avevano trascinato in chiesa, sua moglie si era sistemata sul palchetto superiore, dalla parte del coro. Lui cercava di concentrarsi, o forse l’esatto contrario, e così squadrava ogni persona lì presente. Aveva notato un motociclista, non sapeva chi fosse perché non si era nemmeno tolto il casco. Quella figura gli ricordò Nello: con lui aveva passato gran parte delle sere a “tirare” coi motorini; a neanche vent’anni non si fanno grandi discorsi, anzi si sprecavano i ricordi delle birre all’alba e i tuffi nel mare di febbraio. Una volta però, dopo aver rollato una canna gli chiese: “O’ fra’ che vuoi dalla vita?”. Lui scrollando le spalle rispose che non voleva farsi fottere dalle aspettative, che andava bene pure essere tipo fuoco d’artificio. “Attento a ciò che chiedi” gli disse quello, “i desideri sono maldestri: il contrario di ciò che vuoi avrai”.
Le crepe dovrebbero divorare il pavimento della chiesa. Il bianco della veste del sacerdote non dovrebbe essere tanto appariscente.
La madre della bambina si era rifiutata di sedersi in prima fila. Lei era una donna di chiesa, cucinava alle feste di paese, dava lezioni di catechesi. Credeva al grande disegno divino. “I Piani del Signore a volte sono incomprensibili” diceva. Sirto era solo sulla panca troppo lunga, c’erano mani in fila pronte a stringere saluti di condoglianze. Si ritrovò a immaginare, a un certo punto, di veder sprofondare tutti quegli arti che lo cercavano per mostrargli vicinanza. Avrebbe sepolto con piacere anche gli sguardi di compassione. Vaffanculo all’estrema unzione, si diceva, siamo tutti dannati.
In verità, credeva che non era questa la casa di Milena. Milena aveva la sua casa, la nostra casa. La stessa che mesi prima aveva contenuto le urla di gioia della bambina quando era finalmente arrivata la cameretta tanto desiderata. Avevano trascorso ore a sistemare tutti i giocattoli, scelto con cura la predisposizione in ordine di gradimento. Milena si era seduta sul bordo del lettino, aveva preso la sua bambola preferita: voleva spazzolarle i capelli e aveva chiesto alla madre di prendere la spazzola. La mamma aveva cercato di spiegarle che non era igienico utilizzare gli oggetti delle persone per giocare coi pupazzi. La bimba non capiva quale fosse il problema, iniziò a piagnucolare e così il papà prese la spazzola dal cassettino in bagno e gliela porse inginocchiandosi ai lati del letto. “Glielo spiegheremo poi” disse, facendo un cenno alla moglie. Sirto pensava che il poi non era più giunto, e che non ci sarebbe mai stato: non avrebbe più potuto parlarle di niente, non ci sarebbero state marachelle dolci, non avrebbe percorso di fretta la strada per andare a prenderla all’istituto e lei non lo avrebbe abbracciato una volta visto.
«Accogliamo oggi, con tanto dolore, la nostra piccola Milena. Che gli angeli l’abbiano in gloria…»
Il sermone, sempre uguale per tutte le dipartite. E vaffanculo pure agli angeli. Dov’era l’angelo custode della bambina quando era scomparsa?
La piccola stava nel boschetto, fra le mani ancora la bambola. Il corpo senza vestito. L’aveva portata così tante volte in quel luogo, dopo la scuola o la domenica mentre la madre, tornata dalla messa delle dieci, preparava il pranzo. “Papà, papà” gridava “spingi forte, più forte” e poi dall’altalena raggiungeva il lago e lanciava molliche alle ochette. Era stata ritrovata già fredda con una serie di graffi. Qualcuno aveva anche notato che non avesse più alcune unghie. Sembrava un burattino messo in posa: braccia conserte, gambe leggermente accavallate. Aveva un’espressione contratta, i capelli ancora legati in due codini.

D’improvviso un rumore: la bara bianca incominciò a muoversi, qualcuno gridava, qualcuno graffiava il legno. «È la mia Milena, salvate Milena, sta soffocando!» urlò Sirto. La chiesa divenne un caos. La bara venne rovesciata, il corpo cadde a terra, senza scomporsi. La bimba indossava un abitino rosa, lo stesso che prendeva di nascosto per vestire la sua bambola. “Milena, amore non vedi che è troppo grande per lei?” diceva la sua mamma. Lei rispondeva che “stava aspettando che crescesse, così sarebbero andate insieme al parco e non sarebbe stata più sola”.
Il giorno prima del funerale la donna si era rinchiusa nella cameretta, raccoglieva la polvere e interrogava i giocattoli. “Chi vuole andare con mia figlia?” diceva. Nessuno aveva risposto e allora, uno ad uno, li aveva scaraventati a terra. Poi aveva preso un grosso sacco e li aveva raccolti al suo interno: così avrebbero compreso la paura del buio di Milena.
C’era odore di bruciato. L’aria invasa da particelle di paura. Per un momento tutti i presenti alzarono il viso, naso all’insù: una donna, di piccola costituzione, aveva preparato un feticcio con tutti i giocattoli della figlia morta. Si trovava sulla tribuna, alle spalle del coro, quando iniziò a bruciare i capelli della bambola.
Aveva desiderato che da quella chiesa nessuno sarebbe uscito vivo.


Melissa Brusati, 2023.

Francesca Coppola, 1982, napoletana di Portici. Ha pubblicato due raccolte di poesie: Non togliermi il vestito (LietoColle, 2017) e Ultimatum dall’inverno (Ensemble, 2019).  Suoi racconti sono o saranno pubblicati su «Salmace», «Grande Kalma», «Lo Scisma», «multiperso», «Nido di Gazza», «Tremila battute», «Enne2», «Quaerere», «Malgrado le mosche», «Super Tramps Club», «Nabustorie», «E(i)sordi», «Birò con l’accento», «Racconticon». Ogni giorno si reinventa e ogni volta ne è insoddisfatta.


Melissa Brusati. Estate 1994, Melissa nasce in casa perché alla madre fanno schifo gli ospedali, cresce al nord tra i mari quadrati e sogna di morire presto. Non è battezzata ma Dio ha la forma delle suore della scuola materna e della nonna testimone di Geova che non le suona al citofono. Melissa mangia tutto, piange tanto, respira la musica e schifa la gente. Melissa sogna di diventare pittrice ma scopre di non avere una famiglia benestante. Inizia a lavorare ma se ne pente. Incomincia quindi a studiare illustrazione e arti grafiche speciali all’Accademia delle Belle Arti di Novara. Si pente anche di questo. Secondo gli astrologi è fortunata in amore.


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